La sempre maggiore diffusione delle criptovalute pone questioni sul trattamento fiscale cui sottoporle. Del resto, le nuove tecnologie continuano la loro opera disruptive in tutti gli aspetti della nostra società e oramai è impossibile, da parte dell’ente statale, continuare a subirne inerme i cambiamenti legati all’innovazione. Il punto di non ritorno, e quindi di una necessaria presa di coscienza, si ha quando l’innovazione tecnologica pervade il business o meglio l’economia in tutte le sue declinazioni accademiche e pratiche. Considerando questo ambito, oggetto di quest’analisi sono la blockchain e i bitcoin: approfondiamo la normativa su come trattare fiscalmente le criptovalute.
Il contesto
Per comprendere meglio la situazione attuale, è possibile partire dalle dichiarazioni dell’ex presidente della Federal Reserve Alan Greenspan che nel settembre del 1996, durante una conferenza[1] al Ministero del Tesoro USA, sottolineava come l’innovazione tecnologica abbia già dagli anni 60’ rivoluzionato i modelli bancari e finanziari americani e di come una potenziale moneta virtuale privata non fosse più semplice utopia. Può sembrare surreale che pochi anni prima David Chaum, professore d’Informatica all’università di Berkeley ed esperto di crittografia, pubblicò un paper dal titolo “Security without identification: transaction systems to make bg brother obsolete”.
In questo lavoro Chaum già identificava la possibilità di creare una moneta virtuale con la finalità di difendere la privacy dei dati privati cittadini. Lo stesso professore nel 1990 fondò l’azienda DigiCash, specializzata in pagamenti ed il suo strumento principale era una cripto-moneta chiamata eCash. Questo excursus aiuta a comprendere come, non bisogna partire e datare la “nascita” delle criptovalute nel 2008 con il whitepaper di Satoshi Nakamoto, ma anzi da ben 10 anni prima e domandarsi come mai non esista una regolamentazione, seppur grezza, in materia.
Come mostra la società di crittografia Blockchain, nel grafico seguente, le transazioni giornaliere con i soli bitcoin (quindi senza contare tutte la miriade di criptovalute, circa 1.500 per le stime del Parlamento Europeo[2]) sono cresciute fino a toccare il punto massimo di 490 mila nel dicembre 2017.
Fonte: Blockchain Luxembourg S.A.
Inoltre, è singolare notare come si atteggiano dal lato regolamentare i diversi Stati rispetto la tematica delle criptovalute. Ci sono Paesi come gli USA che, nonostante gli alti e bassi, restano favorevoli alla loro presenza; ed altri come la Cina che pur avendo avuto una fase iniziale di boom ora si sono ritratti. Inutile dire che l’UE non risponde, anche per la sua natura, in maniera omogenea al fenomeno “criptovalute”.
Fonte: Knoema, dati aggiornati al 2017
Criptovalute, le regole fiscali in Italia
Il caso a noi più vicino, e se vogliamo il punto di non ritorno che costringe l’Italia ad affrontare il problema regolamentare e definirne i tratti essenziali, è stata l’apertura nel 2015 di una Srl attraverso dei conferimenti in bitcoin. La criptovaluta per eccellenza. In altre parole siamo di fronte al classico articolo ex art. 2465 c.c, che riguarda i conferimenti in natura e la loro stima da parte di un revisore legale o di una società di revisione legali iscritti nell’apposito registro, in fase iniziale di conferimento. Dunque si tratta di una persona giuridica, dotata di autonomia patrimoniale perfetta, che allaccia rapporti con diversi shareholder ma con un capitale sociale in criptovalute. Che valore e come vengono trattate in Italia queste valute virtuali?
