No, non è confortante il risultato dell’analisi svolta in seno alla Commissione Europea e contenuta nell’indice DESI 2022 (Digital Economy and Society Index) recentemente diffuso dalle istituzioni comunitarie. L’indice, anche se vede l’Italia recuperare due posizioni rispetto al 2021 (si passa dalla ventesima posizione alla diciottesima, a scapito di Croazia e Repubblica Ceca) comunque denuncia una digitalizzazione del nostro paese sotto la media europea. E siamo lontani, troppo lontani dagli altri grandi Paesi e grandi economie europee, a cui dovremmo guardare se vogliamo avere un futuro, ancora, in quel paniere di “grandi economie”.
Davanti a noi sono saldamente posizionati tutti i paesi dell’Europa occidentale (nonché le tre repubbliche baltiche che da tempo si sono dimostrate campionesse di digitalizzazione) mentre ci seguono solamente Repubblica Ceca, Cipro, Croazia (a brevissima distanza), quindi Ungheria, Slovacchia, Polonia, Grecia, Bulgaria e Romania, che chiude questa classifica.
In particolare, come vedremo, i servizi pubblici digitali – quelli quindi più direttamente “governati” dall’amministrazione pubblica – si mostrano qui una cartina tornasole dell’Italia digitale. Progrediamo, sì, ma senza superare antichi problemi.
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Come funziona l’indice DESI
Per capire il posizionamento dell’Italia è essenziale comprendere che elementi prende in considerazione l’indice DESI per classificare i vari stati UE. Innanzitutto, l’indice, sebbene presentato come DESI 2022, è ovviamente basato nella quasi totalità su dati del 2021, quindi non può tener conto degli investimenti nel settore tecnologico dell’ultimo periodo, cui fa da volano il PNRR. L’indice poi suddivide la propria classificazione in quattro macroaree che sono:
- capitale umano;
- connettività;
- integrazione delle tecnologie digitali;
- servizi pubblici digitali.
Il capitale umano misura il grado di digitalizzazione dei cittadini, assegnando punteggi diversi con riguardo alle competenze digitali delle persone comuni (l’obiettivo è che entro il 2030 l’80% della popolazione europea abbia una competenza digitale di base), al mercato degli specialisti ICT, all’offerta formativa nel settore privato rivolta a sviluppare competenze ICT e infine alla percentuale di laureati nel settore ICT. La connettività invece misura il grado di digitalizzazione delle infrastrutture di telecomunicazione, considerando la disponibilità di connessioni veloci, il numero di utenti che le utilizzano e la copertura su aree urbani e rurali.
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L’area dell’integrazione delle tecnologie digitali invece individua il grado di digitalizzazione del settore privato, considerando fattori come la presenza online delle imprese, l’utilizzo di social media, e-commerce (specie se transnazionale), sistemi di AI e cloud. La digitalizzazione dei servizi pubblici, infine, misura il livello di e-government cui sono arrivati i vari paesi UE. Lo studio prende in considerazione la percentuale di servizi pubblici (rivolti a cittadini ed imprese) disponibili online, e il loro utilizzo da parte degli utenti (fattore quest’ultimo che si intreccia con quello delle capacità digitali dei cittadini).
I risultati dell’Italia nelle varie classi
Il settore in cui l’Italia “brilla” maggiormente e si colloca al di sopra della media europea (in settima posizione e davanti addirittura alla Finlandia, prima nella classifica generale) è quello della connettività. In particolare, la posizione Italiana giova dell’ampia disponibilità di connessioni a banda larga, ed è un grande risultato se si pensa che in questo particolare ambito prima di noi ci sono solamente stati che vedono il compito infrastrutturale estremamente facilitato dalla geografia vantaggiosa e delle piccole dimensioni (Cipro è la prima, seguita da Malta, Lussemburgo, Paesi Bassi, Belgio, Danimarca e quindi l’Italia).
Se però abbiamo un’infrastruttura di prim’ordine sono ancora poche, in proporzione, le utenze che sfruttano queste connessioni veloci, complice forse anche la pubblicità molto poco chiara che è stata fatta di questo nuovo ventaglio di offerte, che ha scoraggiato molti.
Anche nel settore dell’integrazione delle tecnologie digitali l’Italia è al di sopra della media europea.
Quest’area, dove le prestazioni più positive sono registrare dai paesi scandinavi, vede l’Italia reggere il confronto con gli altri paesi UE nella classifica “generale”, preoccupanti però sono gli scarsi risultati in settori chiave in prospettiva economica, come ad esempio lo sfruttamento dei Big Data (l’Italia è diciottesima) e dell’intelligenza artificiale (sedicesima). Molto pochi sono anche i cosiddetti “unicorni” rilevati nel nostro paese dallo studio europeo. Gli “unicorni” sono delle start-up tecnologiche private che hanno un valore superiore al miliardo di dollari. In Italia ce ne sono cinque, mentre in Germania, la prima, sono ben 58.
In buona sostanza il nostro paese “produce” un dodicesimo delle start-up di successo che invece è in grado di produrre il sistema tedesco, una differenza abissale e che ci dà la misura della fatica con cui il nostro sistema-paese produce innovazione. Meno bene si piazza l’Italia per quanto riguarda la digitalizzazione dei servizi pubblici, critico in questa classifica è il punteggio assegnato all’Italia circa l’effettivo utilizzo dei servizi digitali messi a disposizione dei cittadini (siamo terzultimi prima di Bulgaria e Romania).
