L'approfondimento

Dichiarazione fraudolenta con utilizzo di fatture false: le novità 2020

La Legge di bilancio punta alla lotta all’evasione fiscale modificando il decreto legislativo 74/2000: ecco cosa prevedono le nuove regole

Pubblicato il 10 Mar 2020

Salvatore De Benedictis

dottore commercialista

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La Legge di bilancio 2020 ha apportato modifiche al decreto legislativo 74/2000, rubricato “Reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto”. Le ragioni delle modifiche sono finalizzate alla repressione dell’evasione tributaria, ma la loro articolazione appare mossa più dalla esigenza di dare una risposta mediatica agli storici insuccessi nella lotta all’evasione. Anche perché se da un lato sono state incrementate le pene previste per i reati di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, dall’altro è stata introdotta una causa di non punibilità nel caso di ravvedimento spontaneo delle predette violazioni.

Configurazione del reato: falsità oggettiva e soggettiva

Premesso che l’incentivo al “pentimento” è un atteggiamento sempre apprezzabile, sia sotto il profilo etico che giuridico, appare poco comprensibile quale possa essere la ragione per cui chi abbia commesso un reato con scienza e coscienza possa decidere di sua volontà di ravvedersi. Così come non si comprende perché tale possibilità sia stata concessa ai reati commessi con dolo (come quello in esame) e sia invece tuttora negata per i reati commessi per un errore interpretativo della norma, quali ad esempio quelli che vengono generati dalla indebita compensazione di crediti d’imposta, qualora emerga non da documenti falsi ma da fattispecie non riconducibili alla previsione normativa e che sono considerate tali al termine di una analisi tecnica spesso complessa[1]. Ma indipendentemente da ciò, appare anacronistico come il legislatore si ostini a pensare che il contrasto all’evasione possa essere perseguito con l’inasprimento delle pene[2].

Il momento di consumazione del reato avviene con la presentazione della dichiarazione (dei redditi, IVA o Irap) che include gli elementi passivi fittizi, e il reato si considera commesso quando tali elementi (fatture o documenti) “sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria”. Da ciò consegue che la mera registrazione di una fattura “falsa” rappresenta solo una condizione necessaria, ma non sufficiente per la configurazione del reato. Non è infrequente infatti che un soggetto passivo IVA possa ricevere e registrare una fattura errata, perché magari emessa da un soggetto diverso dal cedente/prestatore, di cui il committente/cessionario potrebbe anche non avere la corretta identità, e poi si rende conto dell’errore solo a seguito di successivi riscontri o al momento del pagamento.

Il profilo di falsità estende le sue conseguenze in ambito tributario e penale solo in presenza del requisito oggettivo (c.d. operazioni oggettivamente inesistenti), ossia quando una fattura è emessa per una cessione o prestazione non effettuata. Nel caso di una fattura emessa per una operazione avvenuta ma effettuata nei confronti di un soggetto diverso dall’emittente o dal destinatario (c.d. operazioni soggettivamente inesistenti) la situazione è diversa. La Corte di Cassazione, con Ordinanza 14 novembre 2018, n. 29319, ha espresso il suo orientamento operando un distinguo tra Imposte Dirette ed IVA. Ai fini delle imposte dirette, è pervenuta alla conclusione[3] secondo cui i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti sono sempre deducibili per il solo fatto di essere stati sostenuti, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità previsti dall’articolo 109 del TUIR, oppure di costi relativi a beni o servizi utilizzati per il compimento di un delitto non colposo.

Ai fini IVA la suprema Corte, è pervenuta alla conclusione[4] secondo cui l’Amministrazione può disconoscere la detraibilità dell’IVA a condizione che provi, anche in via presuntiva, non solo l’oggettiva fittizietà del cedente/prestatore ma anche la sussistenza della consapevolezza del destinatario, trasferendo quindi sul contribuente l’onere di dimostrare di aver posto in essere tutti gli accorgimenti necessari per non essere considerato parte attiva del disegno fraudolento.

