Lo scenario

Criptovalute, cosa dice la legge e come gestirle in pratica: i chiarimenti della Cassazione

La Corte di Cassazione si è pronunciata sugli aspetti normativi delle criptovalute, permettendo di chiarire alcuni ambiti dal punto di vista delle regole e fornendo punti di riferimento per la corretta gestione delle monete virtuali: un approfondimento utile per capire il quadro della situazione

Pubblicato il 08 Ago 2022

Angelo Alù

studioso di processi di innovazione tecnologica e digitale

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La Corte di Cassazione con quattro sentenze si è pronunciata sulle implicazioni giuridiche delle criptovalute, focalizzando alcuni interessanti spunti di riflessione dedicati al tema delle monete virtuali. In particolare, la Suprema Corte fornisce utili coordinate ermeneutiche da utilizzare nella concreta prassi, ove comincia a proliferare una casistica oltremodo complessa e problematica da cui emergono incerti e controversi profili qualificatori destinati a diventare sempre più centrali nel dibattito giuridico per l’incremento esponenziale di condotte virtuali volte allo scambio e al trasferimento di criptovalute.

Le novità affermate dalla Cassazione offrono lo spunto per approfondire il quadro normativo vigente in materia, evidenziando le principali fonti regolatorie di riferimento.

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Criptovalute, il quadro delle regole

L’intervento ermeneutico della Suprema Corte può, infatti, essere esaminato anche alla luce di quanto previsto, sul piano normativo, dal D.lgs. 231/2007 (“attuativo della Direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonché della Direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione”) e dal D.lgs. 90/2017 (“attuativo della Direttiva 2015/849/UE relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo e recante modifica delle Direttive 2005/60/CE e 2006/70/CE e in attuazione del Regolamento 2015/847/UE riguardante i dati informativi che accompagnano i trasferimenti di fondi e che abroga il regolamento 1781/2006/CE”).

In materia è successivamente intervenuto il D.lgs. 125/2019 (recante “modifiche ed integrazioni ai decreti legislativi 25 maggio 2017, n. 90 e n. 92, attuativo della Direttiva 2015/849/UE, nonché della Direttiva 2018/843/UE che modifica la Direttiva 2015/849/UE relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario ai fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo e che modifica le Direttive 2009/138/CE e la Direttiva 2013/36/UE”). Occorre, infine, menzionare il D.lgs. 195/2021 (“attuativo della Direttiva 2018/1673/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2018, sulla lotta al riciclaggio mediante diritto penale”).

Il Decreto MEF 2022

Ad integrazione delle citate disposizioni legislative è stato adottato il Decreto MEF del 13 gennaio 2022 per stabilire “modalità e tempistica con cui i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale e i prestatori di servizi di portafoglio digitale sono tenuti a comunicare la propria operatività sul territorio nazionale nonché forme di cooperazione tra il Ministero dell’economia e delle finanze e le forze di polizia”.

Criptovalute, definizioni normative

In combinato disposto con l’art. 1, comma 2, lett. qq) del D.lgs. 231/2007, il D.lgs. 90/2017 definisce la valuta virtuale come “la rappresentazione digitale di valore, non emessa da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”.

I prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale identificano “ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale, o in rappresentazioni digitali di valore, ivi comprese quelle convertibili in altre valute virtuali nonché i servizi di emissione, offerta, trasferimento e compensazione e ogni altro servizio funzionale all’acquisizione, alla negoziazione o all’intermediazione nello scambio delle medesime valute” (ex art. 1, comma 2, lett. ff) del D.lgs. 231/2007); mentre i prestatori di servizi di portafoglio digitale comprendono “ogni persona fisica o giuridica che fornisce, a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi di salvaguardia di chiavi crittografiche private per conto dei propri clienti, al fine di detenere, memorizzare e trasferire valute virtuali” (ex art. 1, comma 2, lett. ff-bis) del D.lgs. 231/2007).

Il ruolo dell’exchanger

Alla luce delle citate definizioni normative, e tenuto conto della qualificazione chiarificatrice operata dalla Corte di Cassazione, la figura del cd. “exchanger” si riferisce al gestore di una piattaforma tecnologica che permette di scambiare le valute virtuale alla stregua di qualsivoglia prodotto finanziario mediante l’effettuazione di operazioni di compravendita da cui discende la realizzazione di un profitto, mentre la figura del cd. “wallet provider” include gli intermediari che operano come gestori di portafogli virtuali, fornendo a terzi i relativi servizi professionali al fine di detenere, memorizzare e trasferire cripotvalute (cfr. Cassazione, sentenza 44337/2021).

L’art. 17-bis comma 8-bis del D.lgs. 141/2010, come novellato dall’art. 5 del D.lgs. 125/2019, subordina espressamente l’esercizio professionale, in regime riservato, delle attività di cambiavalute all’iscrizione, previo accertamento dei requisiti stabiliti dalla citata norma, nell’apposita sezione speciale del registro tenuto dall’Organismo (OAM) previsto dall’art. 128-undecies del D.lgs. 385/1993, tra l’altro, anche per i prestatori dei servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale e dei servizi di portafoglio digitale, come definiti dall’art. 1, comma 2, lett. ff e ff-bis) del D.lgs. 231/2007.

