È iniziata il 22 maggio alla Camera la discussione, in assemblea, del disegno di legge Orlando recante modifiche al codice penale, al codice di procedura penale ed all’ordinamento penitenziario.
Il testo in esame è quello approvato (con voto di fiducia) in via definitiva alla Camera martedì 15 giugno, dopo essere passato anche al Senato e quindi ora in attesa solo della delega di Orlando per diventare efficace.
Come si legge nel resoconto della discussione generale, la 2ª Commissione Giustizia in sede referente, a cui il disegno è stato assegnato, ha ritenuto di non modificare il testo trasmesso dal Senato per scongiurare il rischio di una sua mancata approvazione visto l’approssimarsi della fine della legislatura.
Le direttrici su cui muove il DDL, che pur non apportando riforme sistematiche introduce comunque dei piccoli correttivi in grado di incidere in maniera non indifferente sulla giustizia penale, possono essere ricondotte a tre principi: 1) giustizia riparativa; 2) deflazione processuale; 3) inasprimento del c.d. doppio binario.
Al primo indirizzo vanno ricondotte non solo la nuova causa di estinzione del reato per condotte riparatorie (art.1, comma 1, DDL), ma anche l’inserimento, tra i criteri a cui dovrà attenersi il Governo nell’adottare il decreto legislativo per la riforma dell’ordinamento penitenziario, di “attività di giustizia riparativa e delle relative procedure, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative” (art.1, comma 85, lett. f), DDL).
La filosofia della giustizia riparativa, la ristorative justice elaborata negli Stati Uniti negli anni ’70, si fonda sulla valorizzazione della riconciliazione tra autore e vittima mediante attività riparatrici finalizzate alla ricomposizione della frattura sociale causata da un reato. Si tratta di un approccio che mette al centro del processo penale le persone e si basa su di un concetto di responsabilizzazione dell’agente nei confronti non dello Stato bensì della persona offesa, concetto che si allontana molto dalla teoria retributiva della pena che caratterizza il nostro codice penale.
Difficile, oggi, prevedere se tale concezione, invero di matrice più sociologica che giuridica, troverà terreno fertile nelle nostre aule di giustizia.
Le critiche più diffuse alla nuova causa di estinzione del reato si incentrano sul fatto che, stando alle prassi ed all’esperienza passate, quando l’autore ha interamente riparato il danno cagionato dal reato, mediante restituzione del maltolto o la corresponsione di un risarcimento, la persona offesa solitamente rimette la querela ed il procedimento si estingue per improcedibilità dell’azione penale; la previsione di una causa di estinzione basata sugli stessi presupposti ma nell’ipotesi di assenza di remissione della querela pare quindi, sulla carta, di scarsa utilità. Una dimostrazione dell’assunto si rinverrebbe nel sostanziale fallimento dell’art.35 del D. L.vo 274/2000 che prevede un’ipotesi di estinzione del tutto sovrapponibile a quella in esame nei procedimenti penali avanti il Giudice di Pace.
A parere di chi scrive, così come accaduto per la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto introdotta con la L.28/2015, non sarà tanto la previsione astratta quanto la sua concreta applicazione a decretare il successo o meno dell’istituto.
Certamente, nell’ottica di favorire l’applicazione della norma, va valutata positivamente la contestuale previsione (art.1, comma 16, DDL) di una delega al Governo per un ampliamento del ventaglio dei reati procedibili a querela, in particolare tra quelli contro la persona ed il patrimonio.
Sotto il profilo della deflazione processuale, pare doveroso menzionare una serie di interventi tesi ad incentivare meccanismi premiali ed a contenere i tempi della giustizia penale.
