Quando si parla di dematerializzazione e di digitalizzazione di documenti, se da un lato i passaggi cruciali a cui abbiamo assistito negli ultimi anni[1] hanno offerto l’occasione per fare più e più volte “il punto della situazione”, la sensazione di brancolare nel buio e di procedere per tentativi è sempre più accentuata.
Ciò dipende, forse, dalla portata dell’innovazione stessa a cui il nostro approccio – ancora fortemente analogico – è chiamato ad adattarsi?
A ben vedere, però, probabilmente questo è solo un alibi. Se infatti è da un ventennio che si continua a “lottare” contro il mulino a vento dei fattori – endemici – della resistenza alla dematerializzazione e alla digitalizzazione, dall’altra parte neppure sempre chiari sembrano essere i passaggi indispensabili e propedeutici che possono realmente portare a un definitivo raggiungimento degli obiettivi di una reale innovazione nei processi informativi e documentali e che, in ambito pubblicistico, inevitabilmente avrebbe anche indubbi effetti positivi sul rapporto cittadino-pubblica amministrazione (effetti che, purtroppo, salvi rari casi, ancora non si sono registrati, come dimostra la coda di utenti all’esterno di una sede INPS a Roma in questa foto recentemente scattata dall’amico Giovanni Manca, che ringraziamo).
Analizziamo, dunque, la questione provando a partire da tre punti fondamentali.
Cosa si intende per “dematerializzazione” e “digitalizzazione”
La dematerializzazione è un processo, anzi, un processo articolato e complesso, che non si può ridurre alla semplice azione volta all’eliminazione dei supporti documentali cartacei. Ciò è reso ancor di più evidente se la dematerializzazione viene associata al concetto di “digitalizzazione”, che nell’ambito documentale è intesa appunto come quel processo volto a ripensare processi e procedimenti dal cartaceo a un più efficiente contesto digitale.
I due termini sono spesso utilizzati indistintamente, ma – come si vedrà – seppur tali concetti costituiscano gli elementi da porre alla base di qualsiasi progetto di innovazione relativa ai processi documentali, non sono affatto coincidenti.
A riprova di ciò, basti pensare ai diversi obiettivi di un processo di dematerializzazione, rispetto a un processo di digitalizzazione. Nel primo caso, infatti, i processi di dematerializzazione hanno come obiettivo ultimo la “conversione” di un documento cartaceo in un documento informatico (o elettronico, secondo il recente Regolamento europeo eIDAS 910/2014/UE), preservandone sia il relativo valore giuridico e probatorio (in base al formato documentale scelto e agli eventuali strumenti di firma elettronica o riferimento temporale associati allo stesso documento, nonché all’archiviazione in un sistema di gestione sicuro, fino alla conservazione a norma), sia gli elementi afferenti al contesto archivistico di riferimento (ad, esempio, trasponendo nel contesto digitale le informazioni relative alla classificazione del documento ed effettuando opportunamente la fascicolazione e la metadatazione del documento informatico che viene creato per sostituire l’originale cartaceo). Nella dematerializzazione dei documenti, poi, tale conversione dei documenti cartacei in documenti informatici, può essere inoltre finalizzata anche alla sostituzione e alla possibilità di eliminare (o “scartare”, secondo il preciso termine archivistico) i documenti originali analogici dei quali si è prodotta una copia informatica avente il medesimo valore giuridico, probatorio e archivistico dei rispettivi originali. Tanto per quanto attiene agli obiettivi dei processi di dematerializzazione dei documenti.
Per altro verso, i processi di digitalizzazione attengono – più propriamente – al ripensamento, alla riorganizzazione, alla “reingegnerizzazione” e all’efficienza dei procedimenti e dei servizi resi disponibili on line agli utenti, presupponendo che i relativi flussi documentali involgano già documenti informatici (nativi informatici o comunque documenti frutto di un processo di dematerializzazione all’esito del quale, appunto, si è giunti alla creazione di copie informatiche aventi il medesimo valore giuridico e archivistico degli originali analogici da cui sono stati tratte).
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Qual è la normativa di riferimento
Uno dei punti di maggiore criticità che ostacolano l’attuazione dei processi di dematerializzazione e di digitalizzazione e il conseguimento degli obiettivi di una reale innovazione – soprattutto per quanto attiene alle nostre amministrazioni pubbliche – è sicuramente l’ipertrofico quadro normativo di riferimento. In tema di dematerializzazione e digitalizzazione, infatti, le continue modifiche normative risentono ormai da troppo tempo della mancanza di una seria strategia che tenga conto non solo della componente legata agli aspetti tecnico-informatici delle soluzioni delineate, ma soprattutto dell’importanza e della complessità relativa agli aspetti giuridici e archivistici dei documenti e dei processi delle pubbliche amministrazioni.