L’analisi delle modifiche e la decorrenza

Il legislatore è intervenuto nel contesto del Decreto Legislativo 74/2000 modificando:

  • l’articolo 2, intitolato “Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, lasciando inalterata la pena della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni per i reati commessi utilizzando elementi passivi fittizi inferiori a 100 mila Euro, e inasprendo la pena da quattro ad otto anni nella ipotesi di superamento del predetto limite;
  • l’articolo 13 (Causa di non punibilità. Pagamento del debito tributario), comma 2, estendendo anche alla fattispecie prevista dal citato articolo 2 la possibilità di estinzione del reato mediante ravvedimento spontaneo. L’integrale pagamento deve riguardare sia il tributo che le sanzioni e gli interessi, e la regolarizzazione deve intervenire prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni o verifiche o di qualunque altra attività amministrativa di accertamento o di procedimenti penali nei suoi confronti;

inoltre inserendo l’articolo 12-ter, rubricato “Casi particolari di confisca”, che rappresenta tuttavia una appendice dell’articolo 12-bis (Confisca), a norma del quale Il Giudice, su richiesta del P.M., può ordinare, “la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo (c.d. confisca diretta, n.d.r.), salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni (c.d. confisca per equivalente, n.d.r.), di cui il reo (ossia il legale rappresentante della società, n.d.r.) ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto. La confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta”. Questa prassi è seguita, come prevede la norma, se e nella misura in cui in capo al contribuente non sia stato possibile rinvenire beni di consistenza equivalente al “profitto o al prezzo” del reato commesso. La confisca per equivalente ha natura sanzionatoria, e può essere evitata solo se l’obbligato principale paga quanto dovuto. Vero è che la norma parrebbe inoperante per la parte di danaro che il contribuente si impegna a versare all’Erario, ma sul punto si registra una Sentenza della Corte di Cassazione che ha affermato che “Quanto alla previsione secondo cui la confisca non opera nel caso in cui vi sia stata l’assunzione di un impegno formale al pagamento, la Corte precisa che tale previsione non può essere intesa nel senso che l’assunzione dell’impegno comporti che il giudice non debba, in sede di condanna, disporre la confisca ma potendo farlo solo qualora il contribuente non rispetti l’obbligo assunto. Tale interpretazione sarebbe in contrasto con i canoni di ragionevolezza e funzionalità dal momento che conseguenza di tale impostazione sarebbe quella di escludere che dopo l’assunzione dell’impegno possa procedersi al sequestro preventivo e, ove questo fosse già stato disposto, di vederne caducati gli effetti. Ma non potendosi disporre il sequestro, i beni sottoponibili a confisca permarrebbero nella disponibilità dell’avente titolo, con il conseguente rischio che vengano alienati o comunque sottratti al soddisfacimento della pretesa creditoria dell’erario, così frustrando l’obiettivo perseguito dalla legge[5]”.

Orbene, l’articolo 12-ter individua una soglia di accesso alla procedura prevista dall’articolo 12-bis, prevedendone, alla lettera a), la applicabilità quando “l’ammontare degli elementi passivi fittizi è superiore a euro duecentomila nel caso del delitto previsto dall’articolo 2”. L’inasprimento delle pene si applica “esclusivamente alle condotte poste in essere successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione” del D.L. 124/2019 cioè la L. 157/2019 (cfr., art. 39, co. 1-bis, D.L. 124/2019), ossia dal 25.12.2019, mentre il ravvedimento non soffre di limitazioni in quanto ad applicabilità a condotte illecite pregresse.

Si ricorda che l’articolo 43 del DPR 600/1973 (per le imposte sui redditi) e l’articolo 57 del Dpr n. 633/1972 (per l’IVA) prevedono che “in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 c.p.p. per uno dei reati previsti dal Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti – cioè gli ordinari termini di decadenza per l’accertamento – sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione”. Per effetto delle disposizioni introdotte dall’articolo 2, comma 1 (e 2 per l’Iva) del Decreto legislativo 128/2015, in vigore dal 2 settembre 2015, che ha integrato il terzo comma dell’articolo 43, “il raddoppio non opera qualora la denuncia da parte dell’Amministrazione finanziaria, in cui è ricompresa la Guardia di finanza, sia presentata o trasmessa oltre la scadenza ordinaria dei termini di cui ai commi precedenti”.

Conclusione

La normativa in tema di repressione dei reati tributari ha quasi vent’anni, nel corso dei quali affermare che “il mondo è cambiato” potrebbe apparire riduttivo. Il legislatore ha imposto comunicazioni e adempimenti che mettono l’amministrazione finanziaria in condizione di conoscere quasi in tempo reale gli inadempimenti dei contribuenti. Appare quindi inspiegabile per quale ragione si mantenga come reato la mera omissione del pagamento delle imposte dichiarate, quando viene superata la soglia di 250 mila Euro per l’IVA, quando una tale condotta è assolutamente priva dell’elemento costitutivo del reato, ossia del dolo, e quando tale circostanza è immediatamente conosciuta da parte della Amministrazione Finanziaria a seguito della presentazione della c.d. LIPE trimestrale. Senza parlare poi di tutti gli incroci che l’Amministrazione Finanziaria può effettuare tramite l’anagrafe dei conti correnti bancari e le altre banche dati in suo possesso.