La Banca d’Italia[3] nel 2015 affermava che “in Italia, l’acquisto, l’utilizzo e l’accettazione in pagamento delle valute virtuali debbono allo stato ritenersi attività lecite; […]. Si richiama tuttavia l’attenzione sul fatto che le attività di emissione di valuta virtuale, conversione di moneta legale in valute virtuali e viceversa e gestione dei relativi schemi operativi potrebbero invece concretizzare, nell’ordinamento nazionale, la violazione di disposizioni normative, penalmente sanzionate, che riservano l’esercizio della relativa attività ai soli soggetti legittimati”. Si lascia quindi un vuoto normativo ed un rischio molto alto per gli utilizzatori, presupponendo che inoltre le criptovalute non hanno corso legale. Ancora nel 2019 la stessa Banca d’Italia[4], sottolinea come lo IASB[5] dovrebbe valutare la necessità di una disciplina dello cripto-attività, presupponendo quindi un’apertura implicita alle valute virtuali. Infatti, spostando l’asse dell’analisi dal piano politico istituzionale a quello tecnico contabile, molto si è fatto per inquadrare la questione circa gli aspetti contabili, con tutti i benefici che ne conseguono circa la valutazione ed allocazione a bilancio.
Innanzitutto bisogna premettere che l’interpretazione dello IAS 8 “Principi contabili, cambiamenti nelle stime contabili ed errori” configura che l’impresa, anche nell’utilizzo di criptovalute, deve utilizzare il proprio giudizio per creare e sviluppare un principio contabile. Si tratta di ovviamente di una norma di chiusura, che ovviamente può creare problemi ai soggetti coinvolti. Unanimemente sembra escludersi l’inserimento delle criptovalute nella definizione di cash contenuta nello IAS 32 AG3, poiché queste valute non prevedono il diritto intrinseco di ricevere un controvalore e il potere liberatorio, e non assolvono le funzioni tradizionali della moneta data la sua altissima volatilità. Stesso discorso per quando riguarda un loro potenziale inserimento negli “strumenti finanziari”. La scelta, non solo di interpretazione, sembra essere ricaduta sulle rimanenze ed attività immateriali. Ma andiamo per gradi.
Le condizioni
Qualora si volesse seguire il ragionamento logico, per far rientrare le criptovalute nelle attività immateriali, è possibile valutare se le tre condizione previste dal IAS 38 siano o meno rispettate.
- identificabilità dell’attività;
- il controllo e potere di usufruire dei benefici economici derivanti dalla risorsa, in questo caso la criptovaluta; e
- l’attività dovrebbe generare benefici futuri, proventi o risparmio di costo..
Sembrerebbe ad una prima lettura, ed anche lo IASB ha seguito questa interpretazione, che ci siano i margini per poter far rientrare nell’alveo delle attività immateriali le criptovalute. L’ipotesi, non esclusiva, potrebbe essere quella di includere queste valute digitali nelle rimanenze. Secondo lo IAS 2 le rimanenze sono beni:
- posseduti per la vendita nel normale svolgimento dell’attività;
- impiegati nei processi produttivi per la vendita;
- sotto forma di materiali o forniture di beni da impiegarsi nel processo di produzione o nella prestazione di servizi.
A questo punto ci si potrebbe immaginare una società intesa come operatore specializzato in scambio di criptovalute, e quindi farle rientrare nel cappello delle rimanenze. Con il limite che per il momento le valute in questione non sono state definite come commodity. Ben si comprende l’importanza di una scelta a discapito dell’altra. In particolare data l’importanza della valutazione nel momento dell’iscrizione a bilancio e successivamente, attività che potrebbe portare a valori non rappresentativi del reale valore corrente della moneta digitale.
