La pubblicazione, da parte dell’AGID (Agenzia per l’Italia Digitale), della lista di riscontro per la visite ispettive e la certificazione di conformità per i conservatori accreditati, ci fornisce l’occasione per approfondire le tematiche relative alle sfide che la società digitale pone in materia di conservazione di documenti. Si tratta di una materia che, diciamolo, affonda le radici nella cultura antica: se noi oggi possiamo leggere le opere dei classici, lo dobbiamo alle diverse tecniche che, nel corso dei secoli (e dei millenni), hanno consentito il tramandarsi dei documenti. E la loro conservazione, appunto. “Chi dematerializza, non digitalizza”, sottolinea Gianni Penzo Doria, direttore generale dell’Università degli studi dell’Insubria, in un pezzo che analizza le sfide che un sistema di conservazione digitale degno del terzo millennio deve affrontare.
Il punto è che la dematerializzazione, intesa come semplice trasferimento di un documento su supporto tecnologico, riesce al massimo a riprodurre un contenuto, ma non tramanda il documento originale. “Uno degli insegnamenti più importanti del progetto di ricerca internazionale Interpares – sottolinea il docente – è stata la dimostrazione dell’impossibilità scientifica di conservare un documento digitale nella sua forma originaria, nemmeno attraverso un’ibernazione informatica. Possiamo soltanto conservare la copia affidabile del contenuto, mai la forma”. E possiamo replicarla. La soluzione è che non bisogna conservare il documento, ma mettere a punto un sistema che ne garantisca almeno la corretta contestualizzazione. Il digitale, spiega Penzo Doria, diventa semplicemente un diverso ambiente di conservazione, non un diverso supporto.
Si tratta di un problema che gli esperti di archivistica si sono sempre posti. Prendiamo l’esempio (forse più facile da capire), di un’opera letteraria. Diverse edizioni contengono differenze, di testo, di contenuto, di formato. Nel corso del tempo il rischio è che le edizioni che si susseguono, con tutti i cambiamenti che contengono, facciano perdere l’opera originaria. Non solo: se il sistema di riproduzione non è corretto, dell’opera originaria non si perde solo la “memoria”, ma anche la conoscenza. Nel senso che non si riesce più a risalire al testo che l’autore aveva scritto di suo pugno. Ora, un buon sistema di archivio consente di trovare facilmente un’opera che si trova all’interno di un vasto insieme (un libro in una biblioteca). Un buon sistema di conservazione consente di replicare con fedeltà il testo originario. Anche quando si perdono per strada dei pezzi (per esempio, la bozza scritta di primo pugno dall’autore).
Questo vale per un libro, ma anche per qualsiasi altro documento. La sfida della conservazione non riguarda solo le pubbliche amministrazioni, ma anche le imprese. Il digitale viaggia velocemente: nel giro di pochi anni abbiamo cambiato diversi supporti fisici (floppy disc, cd, dvd, chiavette, server), e oggi siamo nell’era del cloud (la cosiddetta nuvola informatica). Nicola Savino, in un articolo che sottolinea la necessità di digitalizzare i processi prima che i documenti, fa l’esempio del papiro, che storicamente è stato un ottimo supporto per garantire la trasmissione dei documenti. La sfida del digitale è dunque quella di consentire la conservazione del documento consentendo, quale che sia l’evoluzione dei supporti che si susseguiranno, l’integrità, l’unicità, l’affidabilità, del documento originale.
Tornando all’attualità, Luigi Foglia (Direttivo ANORC) descrive le fondamentali novità contenute nella circolare AGID sulle attività ispettive, “una vera e propria check list ad uso dei valutatori redatta in conformità ai requisiti tecnici richiesti dalle regole tecniche sui sistemi di conservazione”. Ed esprime l’auspicio che, anche in base alle esperienze che seguiranno, sia possibile in futuro «perfezionare la formulazione del documento» risolvendo una serie di criticità che ancora rimangono.