Creare una strategia nazionale sull’utilizzo della blockchain, approfondire la conoscenza su questa tecnologia e progettare investimenti pubblici e privati nell’ambito. Questi gli obiettivi che hanno spinto il Mise a organizzare un gruppo di esperti, dando loro il compito di lastricare la via da percorrere per sviluppare al meglio registri condivisi e blockchain.
La prima riunione del gruppo si è tenuta lunedì 21 gennaio 2019, per fare il punto sulla situazione attuale in Italia: «La capacità tecnica dei nostri esperti non è seconda a nessuno in Europa. Quello che è mancato fino adesso, è stato un approccio organico», spiega ad Agendadigitale.eu Ernesto Damiani, direttore del Center on Cyber-Physical Systems, Khalifa University, Abu Dhabi, membro del gruppo individuato dal Mise.
La sfida che si prospetta sarà quella di individuare i modi più efficaci per restare al passo con l’innovazione tecnologica, ma anche quella di dare al Paese gli strumenti necessari ad affrontare un futuro in cui la blockchain potrebbe essere ancora più ampiamente diffusa, in ogni settore. Le applicazioni di interesse pubblico di questa tecnologia già oggi sono svariate, con ruoli sia nella pubblica amministrazione digitale che in ambito privato.
La tecnologia blockchain in Italia
Attualmente, in Italia non mancano gruppi di ricerca, di studio e di applicazione della blockchain. Per quanto poco nota al pubblico, in realtà questa tecnologia è ampiamente trattata da accademici e tecnici: «Gli italiani sono coinvolti in progetti anche internazionali. Fino adesso però è mancata un’idea di quali sono i settori e le applicazioni in cui dotarsi di progetti pilota – ha spiegato Damiani -. Non c’erano stati indirizzi, una strategia nazionale, anzi gli auspici europei erano che si facesse qualcosa, che si studiasse come può contribuire al Paese». Ci sono le capacità, ma manca un indirizzo da seguire, ora sembra però che l’obiettivo sia proprio quello di trovarne uno.
Mauro Conti professore di Sicurezza informatica all’Università di Padova ha individuato come «l’intenzione del Mise con la creazione del gruppo di esperti e gli annunci di investimento su questa tecnologia sembra essere probabilmente quella di un passo avanti», dice alla nostra testata. Spesso si associa la blockchain unicamente al tema delle criptovalute: «Il tema importante è capire come questa tecnologia al di là delle criptovalute possa essere usato per innovare lo Stato, i servizi che può offrire la PA e innovare come questi servizi possono essere offerti – ha aggiunto Conti -. Ci sono sicuramente alcune problematiche, per esempio quella della tracciabilità, per cui blockchain può avere un grande potenziale».
A rendere difficoltoso l’approccio a questa tecnologia, è anche il fatto che sia molto recente: «Il 4 gennaio 2018 sono stati dieci anni dal blocco zero del Bitcoin – ricorda Stefano Capaccioli, cultore in Informatica giuridica avanzata all’Università Statale di Milano -. La blockchain è un’innovazione estremamente giovane, è un nuovo mondo che ha colto di sorpresa tutti. Come ogni innovazione tecnologica, può essere rifiutata o analizzata, gestita e verificata sui suoi plus e minus. Rifiutarla può portare al fatto che domani Paesi più attenti ci investano con le loro società, così come successo con internet: il risultato è sotto gli occhi di tutti». Un pensiero espresso anche da Gianluca Comandini, cofondatore dell’associazione di categoria Assobit: «Purtroppo abbiamo perso tempo prezioso aspettando che altri Paesi facessero per primi un passo verso lo sdoganamento di questa tecnologia. Oggi, anche alla luce della nomina della task force governativa e dell’adesione alla partnership europea abbiamo sicuramente una chance di ritornare in pista e colmare il gap. I prossimi sei mesi saranno fondamentali per accelerare e essere al passo degli altri Paesi europei».