L’art. 3, comma 5, lett. i) e i-bis) del D.lgs. 231/2007 pone a carico anche dei prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale e dei prestatori di servizi di portafoglio digitale gli ordinari obblighi di prevenzione stabiliti per gli intermediari bancari e finanziari, enucleando una categoria ampia di operatori specializzati (omnicomprensiva delle funzioni di cd. “exchanger” e di cd. “wallet provider”) tra i soggetti sottoposti alle misure antiriciclaggio e alle sanzioni penali prescritte dall’art. 55 del D.lgs. 231/2007 nei casi di falsificata produzione, utilizzo, conservazione e occultamento dei dati identificativi non veritieri dei clienti, dei titolari effettivi e degli esecutori, ai fini dell’adempimento degli obblighi di adeguata verifica.

Il caso in Cassazione: riciclaggio di denaro in criptovalute

Ciò detto, nella recente disamina fattuale della vicenda ricostruita dalla Cassazione, il denaro proveniente dalla commissione di operazioni truffaldine in danno delle persone offese vittime dei raggiri è stato utilizzato per l’acquisto di criptovalute mediante il compimento di una serie di atti dispositivi (ossia effettuazione di molteplici bonifici) per comprare moneta virtuale dietro il pagamento delle somme di provenienza illecita fraudolentemente acquisite.

Peraltro, il Supremo Consesso nomofilattico ritiene configurabile, sulla falsariga del pacifico orientamento interpretativo sostenuto dalla consolidata giurisprudenza affermatasi in tema di truffa online, ricostruisce la configurabilità dell’aggravante della minorata difesa ex art. 61 n. 5 cp. per aver l’autore “tratto consapevolmente e in concreto specifici vantaggi dall’utilizzazione dello strumento della rete”, avuto riguardo alle concrete condizioni di approfittamento esistenti nel caso di specie (cfr. Cassazione, sentenza 27023/2022).

Al riguardo, la prospettata sussistenza della invocata circostanza aggravante discende dalle peculiari modalità truffaldine che integrano la condotta criminosa particolarmente insidiosa ove posta in essere nell’ambiente digitale, sull’assunto che è impossibile “fare riferimento al circuito internet come luogo inteso in senso fisico, in quanto inapplicabile ad una realtà virtuale e smaterializzata” (cfr. Cassazione, sentenza 7749/2014).

Più precisamente, richiamando precedenti giurisprudenziali formatisi in materia, la Corte di Cassazione ribadisce che “sussiste l’aggravante della minorata difesa, con riferimento alle circostanze di luogo, note all’autore del reato e delle quali egli, ai sensi dell’art. 61, n. 5, cp., abbia approfittato, nell’ipotesi di truffa commessa attraverso la vendita di prodotti on-line, poiché, in tal caso, la distanza tra il luogo ove si trova la vittima, che di norma paga in anticipo il prezzo del bene venduto, e quello in cui, invece, si trova l’agente, determina una posizione di maggior favore di quest’ultimo, consentendogli di schermare la sua identità, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun efficace controllo preventivo da parte dell’acquirente e di sottrarsi agevolmente alle conseguenze della propria condotta” (cfr. Cassazione, sentenza 17937/2017).

Perché sussiste autoriciclaggio

I giudici di legittimità hanno altresì ritenuto sussistenti gli estremi del delitto di autoriciclaggio di cui all’art. 648-ter cp. ravvisando la relativa fattispecie criminosa nell’acquisto di criptovalute effettuato, a seguito di apposito investimento su una delle piattaforme di trading di moneta virtuale, mediante l’utilizzo di somme distratte da una società fallita (costituente il profitto del reato presupposto di bancarotta), nell’ambito di operazioni speculative, poste in essere, attraverso vari passaggi intermedi, anche tramite compagini societarie diversificate ma sempre riconducibili al soggetto agente/responsabile o alla propria cerchia familiare, nonché intenzionalmente idonee ad ostacolare l’identificazione della provenienza illecita del denaro, come prescritto dalla citata previsione normativa.

Al riguardo, giova precisare che il delitto di autoriciclaggio è stato inserito dal legislatore in attuazione dell’art. 3 comma 3 della legge 186/2014 per ottemperare agli obblighi internazionali stabiliti da una serie di Convenzioni di cui l’Italia risulta firmataria. Venendo in rilievo un reato plurioffensivo avente natura di pericolo concreto, il legislatore sanziona la relativa condotta a tutela del patrimonio, del risparmio e dell’ordine pubblico economico-finanziario complessivamente considerato, nell’ottica di evitare pregiudizievoli turbative del mercato.

Pertanto, mediante la formulazione dell’art. 648-ter cp., il legislatore punisce a titolo di autoriciclaggio come ulteriore attività distinta dal riciclaggio ex art. 648-bis cp., qualsivoglia intenzionale impiego, sostituzione o trasferimento dei proventi di natura illecita in modo da ostacolarne concretamente l’identificazione della loro provenienza (ad esclusione delle condotte destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale, prive cioè di rilevanza penale ex art. 648-ter comma 4 cp.). Il reato presuppone (in termini di dolo generico) la consapevolezza della provenienza illecita dei proventi destinati ad ostacolarne la relativa provenienza illecita.

