Documento analogico e documento digitale sono più diversi di quanto non si possa immaginare e la transizione da un mondo all’altro è spesso costellata di trabocchetti, per via di quello che gli americani chiamerebbero il “paradigm mismatch”, specie quando in un mondo si cerca di simulare, procedendo per analogie, il funzionamento dell’altro. Un esempio estremamente significativo è quello legato al mantenimento del valore giuridico/probatorio di una firma digitale, dove norme pre e post digitale, spesso anche poco chiare e fra loro scollegate, unitamente a prassi consolidate, si intersecano, generando, se non si pone attenzione, problemi potenzialmente anche gravi.
Il caso più emblematico, che si riscontra spessissimo presso le pubbliche amministrazioni, è quello legato ai documenti di repertorio, quali ad esempio gli atti (determinazioni dirigenziali, delibere) o i contratti. Vediamo perché.
Il caso dei repertori
Per questi documenti, infatti, la norma, nello specifico l’art. 53 comma 5 del TUDA (DPR. 445/2000), prevede l’esclusione dall’obbligo di protocollazione, in ragione del fatto che, essendo questi documenti registrati in un registro a parte (il loro repertorio), la registrazione a protocollo risulterebbe di fatto doppia. Il TUDA è una norma pre-digitale e tuttavia ancora in vigore; non solo, è forse fra le più conosciute e “metabolizzate” dalla P.A. che la applica in modo estensivo.
Quindi, di norma, nella PA atti e contratti non vengono protocollati. E non vengono nemmeno inviati in conservazione, non almeno immediatamente visto che l’art. 44 del CAD, per altro non ancora pienamente applicabile, dato che le LL.GG. per la conservazione ancora non sono in vigore, prevede che l’invio al sistema di conservazione avvenga non contestualmente alla sottoscrizione, ma almeno una volta l’anno. E questo, nel mondo analogico, non crea alcun problema.
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La scadenza dei certificati
Nel mondo digitale invece, abbiamo a che fare con un problema nuovo, quello della scadenza dei certificati. Come è noto il certificato di firma digitale, dopo un certo numero di anni, normalmente tre, scade, e i documenti firmati digitalmente, sebbene la firma (contrariamente al certificato) non scada, devono essere trattati opportunamente al fine di non inficiarne la validità. Le norme di riferimento applicabili sono le seguenti:
- art. 24, comma 3 del CAD che specifica che per la generazione della firma digitale deve adoperarsi un certificato che, al momento della sottoscrizione, non risulti scaduto, revocato o sospeso, introducendo di fatto la necessità, per un documento firmato digitalmente, di essere associato ad una data che attesti la sua esistenza in quel momento, quello che viene indicato come riferimento temporale;
- art. 24, comma 4-bis del CAD, che stabilisce che la firma di un documento con certificato scaduto, revocato o sospeso, equivale a mancata sottoscrizione;
- art. 20, comma 3 del CAD, che stabilisce che in materia di formazione, conservazione e validazione dei documenti informatici, faccia fede quanto disposto dalle regole tecniche emanate ai sensi dell’art. 71;
- art. 1, comma 1, lettera m) del DPCM 22 febbraio 2013 (Regole tecniche sulle firme elettroniche, ancora vigenti), che definisce il “riferimento temporale” come evidenza informatica contenente data e ora associabile ad uno o più documenti informatici;
- art. 62 del DPCM 22 febbraio 2013 che stabilisce che la firma sia valida anche dopo la scadenza, revoca o sospensione del certificato, a patto che al documento sia associabile un “riferimento temporale opponibile a terzi” che collochi la generazione della firma in un momento antecedente alla scadenza, revoca o sospensione del certificato; da notare come questo articolo, essenziale, sia collocato, un po’ incomprensibilmente, fra le disposizioni finali del DPCM, rendendolo difficilmente individuabile;
- art. 41, sempre del succitato DPCM, che definisce quali sono i riferimenti opponibili a terzi:
- la marca temporale;
- il riferimento temporale contenuto nella segnatura di protocollo;
- il riferimento temporale ottenuto tramite la procedura di conservazione a norma
- il riferimento temporale ottenuto tramite l’utilizzo della PEC
Ricapitolando, la sequenza di norme sopra riportate, si può così sintetizzare: al documento informatico è necessario associare, pena mancata sottoscrizione, un riferimento temporale opponibile a terzi in grado di collocare temporalmente il documento in un momento in cui il certificato utilizzato per la sua firma non sia scaduto, revocato o sospeso.
Validità firma e documenti non protocollati
E qui arriviamo al problema: che succede ad un documento non protocollato (ai sensi dell’art. 53 del TUDA quindi semplicemente repertoriato) e non inviato in conservazione, nel momento in cui scade il certificato? La firma si può considerare valida? In punto di diritto, almeno da un’interpretazione letterale della norma, sembrerebbe proprio di no. Infatti, il documento non ha una segnatura di protocollo e neanche è inviato in conservazione: è quindi privo del necessario riferimento temporale opponibile a terzi.