Anche Tamara Belardi, docente di Diritto comparato delle nuove tecnologie all’Università telematica internazionale UniNettuno, ha rilevato come ci sia stata un’iniziale diffidenza verso la tecnologia della blockchain, ma che ora il vento sembra soffiare in una diversa direzione: «L’Italia sta mostrando grande interesse nei confronti delle nuove tecnologie. Dopo una prima fase di esitazione, il nostro Paese ha prima aderito alla European Blockchain Partnership (EBP) e, successivamente, ha istituito il gruppo di lavoro presso il Mise per elaborare una strategia nazionale in materia. Nel prossimo futuro, quindi, l’Italia sarà impegnata nello sviluppo congiunto della European Blockchain Services Infrastructure (EBSI) e nell’elaborazione di un piano strategico per favorire lo sviluppo di progetti legati alla Blockchain technology, all’AI e all’IoT».
Cosa fare con questa tecnologia
Ma a che cosa deve fare l’Italia con la tecnologia blockchain, in ambito di pubblico interesse?
«Un blockchain act o comunque un codice della blockchain e dei registri distribuiti in grado di porre l’Italia all’avanguardia delle tecnologie emergenti», è quanto ha suggerito il professore di diritto della blockchain e intelligenza artificiale di Uninettuno Fulvio Sarzana, avvocato specializzato nel digitale.
Sarzana ha sottolineato come la regolamentazione dei registri distribuiti coinvolga temi finanziari, fiscali, di regolamentazione dei documenti all’interno della pubblica amministrazione, ma anche temi di interesse del cittadino come quelli relativi alla democrazia diretta attraverso le nuove tecnologie. «Partendo dalla regolamentazione sandbox adottata da diversi paesi l’Italia potrebbe diventare il battistrada con sede europea di una legislazione organica sulle tecnologie emergenti», suggerisce Sarzana.
«Ciò che dovrebbe fare qualsiasi altro Paese su questo pianeta: comprendere, applicare, formare», dice Comandini.
«Ormai, a oltre dieci anni dalla prima applicazione di questa tecnologia, i fatti ci dicono che è con tutta probabilità una delle più importanti rivoluzioni tecnologiche a cui abbiamo mai assistito, forse superiore addirittura all’avvento di internet – continua Comandini. Sappiamo che la blockchain ha le carte in regola per rivoluzionare intere strutture e sistemi tradizionali in molteplici settori e ambiti diversi tra loro, penso alla sanità, alla gestione di qualsiasi tipo di diritti, alla contabilità, alla contrattualistica, ai brevetti, al catasto e così via. Dobbiamo solo identificare le priorità o i casi d’uso più adatti al nostro Paese».
Dunque è un terreno in gran parte inesplorato, dalle differenti applicazioni: «Ci dà la possibilità di organizzare la nostra società in modo diverso. Inoltre, lo Stato può creare un ecosistema in cui attraverso la blockchain aziende e servizi possono dare una marcia in più al Paese – ha rilevato Capaccioli -. Questa tecnologia può avere un grande potenziale, per gestire certificazioni, ma anche smart contract». Si punta dunque sempre di più alla dematerializzazione. In questo senso, per Damiani, un aiuto concreto arriverà in materia di dati e di trasparenza: «Possiamo pensare di avere queste infrastrutture al posto dei registri, nella PA. Per le PMI invece, è rilevante il costo legato all’adempimento burocratico, situazione che porta anche a possibilità di evasione. La blockchain può diminuire i costi e aumentare la trasparenza del sistema a beneficio di tutti diminuendo le zone di opacità».
Ma non solo, anche il mondo finanziario e della sanità digitale potrebbero vedere l’applicazione della blockchain: «Gli use case relativi a queste tecnologie sono numerosi. Di conseguenza, molti sono anche i settori coinvolti: dalla Pubblica Amministrazione a quello finanziario, da quello assicurativo a quello sanitario. Non sempre, tuttavia, le tecnologie in questione rappresentano la soluzione più efficiente ai problemi da risolvere, di qui la necessità di studiarle a fondo, al fine di sfruttarne al meglio le potenzialità», ha precisato Belardi. «Ecosistema dei servizi sanitari o attività di indagine forense» sono i campi di applicazione anche individuati da Mauro Conti, che ha sottolineato l’importanza dell’impegno dell’Europa nel finanziare progetti di integrazione della tecnologia.
