La normativa

Codice proprietà industriale, quanti dubbi: perché è urgente migliorare il testo

Il disegno di legge di revisione del Codice della proprietà industriale presenta luci e ombre, tra cui alcuni fronti critici dal punto di vista tecnico che rischiano di pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi previsti

Pubblicato il 16 Mag 2022

Cesare Galli

Avvocato e titolare della cattedra di Diritto industriale nell'Università degli Studi di Parma

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Passa ora all’esame del Parlamento, dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del 6 aprile scorso, il disegno di legge del Governo di revisione del Codice della Proprietà Industriale, che s’inquadra nel programma di “Riforma del sistema della proprietà industriale”, indicato nel PNRR.

Questo testo è però ancora molto lontano dal “definire una strategia pluriennale per la proprietà industriale, con l’obiettivo di conferire valore all’innovazione e incentivare l’investimento nel futuro”, come è appunto previsto dal PNRR, e sarà necessariamente seguito da altri interventi di maggiore peso. Esso inoltre presenta una serie di criticità tecniche, che possono pregiudicare almeno in parte i suoi obiettivi e richiedono quindi di essere corretti nel passaggio in Commissione.

Codice proprietà industriale, perché migliorare il testo è urgente

La correzione è urgente per non ripetere gli errori che hanno caratterizzato gli interventi in materia di proprietà intellettuale operati nel corso di questa legislatura, con l’unica rimarchevole eccezione dell’attuazione della Direttiva marchi (peraltro predisposta da una Commissione di esperti prima delle ultime elezioni) e dell’introduzione dei brevetti IT-PCT (ossia della possibilità di aprire anche una procedura nazionale di brevettazione sulla base di una domanda internazionale di brevetto PCT, a sua volta frutto del lavoro dei medesimi esperti e dell’Ordine dei Consulenti in Proprietà Industriale).

Questo disegno di legge trova i suoi punti più qualificanti, conformi alle linee del Piano Strategico sulla Proprietà Industriale per il triennio 2021-2023, varato dal Ministro Giorgetti con D.M. 23 giugno 2021 nel nuovo ruolo conferito dalla ricerca universitaria (artt. 3 e 4 del disegno di legge, il primo dei quali riforma l’art. 65 del Codice della Proprietà Industriale ed il secondo vi introduce un art. 65-bis) e nella semplificazione amministrativa e digitalizzazione delle procedure davanti all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, cui è dedicato l’intero capo II del provvedimento.

I passaggi più rilevanti

Particolarmente rilevanti, sotto quest’ultimo profilo, sono la soppressione dell’obbligo di trasmissione di documentazione cartacea a corredo delle domande presentate all’UIBM (art. 10), l’ampliamento della possibilità di accesso e di utilizzo del sistema di deposito telematico all’Ufficio, che verranno consentiti alla sola condizione che sia accertata l’identità digitale dell’utente (sempre art. 10), e l’estensione dell’utilizzo dei servizi digitali disponibili presso organismi esteri (art. 11), ma senz’altro apprezzabili sono anche altre regole di semplificazione, come quella che rende facoltativa la trascrizione degli atti relativi alla frazione italiana di un brevetto europeo che siano già stati oggetto di trascrizione presso l’EPO (art. 9), o quella che snellisce la procedura per la concessione dei brevetti per nuove varietà vegetali (art. 12).

Codice proprietà industriale, gli obiettivi

Con questo disegno di legge continua dunque la strada che l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi è stato fra i primi a percorrere, nell’ambito della Pubblica Amministrazione, verso una digitalizzazione che si traduca anche in facilitazione per gli utenti (e quindi in un valore aggiunto per il mondo imprenditoriale e per il “Sistema Paese” nel suo complesso) e quindi in incentivo ad acquisire diritti di proprietà industriale, facendone anche per le nostre imprese – e in particolare per le PMI – l’asse portante dello sviluppo, come in effetti già avviene in tutta Europa.

Basti pensare che dal documento di sintesi dell’indagine Industrie ad alta intensità di diritti di proprietà intellettuale e risultati economici nell’Unione europea, realizzata in collaborazione da EPO e EUIPO (la cui più recente edizione, risalente al settembre 2019) risulta che “Le industrie ad alta intensità di DPI (Diritti della Proprietà Intellettuale: n.d.r.) attualmente rappresentano quasi il 45 % del PIL europeo e contribuiscono direttamente alla creazione di quasi il 30 % di tutti i posti di lavoro”, come si sottolinea anche nel Piano d’Azione sulla Proprietà Intellettuale varato nel novembre 2020 dall’Unione Europea (Comunicazione della Commissione UE COM (2020) 760, Sfruttare al meglio il potenziale innovativo dell’UE-Piano d’azione sulla proprietà intellettuale per sostenere la ripresa e la resilienza dell’UE).