Il nodo delle competenze
Questo scarso risultato fa il paio con le nostre pessime prestazioni per quanto riguarda il settore del capitale umano (se abbiamo riguardo solo a quest’aspetto l’Italia è terzultima davanti solo a Bulgaria e Romania, peraltro poco distanti). In Italia la carenza più incisiva è quella di specialisti ICT (se guardiamo solo a questa classifica siamo gli ultimi in Europa), mentre i cittadini “comuni” hanno una competenza digitale che ci consente di superare anche la Polonia, oltre alle già menzionate Bulgaria e Romania.
Il problema, è evidente, è drammatico specie nel lungo termine, con l’Italia che deve recuperare in fretta questo gap per evitare di trovarsi in futuro senza personale specializzato in settori in crescita dirompente, con il rischio che la carenza di personale finisca per fare da argine alla stessa crescita di questi settori. La situazione è gravissima anche se si pensa al grado di errore nelle rilevazioni. Se l’errore statistico sulle capacità digitali della popolazione può essere ampio, l’errore statistico sul numero degli specialisti e laureati nei settori ICT non può che essere minimo.
La PA digitale va meglio ma non troppo
Se va riconosciuto all’Italia uno sforzo per la digitalizzazione dei servizi pubblici digitali è evidente che la strada da fare è ancora lunga e complessa. Come riporta la relazione sul nostro paese che accompagna il DESI 2022: “È necessario proseguire negli sforzi già intrapresi per consentire all’Italia di realizzare l’obiettivo del decennio digitale relativo alla disponibilità online del 100 % dei servizi pubblici principali per le imprese e i cittadini dell’Unione, e di rendere pienamente operativi i fascicoli sanitari elettronici. Benché solo il 40 % degli utenti di internet italiani faccia ricorso ai servizi pubblici digitali (rispetto a una media UE del 65 %), tale indicatore ha registrato una crescita considerevole negli ultimi due anni (con un aumento di 10 punti percentuali tra il 2020 e il 2022).”
Ci sono però anche dati positivi che emergono dalla relazione, ad esempio l’Italia è sopra la media quanto all’implementazione di politiche sugli Open Data, e particolarmente promettenti sono gli sviluppi di digitalizzazione portati avanti dai tre “alfieri” SPID, CIE e App IO.
In chiaroscuro è invece il dato relativo ai fascicoli sanitari elettronici, con l’UE che plaude ai 57 milioni di fascicoli attivi ma non può tenere in considerazione l’assurda frammentazione di questi sistemi, che offrono a seconda della regione in cui ci si trova servizi diversi e spesso non interoperabili.
La digitalizzazione del paese passa anche da una nuova prospettiva di centralizzazione del processo di sviluppo software, e da una puntuale applicazione delle disposizioni del CAD che indirizzano le amministrazioni verso il riutilizzo del software e l’acquisizione di software il più possibile libero e a sua volta disponibile per il riutilizzo, affinché non si debba più assistere a moltiplicazioni di spese ed enormi sprechi come ad esempio quelli che sono derivati dalla immotivata parcellizzazione dei software per la telematizzazione dei processi in Italia. L’UE poi cita come esempio positivo la “Strategia Cloud Italia”, che vorrebbe migrare in cloud il 75% delle PA entro il 2026. In buona sostanza l’Italia sembra avviarsi nella direzione giusta e sta investendo nella digitalizzazione della Pubblica Amministrazione.
I problemi da risolvere per il futuro
Per un cambio di passo serve un cambio di mentalità circa i meccanismi attraverso cui si acquisisce e sviluppa il software della PA.
Beninteso, colmare il ritardo rispetto alla media europea e procedere ad un ritmo significativamente superiore rispetto a molti altri paesi UE è senz’altro un ottimo risultato, ma non dobbiamo dimenticare gli aspetti che fanno ancor oggi da collo di bottiglia e in questo senso è evidente che il più grande problema che emerge dall’indice DESI per il nostro paese è il divario fra le “dimensioni” della digitalizzazione, ben evidenziato dalla tabella che segue, diffusa dalla Commissione UE:
Non possiamo infatti pensare alla digitalizzazione come ad un fenomeno fatto di comparti stagni, dove possiamo essere campioni in un settore e lasciarne indietro un altro. L’approccio al fenomeno deve essere necessariamente olistico e in questo senso è evidente che se non si interviene sulla capillare diffusione della cultura digitale dei cittadini, la digitalizzazione della PA si risolve in un grande sforzo cui fa da contraltare un modesto risultato perché non ci sono utenti in grado di fruire dei servizi che il pubblico mette a disposizione.
Conclusione
Se nel complesso il nostro paese sembra correre più di altri nel processo di digitalizzazione, non possiamo quindi dimenticare che si deve trattare di un processo armonico, senza “dimensioni” lasciate indietro, o queste presenteranno, presto o tardi, il conto.
Il contesto europeo: chi va meglio
Al vertice del Desi va segnalato il sorpasso della Finlandia rispetto alla Danimarca, con le due nazioni che si sono scambiate le posizioni dello scorso anno. A decretare la vittoria finlandese è il capitale umano (settore nel quale invece l’Italia invece, come abbiamo visto, è molto in ritardo).
In Finlandia, infatti, i laureati nel settore ICT sono il 7,5% del totale, con il doppio delle aziende che forniscono formazione ai propri dipendenti nel settore ICT rispetto alla media europea. La Finlandia ha anche raggiunto la soglia dell’80% della popolazione con almeno competenze digitali di base, e il 100% dei servizi pubblici considerati “chiave” dall’UE sono disponibili online. Dove invece è avanti la Danimarca è nella connettività, anche se c’è da dire che questo settore, come già accennato, è pesantemente influenzato dalla geografia, favorendo la più piccola e densamente popolata Danimarca rispetto alla Finlandia che fatica a realizzare una rete ad alta velocità che raggiunga le sue zone più remote.