Le sfide da affrontare
Il percorso per arrivare all’integrazione della blockchain nelle attività più comuni della PA e dei privati non solo è ancora da individuare con chiarezza, ma pone di fronte a diverse sfide. In primis, l’aspetto tecnico, o meglio la necessità di avere un’infrastruttura di rete robusta per supportare il tutto: «Bisogna siano coinvolti gli operatori delle telecomunicazioni per far partire grandi progetti. Bisogna lavorare sull’aspetto tecnologico, come organizzare il supporto, i tipi di tecnologie da usare, la capacità della rete di gestire il carico perché significherebbe spostare nel mondo digitale transazioni che sono fatte su supporto informatico ma non sulla rete», ha sottolineato Damiani.
Ma al di là dei problemi tecnici da analizzare, l’introduzione della blockchain nella vita quotidiana pone di fronte alla necessità di adeguare le norme alla nuova tecnologia. Damiani ha spiegato che «Tutte queste novità devono avere un riconoscimento normativo, se la legge dice che devo mandare per forza una raccomandata mi trovo in difficoltà a sostituirla con una transazione blockchain. Sulla parte contrattualistica, bisogna ad esempio prevedere l’opzione per le parti di usare la blockchain. La blockchain è il miglior ambiente per la documentazione e la garanzia dell’integrità dei contratti». La normativa è la sfida principale anche secondo Conti: «L’Italia è stata tra i primi Paesi a legiferare sulla possibilità di concludere i contratti online. Serve un aspetto normativo, perché riconoscere validità giuridica a ciò che avviene con i sistemi blockchain è fondamentale.
Capire che caratteristiche devono avere, da chi devono essere gestite. Vedo molte similitudini col processo per introdurre i documenti digitali e per concludere i contratti online». Oltre allo scoglio normativo, per cui «il problema più impellente è la poca chiarezza», ha commentato Comandini, resta da affrontare anche il fattore umano. La blockchain attualmente non gode di ampia popolarità, viene avvertita come difficile ed è poco conosciuta ai non addetti ai lavori: «Siamo un paese lento ad apprendere e ancor più lento ad abituarsi. Dobbiamo correre se vogliamo competere con gli altri Paesi e non restare ancorati nel passato», ha aggiunto.
Per Tamara Belardi, la soluzione sta nel fare formazione: «A mio avviso, la formazione rappresenta una delle principali sfide da affrontare. Negli altri Paesi ci sono università che da anni ormai prevedono percorsi formativi ad hoc, in grado di assecondare le richieste del mercato. Per quanto riguarda l’Italia, invece, un dato positivo c’è ed è la maggiore consapevolezza, rispetto al passato, della necessità di figure qualificate. Si assiste, infatti, ad un incremento dell’offerta formativa in materia, anche di tipo universitario. La strada da percorrere, tuttavia, è ancora in salita».
Investimenti e adeguamenti normativi necessari
Quello della formazione può essere dunque un possibile terreno di investimento per garantire la diffusione dell’innovazione portata dalla blockchain. Una formazione che, per Gianluca Comandini, andrebbe fatta su larga scala, attraverso informazione e divulgazione: «Abbiamo già commesso un errore con la firma digitale, con la Pec, con la fattura elettronica. Tutti strumenti utilissimi ma che non abbiamo saputo spiegare e raccontare ai cittadini stessi che dovrebbero utilizzarli. Dobbiamo insegnare ai cittadini italiani il perché questa tecnologia può rendere loro la vita più comoda e il come farlo». Il rischio, altrimenti, è che nessuno usi la tecnologia, avvertita come distante e complicata.
Anche investire sull’infrastruttura, rendendola adeguata a sostenere il carico delle transazioni in rete, è individuato come un passaggio necessario: «Ci vuole la blockchain disponibile come servizio sulla rete di telecomunicazione, non abbiamo ancora visto casi d’uso di blockchain su 5G. Lo Stato può facilitare gli investimenti, o richiedere investimenti privati», ha sottolineato Damiani. Finanziamenti dunque di natura pubblica e privata. Per Belardi, l’ideale per favorire lo sviluppo di questa tecnologia sarebbe creare «dei fondi appositi, che allo stesso tempo sostengano i processi di innovazione delle imprese. Quanto agli interventi normativi, invece, ritengo che l’intero sistema non possa che trarre vantaggi dall’esistenza di norme chiare e redatte da un legislatore erudito».