L’approccio cinese alla tecnologia blockchain è molto cambiato nel corso degli anni. Dopo un iniziale scetticismo, Beijing sta infatti puntando a diventare uno dei leader mondiali anche in questo ambito dello sviluppo digitale. Dal lancio del tredicesimo piano quinquennale e dall’uscita del primo Libro bianco sulla tecnologia blockchain e il successivo sviluppo di un numero di applicazioni della blockchain da parte del Ministero dell’Industria e della Tecnologia Informatica, il Partito Comunista Cinese sembra aver compreso quanto la blockchain possa diventare un asset politico e geopolitico per il Paese, se guidato bene.
Blockchain in Cina, il contesto
Pensando alla centralizzazione che caratterizza il sistema Cinese non stupisce che, in prima istanza, il governo abbia cercato di controllare, quando non disincentivare, la diffusione di questa nuova dirompente tecnologia. Definita come “il nuovo internet”, la blockchain può essere infatti descritta come un registro distribuito di transazioni di varia natura, liberamente accessibile e basato sul consenso tra i partecipanti alla rete stessa. In essa, secondo William Nonnis, “non vi è centralizzazione, ma una distribuzione orizzontale delle informazioni. In virtù dell’immutabilità dei dati inseriti nel suo circuito, motivo per cui ogni transizione iscritta non può essere modificata, né eliminata, la blockchain conferisce inoltre fiducia e trasparenza ai soggetti e alle operazioni coinvolte”.
Bitcoin, perché la Cina ha bloccato tutto: si entra in una nuova fase
In Cina, la fase iniziale dello sviluppo della tecnologia blockchain, all’incirca tra il 2013 e il 2017, ha visto il fiorire di piccoli investitori e sviluppatori privati concentrati soprattutto su cripto valute e blockchain pubbliche. La domanda di criptovalute, secondo il Merics, era sostenuta da una serie di fattori tra i quali il fatto che un numero crescente di persone avesse visto aumentare rapidamente i suo redditi ma al contempo incrementare il controllo sui sui capitali. Le cripto valute offrivano, in questo contesto, un’interessante opzione per differenziare gli investimenti di capitali.
Durante la seconda fase, dal 2017 al 2019, la crescita di quella che era stata un’industria non in larga parte non regolamentata subì una battuta d’arresto. L’incapacità statale di controllare la diffusione delle cripto valute, insieme alla proliferazione di pratiche criptografiche fraudolente, portarono la Banca centrale cinese, il Ministero dell’industria e dell’informatica e altri organismi di regolamentazione, nel settembre 2017, a vietare il commercio di cripto valute. Come conseguenza di questi sviluppi, molte startup blockchain cinesi sviluppatesi negli anni precedenti si trasferirono all’estero. Questo periodo vide però anche alcuni giganti tecnologici di Pechino entrare nel business e lanciando blockchain private in settori diversi da quello delle cripto valute.
La svolta
Nell’ottobre 2019, la politica Cinese in tema di blockchain ha subito un ulteriore svolta, che si è materializzata in prima battuta nelle parole del presidente Xi Jinping secondo il quale i progressi nelle tecnologie chiave avrebbero dovuto essere accelerati per fornire “un supporto tecnologico sicuro e controllabile per lo sviluppo della blockchain e della sue applicazioni”. Nello stesso anno, la Cyberspace Administration of China ha redatto delle disposizioni amministrative per la gestione dei servizi informatici basati sulla tecnologia blockchain che di fatto imponevano alle piattaforme operanti sul territorio Cinese di raccogliere i dati degli utenti e consentire alle autorità governative di accedervi.
Si è visto così il progressivo emergere in Cina di una configurazione della blockchain strettamente controllata e guidata dallo stato. Ad esempio, EOS, una blockchain molto apprezzata dal governo, è stata fondata su un modello secondo il quale gli utenti votano per i rappresentanti e solo questi possono verificare le transazioni e prendere decisioni in merito agli aggiornamenti del sistema. Tutte le transazioni nella blockchain EOS sono approvate solo da 21 nodi principali, 12 di questi si trovano in Cina.
