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Dati in cambio di servizi online, servono regole e prelievi fiscali



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Prima alcuni giornali online, ora i social network: affermandosi la tendenza a chiedere agli utenti l’utilizzo dei propri dati in cambio del servizio online erogato, sorge la necessità di imposizioni fiscali sullo scambio

Pubblicato il 15 gen 2024

Gianluca Pomante

Avvocato cassazionista Studio Legale Pomante



social media influencer

È sempre più diffusa, nei confronti dei consumatori, la richiesta di consentire l’analisi dei loro comportamenti e la profilazione in cambio dei servizi online erogati. Sono stati antesignani di tale rivoluzione i quotidiani online, che propongono di sottoscrivere un abbonamento o di acconsentire al trattamento de dati personali in cambio della lettura degli articoli. Li hanno seguiti a ruota, anche a causa dell’incertezza dell’Autorità Garante nell’autorizzare o censurare tali operazioni, le piattaforme social come Facebook, Instagram e Twitter, che stanno chiedendo ai clienti di sottoscrivere un abbonamento per non essere tracciati.

Il prelievo fiscale su questi scambi è divenuto, quindi, una questione cruciale, anche perché manca un quadro legislativo applicabile con certezza alla materia. Mentre le entrate pubblicitarie sono soggette ad imposizione fiscale, così come i proventi derivanti dalle attività di promozione, la cessione dei dati personali attualmente non è soggetta ad alcuna specifica imposizione fiscale ma ciò non consente di ritenerla esente.

Il contesto

La fruizione di servizi online spesso si scontra con una realtà economica decisamente più complessa rispetto al passato, nel quale internet era alimentata prevalentemente da appassionati che sostenevano le spese dei server, delle connessioni e della produzione di contenuti senza necessariamente doverne ricavare profitti.

In alcuni casi era sufficiente la gratificazione personale derivante dal successo dell’iniziativa, in altre situazioni, invece, la pubblicazione di contenuti di qualità diventava motivo di incarichi commerciali o professionali, ricollegabili all’attività in rete ma solitamente riconducibili a rapporti contrattuali diversi (promozione di prodotti, trattazione di temi sponsorizzati, ecc.).

Già in tale fase il Fisco italiano iniziò a valutare le utilità derivanti da tali attività anche dal punto di vista fiscale, ipotizzando che alcuni scambi dovessero rientrare nel concetto di transazioni commerciali, successivamente classificati da norme e dottrina come e-commerce.

L’avvento di Amazon e dell’Internet prettamente commerciale ha definitivamente cambiato il rapporto originario con la rete delle reti ed oggi la maggior parte degli utenti offre o acquista prodotti e servizi utilizzando computer, smartphone e tablet.

L’impatto dei social network

L’avvento dei social network ha tuttavia abituato gli utenti alla gratuità del chiacchiericcio e della diffusione di informazioni, spostando l’autoproduzione dai siti Internet alle piattaforme come Facebook, Instagram, TikTok, arrivando a coinvolgere nei vari business anche i programmi di messaggistica istantanea come Telegram e Whatsapp, che oggi competono per servizi con la maggior parte dei siti web e dei portali social

Il fenomeno degli influencer ha spostato l’attenzione del fisco sui proventi delle attività di engaging, dato che i personaggi divenuti famosi grazie a tali piattaforme hanno iniziato a fatturare importi decisamente elevati grazie ai contratti stipulati con le società di cui diventano testimonial.

Dati in cambio del servizio: la mancanza di consapevolezza

Il rapporto con i social network e con l’informazione online, tuttavia, è rimasto per molti anni legato ad uno scambio del quale l’utente, nella maggior parte dei casi, non è mai stato pienamente consapevole: quello della cessione dei propri dati in cambio del servizio utilizzato.

Questa modalità, che si potrebbe definire, ai suoi albori, di reciproche concessioni o atti di liberalità, è divenuta però particolarmente intensa e, soprattutto, squilibrata, da quando le varie piattaforme non si limitano a proporre agli utenti messaggi pubblicitari più o meno personalizzati, ma hanno iniziato a condizionarne i comportamenti attraverso tecniche di profilazione e di analisi comportamentale che consentono di orientarne le scelte e massimizzare i profitti, soprattutto con la cessione a terzi dei dati già organizzati e predisposti per utilizzi analoghi.

