Nel tentativo di dare una spiegazione al coacervo di novità e adempimenti che entreranno in vigore a metà di quest’anno, è interessante individuarne il filo conduttore. Andando indietro e cercando il bandolo della matassa, si potrebbe individuare nel contrasto all’evasione fiscale la causa prima, fine certamente nobile e lodevole. Dovremmo tuttavia domandarci se il rapporto tra mezzi e fini sia congruo, ossia se le misure introdotte sono adeguate per affrontare e risolvere il problema per cui sono state emanate, gli oneri causati dalle misure adottate siano commisurati all’efficacia che ne deriverà.
La risposta non è semplice, ma il legislatore non dovrebbe mai perdere di vista il “fine ultimo” dei suoi provvedimenti, e nel caso in cui le modifiche legislative non fossero suscettibili di produrre miglioramenti apprezzabili e certi, dovrebbero essere considerate espunte; vero è che non è semplice stabilire a priori l’efficacia delle misure, ma in alcuni casi la prognosi non è complicata. Alla luce dei sopra indicati principi, vediamo di analizzare i recenti provvedimenti e tentiamo di trarre un bilancio.
Esterometro, l’impatto delle novità
La nuova modalità di trasmissione dell’esterometro non produce all’Erario maggiori informazioni rispetto al passato, ma cambia semplicemente la frequenza dell’aggiornamento dei dati, che passa da trimestrale a puntuale, con un guadagno in termini di refresh che potrebbe essere stimato in un paio di mesi, considerando la periodicità trimestrale dell’abrogato esterometro e la periodicità mediamente mensile della trasmissione dei dati in formato xml. Però c’è da considerare che mentre l’esterometro non era soggetto ad alcun limite di importo riguardo le operazioni da segnalare, la recente “semplificazione” introdotta dall’articolo 12 del D.L. 73 del 21 giugno 2022, che ha escluso le singole operazioni non superiori a 5.000 €, opererà probabilmente una drastica riduzione del volume delle informazioni.
A occhio e croce tutti siamo concordi nel ritenere che il bilancio sia quindi negativo, perché alla maggiore tempestività nella disponibilità dei dati si accompagna una sostanziale riduzione di essi. A ciò si deve aggiungere che l’obbligo puntuale di trasmissione dei dati in luogo di quello trimestrale comporta certamente un aggravio a carico dei contribuenti.
Quindi sembra che il bilancio sia decisamente negativo, senza se e senza ma, e tale negatività sia assoluta, perché determinata dal concorso di due fattori negativi (minori informazioni per l’Erario e maggiori oneri per i contribuenti).
Obbligo fattura elettronica per i forfettari “maggiori”
Anche su questo argomento le perplessità sono rilevanti. Mi sono già espresso asserendo che il progetto “fattura elettronica” non può essere parziale, perché altrimenti non si capisce quanto sia fedele l’immagine che l’Agenzia delle Entrate potrà ricavare dai dati (incompleti) in suo possesso. È come se si volesse costruire una immagine ad altissima definizione e poi si lasciassero aree scoperte a macchia di leopardo. Considerato che il regime forfettario è stato visto, soprattutto nella sua recente versione, come cavallo di battaglia per il perseguimento di fini propagandistici-elettorali, dobbiamo prendere atto che oramai ha assunto una dimensione tale da aver di fatto precluso la possibilità che l’Agenzia Entrate possa realizzare l’immagine ad alta definizione che si era prefissata; in pratica, un sabotaggio del progetto fatturazione elettronica.
Considerando che il regime forfettario – soprattutto nella sua versione “potenziata” a 65.000 euro – corre il rischio di essere in evidente contrasto con i principi della proporzionalità della tassazione[1] e del rispetto della libera e leale concorrenza, si perviene agevolmente ad un giudizio globale pesantemente negativo sul regime in quanto tale. Se a questo aggiungiamo anche l’esonero dalla emissione della fattura elettronica, adesso limitato ai soggetti con ricavi 2021 non superiori a 25.000 € e dal 2024 esteso a tutti, ci troviamo di fronte ad un provvedimento con un impatto negativo enorme sulla economia e che, tra l’altro, dribbla tutti i possibili controlli dell’erario.
Tuttavia, l’evasione si concentra in cluster ben definiti: nei soggetti medio piccoli, che essendo organizzati individualmente hanno accesso personale alle transazioni[2], e ai contribuenti di grandi dimensioni, che hanno la possibilità di studiare complessi sistemi di elusione, i cui confini non sono sempre così netti da escludere forme di evasione. I soggetti intermedi, le aziende strutturate, con personale amministrativo dedicato, difficilmente possono avviare e gestire progetti di evasione fiscale. A fronte di ciò il legislatore (o chi per lui…) progetta forme complesse di misure e contromisure che poi in pratica vanno a colpire soprattutto coloro che hanno meno possibilità e propensione alla evasione.