Cosa dice il testo

Si tratta dunque di ulteriori passi avanti nella prospettiva della piena digitalizzazione dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, che auspicabilmente proprio il PNRR consentirà di completare: nel già richiamato Piano Strategico sulla Proprietà Industriale per il triennio 2021-2023, il capitolo dedicato all’obiettivo di “Consentire l’utilizzo di procedure rapide, efficaci e a costi contenuti” punta infatti essenzialmente proprio sulla digitalizzazione, per consolidare e rafforzare gli obiettivi già raggiunti, attraverso la “manutenzione evolutiva dell’attuale sistema telematico di deposito presso l’UIBM”, che pure già oggi “consente di lavorare telematicamente la quasi totalità delle procedure di competenza del Ministero in materia di PI e di gestire annualmente (dati 2020) oltre 171.000 domande di titoli”, come ricorda appunto il Piano, in particolare prevedendo:

  • “il completo trasferimento su supporto telematico di tutte le procedure amministrative, ivi comprese quelle relative al deposito delle domande di brevetto europeo e di marchio internazionale (per le quali l’UIBM funge da Receiving Office), in modo tale che gli utenti, se interessati, possano interagire con l’Amministrazione per ogni loro esigenza via web;
  • “il rilascio di nuove funzionalità di ricerca ed estrazione dei dati disponibili sulle banche dati nazionali dedicate, al fine di consentire all’utenza di tutelare i propri titoli o di produrne e/o provarne validità e titolarità (…);
  • “lo sviluppo di nuovi applicativi che consentano al Ministero di svolgere in maniera più efficiente l’esame delle domande depositate e lo scambio dati con le principali istituzioni europee ed internazionali di tutela della P.I., come l’EPO, la WIPO e European Union Intellectual Property Office (EUIPO) e di rendere efficaci le ricerche sui database nazionali e internazionali dei titoli italiani di PI”.

Gli strumenti normativi per la semplificazione

Sempre in ottica di semplificazione, del resto, il legislatore italiano era già intervenuto pochi mesi fa con il D.M. n. 119/2021, in vigore dal 9 settembre 2021, che aveva modificato il Regolamento di attuazione del Codice della Proprietà Industriale (D.M. n. 33/2010), operando in particolare sulle norme in materia di limitazione e su quelle sull’accesso ai fascicoli e all’integrazione dei documenti non presenti al momento della presentazione della domanda. Di questo intervento opportuna era anzitutto la modifica dell’art. 33 del Regolamento sull’accesso ai fascicoli delle domande e dei titoli, che non contempla più la possibilità per il richiedente di chiederne la riservatezza e ne consente quindi sempre l’accesso ai terzi “purché non ricorrano le ipotesi di esclusione dal diritto di accesso secondo la vigente normativa. Sono, comunque, escluse dal diritto di accesso le domande di brevetto e di modello di utilità per cui è stata dichiarata l’irricevibilità o per cui è stata depositata una istanza di ritiro prima della data in cui la domanda è resa accessibile al pubblico ai sensi dell’articolo 53, comma 3, del Codice”.

Parimenti opportuno, sempre a salvaguardia dei terzi, è l’inserimento all’art. 40 del Regolamento di un comma 7-bis che, per la trascrizione della licenza, prevede che la dichiarazione di avvenuta concessione di licenza presentata per la trascrizione in luogo del contratto “indica se si tratta di licenza esclusiva o non esclusiva e se riguarda l’intero diritto o solo parte dei diritti tutelati dal titolo concesso in licenza”.

La documentazione

Utile anche la specificazione che è stata introdotta nell’art. 42 del Regolamento, secondo cui, in caso di mancata presentazione nel termine previsto dalla stessa norma dei documenti di cui ci si fosse riservato il deposito dopo la presentazione della domanda “l’Ufficio procede ai sensi dell’articolo 173, comma 7, del Codice (e cioè alla richiesta di osservazioni al richiedente prima del rigetto definitivo della domanda: n.d.r.), se si tratta di documenti per i quali era prescritto un termine perentorio di presentazione”, mentre negli altri casi “comunica la mancanza dei documenti al richiedente assegnando un termine, non prorogabile, per il loro deposito”.