Il nodo della poca trasparenza

Sulla materia sono intervenuti i legislatori a più riprese e l’introduzione del Regolamento UE 679/2016 ha indotto le Autorità Garanti dei vari stati europei a censurare l’operato delle piattaforme dedite all’utilizzo poco chiaro dei dati degli utenti, costringendole, quantomeno, a rendere più trasparenti e consapevoli le scelte degli interessati, che devono essere facoltative rispetto al rapporto instaurato, per il quale sono ammesse, in sostanza, solo pubblicità generica tramite la piattaforma e comunicazioni attinenti il servizio mentre ogni altra forma di marketing diretto, analisi comportamentale, profilazione, dev’essere espressamente autorizzata.

E su questo campo si sta adesso combattendo la battaglia attuale, che vede protagoniste le piattaforme commerciali intenzionate a conservare (e, ove possibile, aumentare) i profitti finora realizzati grazie alla poca trasparenza delle operazioni poste in essere nei confronti degli utenti.

L’asimmetria tra il potere degli utenti e delle piattaforme

Un problema risiede certamente nella asimmetria tra il potere contrattuale dell’utente e quello delle piattaforme social, che si sono, nel tempo, rese insostituibili per la società tecnologicamente organizzata, almeno fino a quando non si passerà ad una fase diversa della comunicazione interpersonale e collettiva.

Il cittadino medio non ha le competenze e spesso neppure i dati necessari ad analizzare il valore dei suoi dati personali, che deriva dal tempo che passa in rete, dai contenuti che preferisce o che produce, dalle interazioni e dai follower che trascina, dai suoi acquisti e dai suoi gusti e dalla capacità di trasmetterli agli altri utenti. Un insieme di variabili che sono difficili da valutare economicamente, anche perché hanno valore solo se inserite in un contesto più ampio. Il valore dell’utente non si misura, infatti, solo come consumatore, ma anche per come e in che misura contribuisce alla tendenza dei consumatori che deriva dall’analisi del suo profilo assieme a quelli di tutti gli altri.

In sostanza, ogni utente conferisce dati con valore variabile ed è inevitabilmente inconsapevole della reale portata delle proprie “transazioni”. Questo aspetto rende l’oggetto del contratto incerto e spesso pesantemente sbilanciato a favore dei fornitori di servizi. Questa, tuttavia, è una questione legata ai diritti del consumatore e dovrà essere oggetto di separata analisi.

Abbonamento o cessione dei dati

Allo stesso tempo, è indubbio che ogni profilo utente abbia un valore economico per il fornitore dei servizi. Se in passato la difficoltà era quella – per il fisco – di stabilire il valore di tali transazioni, oggi sono stati gli stessi fornitori di servizi a stabilire un valore forfettario per la cessione dei dati personali, individuabile nel valore dell’abbonamento per il quale i dati sono richiesti come corrispettivo.

Essendo stabilito il corrispettivo per tali cessioni, si può aprire il dibattito su come effettuare il prelievo fiscale, poiché risulta evidente che dette transazioni, da un punto di vista qualitativo e quantitativo, sono ora equivalenti a quelle degli abbonamenti richiesti a chi non intende farsi profilare (con ogni possibile perplessità in ordine al fatto che si possano effettivamente riorganizzare algoritmi complessi come quelli attualmente utilizzati dalle piattaforme di analisi comportamentale escludendo gli utenti che pagano l’abbonamento).

Riepilogando: se l’accesso ad una piattaforma ha un costo di 15 euro mensili, e tale costo può essere compensato dall’utente attraverso la cessione di dati personali, appare evidente che il valore dei dati personali ceduti, che potremmo considerare una “cessione a corpo”, indipendente dalla sua misura, ha un valore di 15 euro mensili.

Tuttavia, mentre per ogni somma incassate per gli abbonamenti, il fornitore di servizi deve emettere ricevuta o fattura e pagare l’Iva e le imposte sul reddito, salvo altro, sulla cessione dei dati, che pure hanno una chiara valorizzazione economica, lo stesso fornitore attualmente non versa alcun importo allo Stato, pur conseguendo un incremento della propria sfera patrimoniale corrispondente all’importo dell’abbonamento nell’economia reale.

Conclusione

Orbene, non è un mistero che qualsiasi scambio di natura economica che determina detto incremento debba essere assoggettato a prelievo fiscale. Resta da vedere come l’Agenzia delle Entrate, nei prossimi anni, deciderà di comportarsi nei confronti delle molteplici piattaforme che hanno fatto ricorso a tale soluzione.

Diversamente, qualsiasi impresa, professionista o lavoratore autonomo potrà iniziare ad erogare servizi senza emettere fattura, facendosi pagare dal contraente in dati personali o beni equivalenti, creando un’economia parallela priva di transazioni finanziarie, di imposizione fiscale, di burocrazia, tornando in buona sostanza al baratto.

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