Nessuno e niente avrebbe impedito che i forfettari, magari dopo un periodo transitorio senza applicazione di sanzioni, fossero stati obbligati alla fatturazione elettronica. Nell’era delle app e della tecnologia è un controsenso dire che la procedura di fatturazione elettronica è complessa. Forse è onerosa, ma quello è un altro capitolo dolente che verrà trattato più avanti.
I pagamenti a mezzo POS
La norma prevede che i titolari di partita IVA che rifiutano di accettare pagamenti tramite Pos saranno soggetti ad una sanzione amministrativa di 30 euro, maggiorata con il 4% dell’importo del pagamento rifiutato. La responsabilità di verificare le violazioni è devoluta agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria, i cui corpi sono inseriti sia nella polizia di Stato, sia in quella locale, però la sanzione scatta solo previa denunzia del cliente.
Da qualsiasi punto di vista si cerchi di osservare la norma, è evidente come sia di pessima fattura e, comunque, sostanzialmente inefficace. La prima obiezione è che il legislatore ha affidato la applicazione della norma alla denuncia di parte, il che renderà ne complessa la attuazione a meno che non si snellisca enormemente il sistema di denuncia, magare tramite SPID e senza impacci e pastoie burocratiche.
Poi occorre distinguere le diverse fattispecie. Nel caso di esercente attività al minuto, una procedura alternativa sarebbe stata infatti facilmente esperibile in tempo reale, attuando un incrocio tra le banche dati degli istituti di pagamento e l’anagrafe tributaria in base al codice di attività dell’esercente: se si riscontrasse che un commerciante al minuto che non movimentasse il pos emergerebbe l’anomalia, certamente ben più grande e complessa della eventuale singola omissione, considerato che oggi la maggior parte dei pagamenti avviene con mezzi elettronici. Per chi esercita arti e professioni il discorso è diverso in quanto la clientela spesso è stabile ed i pagamenti potrebbero ben essere effettuati mediante altri canali telematici bancari. Quindi la mancanza del POS potrebbe essere assolutamente fisiologica.
Ma per entrambi i soggetti dobbiamo considerare che spesso il pagamento in contanti sottende un patto scellerato tra esercente/professionista e cliente, per cui al pagamento “in contanti” si accompagna una “carezza” sul corrispettivo e, ovviamente, nessuna certificazione fiscale. Quindi c’è piena intesa e la denunzia non sarà mai fatta.
Risultato: tanto clamore per nulla. Chi evadeva continuerà imperterrito ad evadere e l’unica verosimile ipotesi in cui la norma potrà funzionare sarà la remota ipotesi in cui tra esercente/professionista e cliente ci fosse una lite.
L’Italia ha ma maglia nera in Europa sulle transazioni in contanti[3]. Il motivo è sin troppo chiaro. C’è troppa economia sommersa e i rimedi devono ben essere molto più incisivi e drastici. Però siccome i furbetti sono una maggioranza silenziosa, il partito che assumesse provvedimenti coerenti rispetto al problema ne uscirebbe con le ossa rotte, sempre ammesso che riuscisse a portare avanti qualcosa.
La digitalizzazione illuminata è l’unica chiave di successo
Il progetto “fatturazione elettronica” dovrebbe portare con sé un nuovo approccio metodologico: non è oberando i contribuenti di richieste ed adempimenti che sconfiggerà l’evasione. Anzi, si corre il rischio di ingenerare una sfiducia ed uno sconforto sempre maggiori perché, alla lunga, l’unico ne esce vincente è l’evasore, che spesso si nasconde tra le pieghe della intricata normativa. La fatturazione elettronica avrebbe dovuto portare:
- La abolizione dei registri IVA e la loro sostituzione con un database il cui contenuto essenziale sarebbe dovuto essere in possesso dell’Agenzia delle Entrate;
- La eliminazione del cartaceo e la standardizzazione dei processi, inclusa la conservazione delle fatture elettroniche;
- La integrazione della fatturazione elettronica col sistema bancario, in modo da poter associare le transazioni finanziarie alle fatture;
- La abolizione di tutti i libri cartacei e la sostituzione con un unico database contabile, con una struttura standard ed accessibile da tutti i software applicativi gestionali.