Il diritto al brevetto per dipendenti di università ed enti pubblici

Tornando al disegno di legge ora presentato al Parlamento, l’altro intervento più significativo è costituito dalla “controriforma” della disciplina delle invenzioni dei dipendenti delle Università e delle istituzioni pubbliche di ricerca, con l’attribuzione alle istituzioni di appartenenza del diritto al brevetto, loro sottratto nel 2001 dalla Legge 18 ottobre 2001, n. 383 (cosiddetta “Tremonti-bis”, o “legge dei cento giorni” del secondo Governo Berlusconi), che aveva introdotto nell’allora legge invenzioni un art. 24-bis, in base al quale il diritto di brevettare le invenzioni realizzate da dipendenti di Università ed enti pubblici di ricerca veniva sempre attribuito ai dipendenti medesimi, anche quando l’attività inventiva rientrava nelle loro mansioni contrattuali, anziché all’ente di appartenenza, cui andava solo una quota percentuale dei proventi di sfruttamento delle invenzioni stesse.

Tutto ciò in deroga alla regola opposta, valida per ogni altro dipendente, privato e pubblico, che assegna i diritti sulle invenzioni realizzate dai dipendenti all’ente di appartenenza nell’adempimento del proprio rapporto di lavoro, salvo naturalmente riconoscere all’inventore il diritto “morale” di essere indicato come autore dell’invenzione e – solo in determinati casi – un “premio”, commisurato al valore dell’invenzione, alla sua posizione nell’impresa e al maggiore o minore merito dell’inventore stesso nel realizzarla.

Questa norma, molto mal formulata anche dal punto di vista tecnico, era stata criticata sia dai giuristi, sia dalle Università e dagli enti di ricerca, cui sottraeva proventi che avrebbero potuto finanziare le loro attività istituzionali, ed in primis proprio quelle di ricerca (nel nostro Paese pressoché prive di finanziamenti pubblici adeguati), sia dagli ambienti imprenditoriali, per le ricadute negative che la norma poteva avere sul finanziamento della ricerca pubblica da parte di privati. Col varo del Codice della Proprietà Industriale, nel 2005, venne almeno ovviato quest’ultimo inconveniente, introducendo alla norma in cui la disciplina di cui all’art. 24-bis legge invenzioni era confluita (appunto l’art. 65 C.P.I.) un comma 5°, in base al quale “Le disposizioni del presente articolo non si applicano nelle ipotesi di ricerche finanziate, in tutto o in parte, da soggetti privati ovvero realizzate nell’ambito di specifici progetti di ricerca finanziati da soggetti pubblici diversi dall’università, ente o amministrazione di appartenenza del ricercatore”.

Dopo di che, la delega per la riforma del Codice (contenuta nell’art. 19 della legge 23 luglio 2009, n. 99) incluse espressamente tra i criteri che il legislatore era tenuto a seguire quello di “prevedere che, nel caso di invenzioni realizzate da ricercatori universitari o di altre strutture pubbliche di ricerca, l’università o l’amministrazione attui la procedura di brevettazione, acquisendo il relativo diritto sull’invenzione”: ed in effetti la Commissione di esperti incaricata di predisporre lo schema di decreto legislativo di attuazione della delega propose l’adozione di una norma in tal senso e del relativo regime transitorio. Sennonché, con un autentico colpo di mano, il Consiglio dei Ministri che approvò il decreto legislativo 13 agosto 2010, n. 131 pensò bene di espungere tale norma dal testo del decreto (ma non la relativa disposizione transitoria, che è invece stata inserita, e si trova tuttora, nell’art. 239 C.P.I., ancorché non abbia nulla da regolare…), dunque astenendosi su questo punto dall’esercitare la delega che pure era stata concessa dal Parlamento.

Gli effetti del disegno di legge

Dunque, questo disegno di legge, se sarà approvato, porrà rimedio con dodici anni di ritardo ad una manifesta ingiustizia, sindacabile anche in termini di illegittimità costituzionale, non essendo evidentemente giustificabile un disparità di trattamento così marcata tra situazioni del tutto equivalenti. Mentre però il testo del nuovo art. 65 C.P.I. che era stato predisposto dalla Commissione di esperti del 2010 aveva dettato una disciplina delle invenzioni dei ricercatori omogenea a quella generale prevista dall’art. 64 C.P.I. per tutti gli altri dipendenti-inventori, con le sole peculiarità giustificate dalla loro appartenenza a istituzioni pubbliche di ricerca, quella oggi proposta differisce da quella generale sotto plurimi profili, che non hanno alcuna giustificazione e che sono quindi sindacabili per incostituzionalità, essendo del tutto irrazionali.