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L’analisi della pronuncia della Cassazione

Lungi dal recepire una definizione normativa rigida e oltremodo formalistica, i giudici di legittimità avallano una lettura elastica, funzionale, sostanziale e aperta del novero delle attività economiche, finanziarie, imprenditoriali e speculative alternativamente utilizzabili, a fini di autoriciclaggio, come schermo illecito per l’impiego, la sostituzione e il trasferimento del denaro, dei bene o delle altre utilità provenienti dalla commissione di un delitto a tenore dell’art. 648-ter, comma 1 cp. Ne consegue che, ad avviso della Corte di Cassazione, rispetto all’elenco meramente esemplificativo e non esaustivo ivi previsto, anche la moneta virtuale può integrare le predette condotte fraudolente con finalità segnatamente speculative, laddove il denaro, come profitto del reato presupposto, venga appunto destinato, anche mediante il conseguimento di un utile, all’effettuazione di operazioni idonee ad ostacolare l’identificazione della relativa provenienza delittuosa in ragione delle peculiari modalità della condotta in grado di inquinare la tracciabilità dei proventi conseguiti.

A maggior ragione, secondo la Suprema Corte, è proprio l’elevato grado di anonimato su cui si basa il funzionamento tecnico del sistema di acquisto delle criptovalute (e in particolare dei bitcoin) utilizzate nel cd. “dark web”, ad agevolare il compimento di condotte illecite “attraverso l’uso di tecniche crittografiche avanzate”. In altre parole, le specifiche caratteristiche delle valute virtuali se, da un lato, consentono di “garantire un elevato livello di privacy sia in relazione alla persona dell’utente sia in relazione all’oggetto delle compravendite”, al contempo però, dall’altro lato, assumono un’intrinseca potenzialità lesiva connessa ad eventuali possibili utilizzi criminosi e/o impropri determinati dalla segretezza delle relative transazioni anche a causa della difficoltà di identificare i soggetti coinvolti in tali operazioni (cfr. Cassazione, sentenza 27023/2022).

Criptovalute e sequestro preventivo: perché è legittimo

Da ciò discende pertanto, come appunto confermato dalla Cassazione, la legittimità del cd. sequestro preventivo “impeditivo” (funzionalmente propedeutico alla confisca ex art. 240 cp.) giustificato dal pericolo di aggravamento del reato, in ragione del rischio di occultamento che rende possibile, tenuto conto delle specifiche modalità di reinvestimento del denaro in criptovaluta, la cancellazione delle tracce criminose ivi realizzate, impedendo la ricostruzione dell’origine delittuosa del denaro.

Come stabilire la competenza territoriale

In relazione all’individuazione del cd. “tempus commissi delicti”, ai fini del perfezionamento della condotta delittuosa, la Suprema Corte ravvisa la natura istantanea del reato di autoriciclaggio che si “consuma nel momento in cui vengono poste in essere le relative condotte di impiego, sostituzione o trasformazione dei beni costituenti l’oggetto materiale del delitto presupposto” (cfr. Cassazione, sentenza 27024/2022).

Per tale ragione, la Corte di Cassazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 8, comma 1 cpp, radica la competenza territoriale dell’autorità giudiziaria chiamata a pronunciarsi sull’accertamento della prospettata condotta delittuosa nel luogo di impiego del denaro, corrispondente alla sede di localizzazione dell’istituto bancario ove confluiscono i conti correnti aperti dal soggetto agente per effettuare da remoto le operazioni speculative del capitale illegittimamente acquisito.

Denaro trasferito all’estero e convertito in criptovalute

Inoltre, con sentenza 29588/2022, i giudici di legittimità, chiamati a pronunciarsi in sede cautelare, hanno rigettato il ricorso proposto, sulla falsariga di quanto pronunciato dal giudice del riesame che ha identificato, al fine di disporre la custodia cautelare in carcere, gli estremi della condotta di concorso in riciclaggio, avente come presupposto la consumazione di delitti di truffa commessi a seguito del trasferimento di denaro all’estero e convertito in cripovalute. A riprova indiziaria dei fatti riscontrati, viene evidenziato l’avvenuto ritrovamento di un consistente quantitativo di denaro contante e di bitcoin (per un valore complessivo di 400.000 euro) unitamente alla presenza di oggetti preziosi e di strumenti di pagamento, rispetto alla cui detenzione non è stata fornita alcuna spiegazione.

Tali circostanze possono essere ritenute sufficienti a giustificare la misura restrittiva ivi applicata, tenuto conto del rischio di reiterazione, della gravità dei reati commessi, del danno arrecato, della non occasionalità delle condotte, della specifica professionalità tecnica acquisita nel settore dell’informatica e delle criptovalute, nonché della capacità di effettuare transazioni nell’ambito delle attività di gestione dei sistemi di blockchain all’uopo utilizzati (cfr. Cassazione, sentenza 29588/2022).

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