Sempre nel 2019 la Cina ha inoltre lanciato la propria rete di servizi basata sulla blockchain (BSN) fondata sul principio del permesso. Questa rete è stata concepita per diventare un progetto internazionale, una rete per supportare diversi tipi di applicazioni blockchain, il vertice della quale sarà gestito da un consorzio formato da società cinesi e un’agenzia governativa statale. Il governo cinese sta quindi promuovendo un tipo specifico di blockchain che non è aperto o completamente decentralizzato ed sul quale cui ha la possibilità esercitare un grado di controllo. In situazioni estreme, addirittura di spegnere il sistema. Secondo quanto riportato dal Manifesto “il governo cinese vuole sfruttare il potere della tecnologia blockchain, purché sia blockchain con caratteristiche cinesi. Questa nozione rifiuta molte delle idee fondamentali associate alla blockchain e alle criptovalute”.
La Cina come una sandbox
In un certo senso, la Cina può essere vista come la più grande “sandbox” di regolamentazioni sulla blockchain al mondo. Oltre alla prevedere la possibilità di accesso governativo ai dati, lo sviluppo della tecnologia e la sua adozione si possono infatti verificare in Cina entro i confini specifici di questa sandbox (le così dette “red lines”). Tipicamente queste red lines sono:
- comportamenti fraudolenti,
- vendita di token,
- attività criminali come il riciclaggio di denaro e l’evasione dei controlli sui capitali,
- consumo di energia.
Il 3 giugno, il governo centrale cinese ha per esempio sancito severi requisiti volti a contenere il consumo di energia, impattando in particolar modo sul settore del mining. Secondo Wired: “I miner stanno incontrando difficoltà in diverse regioni cinesi, a prescindere dal fatto che le loro attività siano alimentate dal carbone, come nello Xinjiang e Mongolia interna, o dall’energia idroelettrica, come Yunnan e Sichuan”. D’altra parte, sempre secondo William Nonnis, il mining è un settore in cui la Cina è avvantaggiata rispetto ai suoi competitor internazionali per una maggiore disinvoltura nella politica ambientale e soprattutto per le pratiche di delocalizzazione cinese in paesi come lo Yemen, dove l’energia ha costi molto più bassi.
Le applicazioni
Ad oggi l’approccio della Cina alla blockchain si dipana in un numero molto vasto di applicazioni, dal settore bancario, a quello delle smart cities, al supporto alle attività di polizia, nonché al raccoglimento di prove online contro i dissidenti. Pechino ha inoltre inserito la blockchain nella sua agenda diplomatica e promosso la cooperazione sul campo attraverso i forum esistenti, quali ad esempio il Forum di cooperazione Cina-Paesi dell’Europa centrale e orientale (PECO) del 2019, e nell’ambito di altri vertici e iniziative, tra cui la “Belt and Road Initiative” (BRI).
Conclusione
La blockchain è una tecnologia emergente che rimane in gran parte in fase di sperimentazione, ed il cui potenziale, plausibilmente, non è ancora stato liberato, né forse compreso. È quindi forse prematuro valutare con precisione la strategia Cinese, e quanto si rivelerà efficace e sostenibile sul lungo periodo. Ciò che è certo è che questa tecnologia sta diventando la nuova arena di competizione tra potenze globali, in cui modelli contrapposti si confrontano e paradigmi diversi vengono sviluppati ed esportati. Una sfida tra una blockchain decentralizzata ed orizzontale ed una blockchain compatibile con modelli sistemici differenti da quello occidentale. E l’ aspetto forse più preoccupante di questa dinamica è, similarmente a quanto accaduto con la diffusione di internet, la crescente incompatibilità delle narrative, accompagnata da una percezione reciproca sempre più conflittuale, con margini di cooperazione che si riducono progressivamente al crescere della minaccia che le possibili narrative alternative pongono.