Anzitutto la norma attribuisce alle Università e agli altri enti pubblici di ricerca il diritto a brevettare tutte le invenzioni realizzate dai loro dipendenti, comprese quelle conseguite al di fuori del rapporto di lavoro e per le quali la regola generale dettata dall’art. 64 C.P.I. riserva al datore di lavoro solo un’opzione per acquisirne a tiolo oneroso la titolarità (o una licenza su di esse) e solo se l’invenzione rientra nel suo campo di attività: dunque la norma che ora si vorrebbe introdurre introdurrebbe una disparità di trattamento capovolta rispetto a quella che verrà eliminata, ma egualmente ingiustificata e quindi sindacabile in termini di incostituzionalità.

A questa discriminazione in pregiudizio dei dipendenti-inventori se ne affianca una seconda invece a loro favore, ma non meno irrazionale, attribuendo loro “in ogni caso … una remunerazione non inferiore al 50% degli introiti derivanti dallo sfruttamento economico dell’invenzione”, mentre ai dipendenti-inventori sulle invenzioni la cui titolarità è attribuita al datore può solo spettare un “equo premio” calcolato nel modo già ricordato supra (con un metodo in base al quale esso è sempre largamente inferiore al 50%) e che, in ogni caso, compete loro solo se l’attività inventiva non formava oggetto del loro rapporto di lavoro e non era quindi a tale scopo retribuita. Per giunta, viene prevista una terza discriminazione – non meno irrazionale e quindi sindacabile sotto il profilo della violazione del principio costituzionale di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. – che prevede che, in caso di invenzioni realizzate da inventori appartenenti a diverse istituzioni di ricerca, i proventi siano suddivisi sempre in parti eguali tra esse, salvo loro diverso accordo contrattuale, mentre la norma generale in materia di comunione (art. . 1101 c.c., richiamato dall’art. 6 C.P.I.) dispone che, in caso di pluralità di autori, vi sia solo una presunzione di uguaglianza delle quote, superabile attraverso la prova del diverso apporto dato da ciascun inventore.

L’ufficio di trasferimento tecnologico

Più fondata – essendo qui possibile sostenere che sussiste una eadem ratio che la giustifica – è invece l’equiparazione che verrebbe operata dalla nuova norma di cui si propone l’adozione tra inventori dipendenti degli enti di ricerca sottoposti a questa disciplina speciale e gli altri soggetti “che hanno titolo a partecipare alle attività di ricerca, compresi gli studenti dei corsi di laurea per i risultati inventivi conseguiti nell’ambito delle attività di laboratorio o nei percorsi di laurea”; forse più dubbia quella, pure prevista dal disegno di legge ora presentato, che applica questa disciplina anche “alle università non statali legalmente riconosciute e agli organismi che svolgono attività di ricerca e di promozione delle conoscenze tecnico-scientifiche senza scopo di lucro”.

Senz’altro positiva è poi la disposizione programmatica contenuta nell’art. 65-bis di cui si propone l’adozione, che indirizza gli enti di ricerca a dotarsi “anche in forma associativa … di un ufficio di trasferimento tecnologico”, che operi “anche attraverso la promozione di collaborazioni con le imprese” e che sia dotato di personale “di qualificazione professionale adeguata allo svolgimento delle attività di promozione della proprietà industriale”: per quanto queste indicazioni possano sembrare ovvie, ed in effetti siano già largamente seguite (si pensi all’Associazione Netval per la valorizzazione della ricerca pubblica, cui aderiscono 64 Atenei ed oltre 40 altri Enti Pubblici di Ricerca, IRCCS, Fondazioni e Agenzie), l’ulteriore diffusione di queste best practices va senz’altro incoraggiata.