Per arrivare a questi risultati si sarebbe dovuto progressivamente:
- Far transitare dal sistema di interscambio tutte le fatture elettroniche ed i dati IVA;
- Integrare periodicamente i dati delle fatture con quelli relativi alla detrazione IVA operata;
- Emanare i provvedimenti in forza dei quali sancire che la fattura elettronica transitata dal SDI può non essere conservata perché il SDI è in possesso del suo hash, che in qualunque momento assicura la autenticità, integrità e immodificabilità;
- Consentire che nella ipotesi di esistenza di fatture analogiche, il destinatario potesse optare per una trasmissione al SDI (simile a quanto avviene per il reverse charge) e così con un colpo solo sarebbero stati centrati tre obiettivi: integrare a costo zero i dati in possesso del SDI, evitare la materializzazione di questi documenti che, una volta allegati al flusso telematico del SDI, andrebbero in conservazione automaticamente e poter evitare la stampa dei registri IVA, del tutto coincidenti con le risultanze del SDI;
- Integrare i dati dei flussi bancari con campi interfacciabili con le fatture elettroniche, soprattutto con la partita iva del beneficiario e gli estremi della fattura[4];
- Digitalizzare i movimenti delle paghe e della gestione contributiva standardizzandone i formati e creando la possibilità di interfacciarsi in maniera biunivoca col sistema bancario.
A questo punto ci rendiamo conto che la maggior parte dei libri e registri sarebbero inutili, perché i dati sarebbero contenuti nelle informazioni sopra indicate.
Gli ostacoli al cambiamento
Il primo ostacolo è rappresentato dalla assurda propensione del legislatore a trattare la materia fiscale e colpi di decreti legge, emendamenti e modifiche, spesso frutto di compromessi. Se ci fosse la volontà politica, si potrebbe regolamentare meglio la legislazione in ambito fiscale, affidandola a Decreti Legislativi, da emanare con un serio confronto col mondo professionale e delle imprese. Ovviamente si dovrebbe anche evitare di intervenire con modiche a mezzo di Decreti Legge perché altrimenti si tornerebbe al punto di partenza.
In secondo luogo, ovviamente passando dalla modifica alla normativa Comunitaria, di cui l’Italia potrebbe farsi portatrice, constatare che l’impianto della legge IVA produce in buona parte attività amministrative inutili che spesso si prestano ad evasioni e frodi. Se l’IVA colpisce il consumatore finale, perché di deve generare un walzer di addebiti e accrediti anche tra imprese per cui, sostanzialmente, l’IVA è neutra ? sarebbe sufficiente una regolamentazione per il pagamento dell’IVA soggettivamente o oggettivamente non detraibile. Il sistema nel suo complesso eviterebbe operazioni bancarie, pagamenti, rimborsi e tanta altra attività che nella migliore delle ipotesi è spreco di tempo e di risorse.
Il terzo ostacolo, e forse il maggiore, sta nella difficoltà di ammettere che l’evasione si può battere solo con una azione costante, coordinata e inflessibile, e che l’attività di accertamento deve essere svolta dagli esseri umani non dalle macchine. Avere reso ipertrofico un sistema normativo che, per ragioni di cassa, fa abuso delle presunzioni ed opera inversioni dell’onere della prova, è un freno all’economia e scoraggia le imprese e gli investitori esteri perché inserisce una variabile incontrollabile e complessa nella determinazione dell’onere fiscale[5].
Un nuovo patto tra legislatore e cittadino
La digitalizzazione e la esistenza in tempo reale dei dati dovrebbe espungere dal sistema normativo qualsiasi tipo di accertamento che non sia fondato su elementi probatori certi e precisi. Ritengo che con un patto tra Stato e cittadino, che assommi tutte le attività sopra indicate, potrebbero essere chiesti anche sacrifici e maggiori adempimenti, a fronte dei quali però i contribuenti dovrebbero poter ricavare i naturali vantaggi in termini di esoneri da formalismi inutili. E, soprattutto, basterebbe vietare al legislatore in ambito fiscale l’utilizzo del termine “semplificazioni”.
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Note
- Si pensi, tra l’altro, alla strumentale ipotesi di aggregazione di 3/4 lavoratori autonomi, in maniera che scientificamente si possano smistare i fatturati per consentire la osmosi tra i partecipanti al progetto: ci troviamo in presenza di una “struttura” potente, che paga meno tasse e che fa uno sconto a tutti i suoi clienti del 22%. Senza considerare la insita istigazione al lavoro dipendente in nero, posti i limiti di permanenza al regime riguardo la presenza del personale dipendente. ↑
- Ci sarebbe anche da valutare i rapporto costi/benefici nell’inseguire l’evasore marginale ↑
- Fonte: Pagamenti digitali, Italia terzultima in Europa per transazioni pro-capite – CorCom (corrierecomunicazioni.it) ↑
- Evitando le pur ammirabili acrobazie a cui sono chiamati i software applicativi nell’accoppiare i movimenti bancari con le fatture elettroniche ↑
- Paradossale la solerzia con la quale vengono aggiornati gli ISA in un contesto economico in cui la “normalità” è l’eccezione, causa la pandemia e le altre tragedie che ci stanno sommergendo. ↑