In particolare, all’art.1, comma 22, del DDL viene introdotta una nuova ipotesi di definizione del procedimento penale – con sentenza di non luogo o non doversi procedere – per incapacità irreversibile dell’imputato; all’art.1, comma 28, la previsione di un termine di 10 giorni per la proposizione della richiesta di incidente probatorio nei casi in cui la persona sottoposta ad indagini ne abbia fatto riserva prima del conferimento dell’incarico da parte del P.M. per gli accertamenti tecnici non ripetibili di cui all’art.360 c.p.p.; all’art.1, comma 30, l’inserimento a carico delle Procure di un termine di 3 mesi (che diventano 15 per reati di cui all’art.407, comma 2, lett. a), numeri 1), 3) e 4), c.p.p.) per l’esercizio dell’azione penale o della richiesta di archiviazione, a decorrere dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini e comunque dalla scadenza dei termini di cui all’articolo 415 bis c.p.p.; all’art.1, commi 32 e 33, la previsione di un termine di 3 mesi per la fissazione e per la decisione dell’udienza di archiviazione, nonché la ricorribilità col mezzo del reclamo al tribunale in composizione monocratica (anziché, come ora, con ricorso per cassazione) dell’ordinanza e del decreto di archiviazione nulli; all’art.1, comma 38, l’impugnabilità col mezzo dell’appello (e non più con ricorso per cassazione) della sentenza di non luogo a procedere; all’art.1, comma 44, la riduzione della metà della pena in caso di condanna per una contravvenzione in esito a giudizio abbreviato (rimane di un terzo per i delitti); all’art.1, comma 50, la delimitazione della ricorribilità per cassazione delle sentenze di patteggiamento per soli motivi relativi all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra richiesta e sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza; all’art.1, comma 53, in caso di procedimento per decreto, la determinazione della pena pecuniaria, in sostituzione di una pena detentiva, nella misura (minima) di 75 euro al giorno (contro gli attuali 250) con possibilità di pagamento rateale; all’art.1, comma 56, la reintroduzione del c.d. patteggiamento in appello.
In merito, infine, al rafforzamento del doppio binario, l’intervento cardine è rappresentato dalla trasformazione da eccezione a regola della partecipazione a distanza, ovverosia in videoconferenza, al dibattimento (ma anche ai giudizi civili) delle persone che si trovano in stato di detenzione per taluno dei delitti indicati nell’art. 51, comma 3-bis, nonché nell’art.407, comma 2, lett. a), n.4, c.p.p., nonché delle persone ammesse a programmi di protezione.
Su quest’ultimo punto, nonché sull’allungamento dei termini di prescrizione (più precisamente sull’introduzione di due nuove cause di sospensione del decorso della stessa) si sono attestate le contestazioni, sfociate nella proclamazione di una serie di astensioni dall’attività processuale dei penalisti, dell’Unione delle Camere Penali Italiane (UCPI), mentre sul fronte giudiziario l’Associazione Nazionale Magistrati (ANM), con il nuovo Presidente Albamonte, ha puntato il dito soprattutto contro l’obbligatorietà dell’avocazione da parte della Procura Generale in caso di mancato esercizio da parte del pubblico ministero dell’azione penale nel sopracitato termine di tre mesi dalla conclusione delle indagini, nonché contro la delega al Governo per la futura disciplina dell’utilizzo di trojan per le intercettazioni ambientali.
Quest’ultima disposizione, introdotta nel disegno di legge Orlando al Senato con un emendamento blindato dal voto di fiducia, merita qualche riflessione più specifica.
Nella relazione introduttiva del DDL alla Camera, l’on. Ferranti, relatrice per la maggioranza, ha riferito che: “[il DDL, n.d.r.] conferisce delle deleghe specifiche in materia di pubblicabilità di intercettazioni telefoniche e di conversazioni captate nell’ambito delle indagini e … alla disciplina delle operazioni effettuate mediante immissioni di captatori informatici, il cosiddetto “Trojan”, che saranno limitati ai reati più gravi di criminalità organizzata”.
Secondo il legislatore, dunque, la rosa dei reati per i quali potrebbero essere utilizzati i captatori informatici sarebbe circoscritta ai più gravi delitti di criminalità organizzata.
Sulla questione, come detto, è intervenuta anche l’ANM lamentando l’assoluta insufficienza del mezzo di indagine, così come disciplinato nel DDL, in quanto l’uso dei captatori sarebbe ristretta ai soli delitti di associazione di stampo mafioso.