La ricerca finanziata da terzi

Del tutto inopportuna, invece, è l’eliminazione della previsione di cui all’ultimo comma dell’attuale art. 65 C.P.I., a mente del quale le deroghe all’art. 64 C.P.I. non si applicano nel caso di ricerca finanziata da terzi: infatti, anche se questo disegno di legge attribuisce nuovamente alle Università e agli altri enti pubblici di ricerca il potere di disporre dei diritti sulle invenzioni dei loro dipendenti, questa disciplina continua a derogare significativamente a quella generale dell’art. 64 C.P.I. ed è ovvio che per i finanziatori – specie le imprese private, nel caso di invenzioni su commessa – essa è molto più affidabile, sia perché è quella che essi sono abituati ad applicare nei rapporti con ogni altro soggetto, sia perché è ormai oggetto di un’ampia giurisprudenza applicativa, invece pressoché assente sull’art. 65 C.P.I. (e ovviamente tutta da costruire sulla nuova versione di essa). Il rischio è pertanto quello che, come accadde all’epoca dell’introduzione dell’art. 24-bis legge invenzioni, venga disincentivata la collaborazione tra ricerca pubblica italiana e mondo delle imprese, il cui sviluppo rappresenta quindi la finalità principale di questo intervento normativo.

La protezione provvisoria dei modelli

Ulteriore novità contenuta nel disegno di legge è la previsione di una “protezione provvisoria” (in realtà una priorità per la registrazione che intervenga entro sei mesi) dei disegni o modelli che “figurino in una esposizione, ufficiale o ufficialmente riconosciuta, tenuta nel territorio dello Stato o nel territorio di uno Stato estero che accordi reciprocità di trattamento”: così recuperando un istituto analogo che era già previsto dal vecchio comma 5° dell’art. 34 C.P.I., abolito nel 2010 e che si ispira all’art. 11 della Convenzione di Unione di Parigi del 1883.

Le esposizioni internazionali

Questo istituto avrà peraltro un impatto molto limitato: le “esposizioni internazionali ufficiali o ufficialmente riconosciute” sono infatti solo quelle riconosciute come tali dal BIE-Bureau International des Expositions, conformemente a quanto previsto dalla Convenzione di Parigi del 22 novembre 1928, e cioè – sulla base del testo attualmente vigente di tale Convenzione, più volte modificato – le Esposizioni Universali (considerate “ufficiali”), di durata massima di 6 mesi e aventi cadenza quinquennale (come l’Expo di Milano 2015) e quelle che si tengono tra due Esposizioni Universali, su temi specifici e di durata non superiore a 3 mesi (considerate “ufficialmente riconosciute”).

D’altra parte, però, a differenza delle esposizioni universali del passato, che miravano a presentare le più recenti innovazioni in tutti i campi, le Expo contemporanee non sono più fiere campionarie: e questo, se da un lato rende improbabile che vi compaia un grande numero di nuovi disegni e modelli, dall’altro fa sì che non necessariamente le Expo comportino la conoscenza di essi tra gli ambienti interessati dell’Unione Europea. Ciò richiederà quindi una maggiore attenzione da parte delle imprese, per evitare di vedersi opporre registrazioni che beneficeranno di questa priorità, pur senza avere acquisito la notorietà qualificata (appunto la conoscenza per gli ambienti interessati dell’Unione Europea) che fa sorgere il diritto su un modello comunitario non registrato; quest’attenzione è del resto già oggi richiesta, posto che l’art. 44 del Regolamento C.E. n. 6/2001 prevede una “Priorità di esposizione” (come viene più correttamente definita), dal meccanismo analogo (ma meno laborioso) della “protezione provvisoria” che si intende ora introdurre nel nostro ordinamento.

Il divieto di sequestro

Un impatto parimenti limitato, per le stesse ragioni, avrà anche la rimozione dall’art. 129 C.P.I. del divieto di sottoporre a sequestro industrialistico (essendone ammessa solo la descrizione, oltre che il sequestro penale, sussistendone i presupposti) i prodotti che “figurino nel recinto di un’esposizione, ufficiale o ufficialmente riconosciuta, tenuta nel territorio dello Stato, o siano in transito da o per la medesima”: dottrina e giurisprudenza (si veda in particolare Cass., 22 dicembre 1993, n. 12705) avevano infatti già messo in luce il carattere eccezionale del divieto, che come tale non era estensibile alle altre esposizioni fieristiche prive dell’ufficialità richiesta dalla norma.

Conclusione

Questo testo normativo presenta dunque luci ed ombre – non ultima quella della mancata correzione della recentissima norma sulla licenza obbligatoria di brevetto per i casi di emergenza sanitaria nazionale, formulata in modo così tecnicamente scorretto da renderla pressoché inapplicabile –: cosicché non si può che auspicare che il Parlamento non si limiti a un esame formale di questo disegno di legge, ma proceda, anche tramite audizioni di esperti, a migliorarlo, ponendo rimedio alle storture che rischiano di comprometterne l’efficacia.ì

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