L’opinione della IFRS
L’ultimo evento da segnalare, in ordine temporale, degno di nota per l’oggetto di questa analisi è l’opinione della IFRS Interpretations Committee nel giugno 2019[6]. Il IFRS ha ulteriormente escluso, per l’IFRS, che le criptovalute siano ritenute cash o strumenti finanziari. In particolare per l’organizzazione internazionale no-profit che si occupa di contabilità, si ritiene conveniente applicare lo IAS 2 rimanenze alle criptovalute quando queste sono possedute per vendita, mentre si dovrebbe applicare lo IAS 38 in caso di partecipazioni in cryptocurrency. Ovviamente questo non è abbastanza e non c’è nessun obbligo di seguire le linee guida tracciate dal IFRS. Come si comporta invece in Italia l’Agenzia delle entrate? Già Marco Rubini, qualche tempo fa, ben presentava lo stato dell’arte di settore per quanto riguarda l’AdE. In particolare la risoluzione 72/E del settembre 2016 con la quale le valute digitali, nel caso di specie i bitcoin, sono definite come monete virtuali e reputate come alternative a quelle tradizionali avente corso legale nel nostro Paese. Affermazione che contrasto non poco con l’ultima normativa Antiriciclaggio e con l’interpretazione del IFRS.
L’AdE ha continuato il proprio lavoro in questo settore, riconoscendo e richiamando la pronuncia della Corte EU con la sentenza 22 ottobre 2015/C-264/14, con la conseguenza che l’attività di intermediazione di valute tradizionali in bitcoin svolta in modo abituale crea i presupposti per l’IVA, IRES e IRAP. Tace invece, anche perché non era oggetto dell’interpello, della sua collocazione a bilancio ma ricorda come i bitcoin nella disponibilità di una società a fine esercizio debbono essere valutati secondo il cambio in vigore in data di chiusura.
A dirla tutta, la situazione è ben più contorta di quanto traspare. In questa sede abbiamo soprasseduto a differenziare, anche contabilmente, le cryptocurrencies (bitcoin etc..) dai cryptoassets (tokens et..). In buona sostanza si tratta di una distinzione importante, ma di non sempre facile demarcazione. Si deve ammettere che le amministrazioni fiscali e tributarie di tutto il mondo hanno intrapreso relativamente tardi una gestione coordinata di questo fenomeno digitale, a fronte delle sollecitazioni che avvenivano già negli anni 90’. Una mosca bianca, non senza qualche critica, sono gli Stati Uniti.
Negli States l’IRS, omologa USA della nostra Agenzia dell’Entrate, nell’avviso 2014-21 ha fatto maggiore chiarezza. Pur non riconoscendo il corso legale delle monete virtuali, l’IRS ammette come abbiano pero un equivalente in valuta reale e che la sostituisce in alcune transazioni. Cosicché si prevede che la vendita, scambio o utilizzo per l’acquisto di beni o servizi abbia delle conseguenze fiscali ben precise. In particolare gli USA, contabilmente, trattano le valute digitali come property ovvero come attività materiali e devono essere iscritte al valore equo di mercato a partire dalla data di ricezione o acquisto. Addirittura l’IRS prevede il calcolo e la valutazione della valuta dopo che è stata “estratta” (durante l’attività di mining).
Conclusione
In conclusione forse sarebbe utile, come molti si domandano, istituire contabilmente una nuova tipologia di asset. Gli asset digitali. Oppure una categoria nuova di valute digitali, prevedendo categorie nuove di diritti ed obblighi che comportano le suddette valute, a tratti molto diversi da quelle tradizionali e fisiche. Per quanto riguarda l’Italia l’istituzione del Ministero per l’Innovazione e la voglia di fare della Banca d’Italia sembrano ben presagire. Vedremo quale sarà il prossimo passo dall’Agenzia dell’Entrate oppure dell’OECD, che l’anno scorso nel mese di novembre già si pronuncio sull’oggetto di questa analisi[7].
Note
- Regulation of electronic payment systems At the U.S. Treasury Conference on Electronic Money & Banking: The Role of Government, Washington DC, 19 Sept. 1996. ↑
- EU Parliament, Cryptocurrencies and blockchain, 2018. ↑
- Banca d’Italia, Avvertenza sull’utilizzo delle cosiddette “valute virtuali”, 2015. ↑
- Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza n 484, 2019. ↑
- The International Accounting Standards Board ↑
- IFRS, Holdings of Cryptocurrencies, June 2019. ↑
- How to deal with Bitcoin and other cryptocurrencies in the System of National Accounts?, OECD, 20 oct.2018. ↑