Nella materia che trattiamo, l’obiettivo principale dovrebbe essere il recupero delle somme e non il perseguimento dei reati, che può essere utile come deterrente, ma che non ristora la collettività del danno subito dall’Erario, che può essere risolto solo con una tempestiva azione, che, per quanto testè detto, non solo è possibile, ma è moralmente – prima che giuridicamente – obbligatoria. Invece si ha il sospetto che l’inasprimento delle pene sia utile solo a placare spinte demagogiche, distanti dalla effettiva esigenza di recupero delle somme oggetto delle frodi o delle omissioni, che può avvenire solo con azioni cronologicamente adiacenti al momento della commissione del reato. Un atto di civiltà giuridica dovrebbe essere innanzitutto quello di distinguere i casi di omesso versamento da quelli di evasione tributaria. Sono fattispecie diverse, chi si trova in difficoltà finanziarie ed accede a procedure concorsuali subisce una attenta analisi da parte degli organi della procedura[6], finalizzata a comprendere le ragioni della crisi e la presenza di condotte distrattive, il cui accertamento comporta condanne molto pesanti. Se l’imprenditore avesse distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato l’attivo si applica, a norma dell’articolo 216 della Legge Fallimentare, la pena della reclusione da tre a 10 anni. Se l’imprenditore dovesse eseguire pagamenti favorendo un creditore e svantaggiandone un altro è prevista la pena della reclusione da uno a cinque anni, e posto che l‘Erario è generalmente nella parte alta dei soggetti muniti di privilegio, non sarebbe complesso accertare se un imprenditore non avesse pagato l’IVA o le ritenute sottraendo somme all’impresa per motivi personali o per favorire qualcuno. Poi sulla stampa specializzata leggiamo che chi evade le tasse non finisce quasi mai in carcere[7].

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Note

  1. È il caso del credito d’imposta per Ricerca e Sviluppo
  2. Appare illuminante la dichiarazione di Raffaele Cantone, ex presidente dell’ANAC, che rispondendo alle domande dei giornalisti, durante la presentazione a Roma del rapporto sulla corruzione in Italia nel triennio 2016-2019 ha affermato “È giusto dare un segnale contro l’evasione, che è strettamente legata alla corruzione e che è un danno a tutti. Va bene inasprire le pene ma non è con le manette che si vince l’evasione, così come per la corruzione”.
  3. … in tema di imposte sui redditi, ai sensi della L. 24 dicembre 1993, n. 537, articolo 14, comma 4 bis, (nella formulazione introdotta con il Decreto Legge 2 marzo 2012, n. 16, articolo 8, comma 1, convertito in L. 26 aprile 2012, n. 44), che opera, in ragione del precedente comma 3, quale jus superveniens con efficacia retroattiva in bonam partem, sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una “frode carosello”), per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità oppure di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo (Cassazione 17 dicembre 2014, n. 26461).
  4. in tema d’Iva, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga a operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base a elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente (Cassazione 18 maggio 2018, n. 12258; Cassazione 9 settembre 2016, n. 17818; Cassazione 5 dicembre 2014, n. 25778); che ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, nè la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (Cassazione 20 aprile 2018, n. 9851) (…) che l’onere dell’Amministrazione finanziaria sulla consapevolezza del cessionario va ancorato al fatto che questi, in base ad elementi obiettivi e specifici, che spetta all’Amministrazione individuare e contestare, conosceva o avrebbe dovuto conoscere che l’operazione si inseriva in una evasione all’Iva e che tale conoscibilità era esigibile, secondo i criteri dell’ordinaria diligenza e alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell’affare e afferenti alla sua sfera di azione (Cassazione 20 aprile 2018, n. 9851)”;
  5. Luigi Ferrajoli, “La natura sanzionatoria della confisca per equivalente”, sulla rivista Euroconference News del 26/7/2017
  6. L’articolo 33 della Legge Fallimentare impone che “Il curatore, entro sessanta giorni dalla dichiarazione di fallimento, deve presentare al giudice delegato una relazione particolareggiata sulle cause e circostanze del fallimento, sulla diligenza spiegata dal fallito nell’esercizio dell’impresa, sulla responsabilità del fallito o di altri e su quanto può interessare anche ai fini delle indagini preliminari in sede penale”
  7. Il Sole 24 Ore 26 settembre 2019, in Fisco e Giustizia, articolo di Cesare Romano

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