A fronte di tali prese di posizione, vediamo cosa prevede esattamente il disegno di legge al riguardo.
All’art.1, comma 85, lett. e) si legge che il Governo viene delegato a disciplinare le intercettazioni di comunicazioni o conversazioni tra presenti mediante immissione di captatori informatici in dispositivi elettronici portatili, prevedendo che:
3) l’attivazione del dispositivo sia sempre ammessa nel caso in cui si proceda per i delitti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale e, fuori da tali casi, nei luoghi di cui all’articolo 614 del codice penale soltanto qualora ivi si stia svolgendo l’attività criminosa, nel rispetto dei requisiti di cui all’articolo 266, comma 1, del codice di procedura penale
Volendo esplicitare il testo della norma per i non addetti ai lavori, i reati ivi richiamati sono: le associazioni per delinquere finalizzate a commettere i reati di riduzione in schiavitù, tratta di persone, acquisto ed alienazione di schiavi, prostituzione e pornografia minorile, violenza sessuale nei confronti di minorenni, contraffazione, alterazione di marchi e brevetti, introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi; le associazioni di tipo mafioso, anche straniere; i reati di scambio elettorale politico-mafioso; i sequestri di persona a scopo di estorsione; le associazioni a delinquere finalizzate allo spaccio di sostanze stupefacenti, al contrabbando di tabacchi lavorati esteri ed al traffico illecito di rifiuti; i reati con finalità di terrorismo.
A tali reati debbono, tuttavia, essere aggiunti quelli richiamati nella seconda parte della disposizione nella parte in cui prevede la possibilità di usare i trojan nei luoghi di privata dimora, se ivi si stia svolgendo l’attività criminosa, per tutti i reati di cui all’art.266, comma 1, c.p.p.: si tratta, nello specifico, di tutti i delitti non colposi con pena superiore nel massimo a cinque anni, dei delitti contro la pubblica amministrazione, dei delitti di spaccio, dei reati concernenti armi ed esplosivi, dei delitti di contrabbando, di ingiuria (anche se ormai è depenalizzato, sic!), di minaccia, di usura, di molestia o disturbo alla persone col mezzo del telefono, della pornografia minorile, dell’adescamento di minorenni, della vendita e commercio di alimenti nocivi o contraffatti e, infine, dello stalking.
Se questo è il puntuale elenco dei reati nelle cui indagini potranno essere usati i captatori, preoccupa non poco la circostanza che la 2ª Commissione Giustizia della Camera non abbia piena contezza di cosa stia contribuendo ad approvare.
Ancor più sorprende il fatto che l’ANM aggredisca un testo che, in realtà, concede alle Procure italiane un potente e vastissimo strumento di indagine o che, per converso, considerata l’elevatissima capacità lesiva delle libertà fondamentali dei captatori informatici, l’UCPI non abbia dato all’argomento un’attenzione pari a quella riservata ad altri suoi classici cavalli di battaglia come la prescrizione o la separazione delle carriere.
Non solo.
Tranne alcuni (pochi) esperti, non è stato adeguatamente rimarcato che il DDL si limita a disciplinare i captatori nella loro funzione di strumenti atti ad intercettare (mediante l’attivazione da remoto del microfono del dispositivo informatico in cui vengono inoculati) senza preoccuparsi di affrontare le questioni giuridiche connesse a tutte le altre attività che possono essere eseguite da un trojan e che consentono agli inquirenti di accedere a tutto il contenuto del device infettato: file, e-mail, chat, immagini, video, rubriche, screenshot, etc.
Come già è stato scritto su questo sito, è assolutamente necessario – anzi è ormai ineludibile – colmare il vuoto normativo che lascia i cittadini senza tutele di fronte all’enorme potenzialità invasiva e pervasiva dei captatori.
E meglio sarebbe se tale vuoto fosse colmato attraverso un approfondito dibattito politico all’interno delle due assemblee parlamentari e non con deleghe al Governo approvate a colpi di fiducia.