In proposito, proprio il Codice dell’Amministrazione digitale (D.Lgs. n. 82/2005) – che dovrebbe costituire il punto di riferimento per le norme in tema di dematerializzazione e digitalizzazione, corredato dalle relative Regole tecniche – è un testo normativo che deve essere profondamente ripensato, ponendo fine allo stillicidio di modifiche, aggiustamenti e ritocchi che lo hanno snaturato sin dalla sua emanazione, contribuendo di fatto a non rendere possibile quella necessaria “sedimentazione” e acquisizione dei cambiamenti normativamente disposti nell’organizzazione delle nostre pubbliche amministrazioni. Come evidenziato nel Manifesto per l’innovazione digitale proposto all’interno del Gruppo di Lavoro per la Governance digitale delle associazioni ANORC e ANORC Professioni, «occorre un testo recante pochi principi generali della materia, resi chiari e “autoconsistenti” di modo da fornire un saldo riferimento a cui attingere. Il Codice dell’Amministrazione Digitale nella sua attuale formulazione, appare martoriato da una sequenza di interventi normativi che non hanno fatto altro che rendere manifesta l’imperfezione del testo ab origine».
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Oltre al Codice dell’Amministrazione digitale e alle sue Regole tecniche[2] (che peraltro dovranno essere sostituite da Linee guida di futura emanazione), per la dematerializzazione e la digitalizzazione dei processi documentali della pubblica amministrazione non si può non considerare il DPR 445/2000 (Testo Unico sulla documentazione amministrativa), come anche il Codice dei beni culturali, di cui al D.Lgs.n. 42/2004, senza contare tutte altre le norme che, in ogni caso devono essere applicate in prospettiva digitale nelle loro diverse finalità (ad esempio, la nota L. 241/90 sul procedimento amministrativo , il D.lgs. n. 196/2003 sulla protezione dei dati personali o il D.Lgs. n. 33/2013 sulla trasparenza, solo per citarne alcune).
Nonostante la complessità del quadro normativo, tuttavia, non si può non ribadire – ancora una volta – che porre in essere un processo volto alla dematerializzazione dei documenti della pubblica amministrazione è possibile. Già da tempo, ormai, anche gli ultimi dubbi in proposito sono stati dipanati sia grazie al DPCM 21 marzo 2013 (in merito alla dematerializzazione, o “conservazione sostitutiva”, dei documenti originali analogici unici), sia alla Circolare n. 41/2015 del MIBACT – Direzione Generale Archivi, avente a oggetto proprio l’autorizzazione alla distruzione di originali analogici riprodotti secondo le Regole tecniche di cui al DPCM 13 novembre 2014 e conservati secondo le Regole tecniche del DPCM 3 dicembre 2013.
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I prossimi obiettivi della dematerializzazione
Affinché siano finalmente posti in atto completi processi di dematerializzazione e digitalizzazione, che portino a una tangibile innovazione nelle nostre amministrazioni pubbliche, uno degli obiettivi preliminari e concreti, dunque, è la formazione.
Come indicato anche nel già citato Manifesto del Gruppo di Lavoro per la Governance digitale delle associazioni ANORC e ANORC Professioni, infatti, «sorge spontanea l’esigenza di programmare piani formativi pervasivi destinati ai cittadini digitali, così come ai dipendenti ed ai dirigenti pubblici. L’obbligo formativo deve essere poi esteso alla classe politica, di modo da garantire contezza della materia a chi di fatto si occupa della normazione della stessa. La formazione permetterà ai cittadini digitali di smussare la diffidenza verso la materia, aumentando conseguentemente l’interesse a la partecipazione attiva, stimolando l’utilizzo di strumenti che fino ad ora hanno avuto davvero poco risalto (SPID ne è un esempio)». Ma è soprattutto sulla formazione del personale della pubblica amministrazione che si deve investire in modo serio, senza le cui competenze tutte le azioni in tema di dematerializzazione, digitalizzazione e innovazione sono destinate a restare solo “sulla carta”.
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Se, quindi, si vuole invertire la rotta rispetto a quanto fatto finora, evitando di affastellare interventi normativi caotici e privi di una seria e multidisciplinare visione strategica sulla dematerializzazione e sulla digitalizzazione delle nostre pubbliche amministrazioni, la consapevolezza, la competenza e la formazione risultano essere le azioni chiave da programmare e su cui investire. Ormai con urgenza.
In tale prospettiva, certamente si dovrà tenere conto delle diverse competenze, lasciando spazio alla voce di giuristi, informatici, archivisti, diplomatisti, professionisti della digitalizzazione, manager dell’innovazione digitale e così via. Se vogliamo sperare in una reale rivoluzione digitale dobbiamo partire da un cambiamento di consuetudini, di approcci e di metodi e, del resto, “il compito più difficile nella vita è quello di cambiare se stessi” (Nelson Mandela).
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