Stando a questa lettura della norma, quindi, è stato sufficiente applicare correttamente, ma in modo non coordinato, le leggi per far sì che una buona fetta delle amministrazioni, specie le più piccole, si ritrovasse con atti/contratti di fatto privi di sottoscrizione. Fatto, questo, certamente non trascurabile.
Le interpretazioni normative
In realtà, sebbene l’orientamento dei giuristi contattati sia favorevole all’interpretazione di cui sopra, alcuni (ad esempio alcuni Conservatori accreditati, che accettano come data quella presente nei repertori) ritengono che il succitato art. 53 della 445/2000 renda i repertori in qualche modo “equivalenti” al registro di protocollo che, ricordiamolo, come da giurisprudenza consolidata, si identifica come atto pubblico e quindi documento di fede privilegiata. Data compresa.
Ma, attenzione, l’equivalenza, almeno a parere di chi scrive, non solo equipara il valore, ma deve equiparare anche le modalità di tenuta: in altri termini, un repertorio è considerabile equivalente al registro di protocollo (forse), solo laddove sia tenuto secondo le modalità previste per quest’ultimo, che esistono proprio al fine di garantirne l’affidabilità, l’immodificabilità ed in generale la corretta gestione anche nel mondo digitale.
Va ricordato, a tal proposito, come il valore probatorio attribuito alla segnatura di protocollo derivi dalle specifiche modalità di tenuta previste, compreso il fatto di garantirne staticità e immodificabilità, come stabilito sia all’art. 14, comma 1, del vecchio DPCM 13 novembre 2014, sia al paragrafo 3.3.3 delle nuove LL.GG. che prevedono inoltre, al paragrafo 3.1.6, che il requisito dell’immodificabilità si sostanzi, per il registro di protocollo, con la trasmissione del giornaliero al sistema di conservazione.
Quindi, anche laddove si sposi questa seconda interpretazione della norma, è necessario che i repertori siano trattati come il registro di protocollo, rendendoli statici e immodificabili, possibilmente con la trasmissione del giornaliero al sistema di conservazione. Altro dettaglio, il repertorio, al fine di configurarsi come riferimento temporale opponibile a terzi, deve contenere non solo la data, ma anche l’ora della registrazione.
Ad oggi, i sistemi di gestione documentale che trattino i repertori in questo modo sono davvero pochi, la maggioranza in realtà gestisce atti e contratti (ed i relativi repertori) attraverso software ad hoc, non facenti parte del sistema di gestione documentale. Quelli in grado di generare e inviare (Conservatore permettendo) il giornaliero in conservazione sono rarissimi. Fatto questo che, anche considerando che la gestione dei repertori era già normata dalle regole tecniche del 2014, non depone di sicuro a favore dei produttori dei software.
Quando digitale e analogico si mescolano
Il caso più interessante è probabilmente quello dei contratti pubblici di appalto firmati dai Segretari comunali in qualità di ufficiali roganti degli enti. In questo caso siamo in presenza di un (colpevole) caso di schizofrenia normativa. Questo tipo di contratto, in base all’art. 32, comma 14 del D.lgs. 50/2016 (che fra l’altro rappresenta un caso di norma scritta davvero male) è infatti, pena nullità, sottoscritto con firma digitale, ma, per effetto di una vecchia norma del lontano 1986 è obbligatoriamente da repertoriare, pena sanzione pecuniaria, su un repertorio cartaceo che trimestralmente deve essere vidimato presso l’AdE.
E già questo è abbastanza deprecabile. Ma, in questo caso, il repertorio per il documento informatico ivi registrato (cartaceo e vidimato dall’AdE) ha valore di riferimento temporale opponibile a terzi? Lascio a voi l’ardua sentenza. Ma nel farlo, tenete presente di un dettaglio: nel registro di protocollo (e nei repertori, se tenuti analogamente al registro), è presente anche l’impronta del documento registrato; questo, in concomitanza con il fatto che è inviato in conservazione giornalmente, ed è quindi immodificabile, rende la sostituzione del documento registrato possibile (in teoria) su carta, ma impossibile nel mondo digitale, fornendo in questo modo una garanzia prima non presente.
Conclusioni
In ogni caso, ad oggi non esiste giurisprudenza in merito; nessuna sentenza di nessun Giudice ha mai affrontato il caso, che si configura quindi più che altro teorico. Ma il punto è un altro: questi esempi stanno a dimostrare, al di là dell’esistenza di un impianto normativo quanto meno intricato e che non aiuta nella transizione, come l’approccio al digitale debba essere ben impostato, evitando il tipico errore, presente per altro anche in alcune norme, di cercare di simulare, nel mondo digitale, prassi e comportamenti dell’analogico. Questo per evitare sia spiacevoli inconvenienti come quelli sopra descritti, sia la probabilissima perdita di efficacia dello strumento digitale, che, se non usato con le proprie logiche specifiche, quasi mai riesce a raggiungere gli obiettivi attesi che sono, ricordiamolo, quelli indicati dagli articoli 12 e 15 del CAD: efficientamento, razionalizzazione e trasparenza dell’attività amministrativa.