Colgo il gentile invito su queste pagine dell’amico Guido Scorza a dire la propria opinione su quello che vorremmo da una riforma del Codice dell’amministrazione digitale (CAD). Inizio dalle parole. Perché le parole sono importanti, per dirla con Nanni Moretti.
Nomen omen. E’ proprio così.
E allora il CAD è un Codice e “Codice” non è una parola casuale: un codice per essere tale deve avere le caratteristiche tipiche che lo connotano di organicità, esaustività e solidità. Deve trattarsi quindi di un corpus completo, realmente autonomo e sistematico all’interno dell’ordinamento giuridico. Tenendo in mente come obiettivo tali caratteristiche si comprende facilmente la conformazione che il CAD “dei sogni” dovrebbe possedere: un testo snello costituito dai principi generali dell’amministrazione digitale, che trovino declinazione nelle disposizioni puntuali e specifiche delle norme secondarie e delle regole tecniche. Ben vengano anche linee guida e policy, ossia tutto ciò che può supportare le amministrazioni nell’implementazione concreta ed effettiva della normativa, ancora troppo inattuata. Il tutto da “preparare” insieme, per non rischiare di avere ottimi principi, ma senza le necessarie norme attuative o senza averle in tempi congrui che permettano di fornire le gambe necessarie ad andare lontano.
Un Codice, dunque, organico, esaustivo e solido. E già in queste parole troviamo le linee di intervento.
Organicità: deve trattarsi di un corpus che abbia sistematicità e possa essere realmente autonomo, senza che le disposizioni si frammentino fra vari provvedimenti disomogenei o che normative speciali in settori determinati ne inficino la forza e la cogenza.
Esaustività: deve contenere al suo interno i principi di riferimento della materia, declinati poi negli atti secondari e nelle regole tecniche. Questo naturalmente significa evitare una proliferazione normativa, anche settoriale, che degenera nella quantità, rende complesso il sistema e rischia di far perdere di vista i principi di riferimento. E qui veniamo ad un altro aspetto fondamentale: la solidità.
Solidità: il problema, spesso, non riguarda l’assenza di norme, ma la maniera di renderle effettive e durature nel tempo soprattutto in una materia come questa dove è incessante l’evoluzione tecnologica. Pensare di rincorrerla certo sarebbe un errore perché si perderebbero le caratteristiche di generalità ed astrattezza che le norme devono possedere. Ed ecco che allora anche tale principio ci porta a ritenere che occorra un testo snello con pochi principi generali, capaci di “reggere” nel tempo, e con regole tecniche per le disposizioni specifiche: ciò permette di acquisire certezza e chiarezza del diritto per chi è chiamato ad attuarlo. Fermi i principi di riferimento, le disposizioni secondarie e le regole tecniche possono mutare più facilmente nel tempo laddove sia necessario per evoluzioni tecnologiche, esigenze mostrate dall’esperienza, adeguamenti al contesto europeo o internazionale.
In merito ai principi e criteri di riferimento che dovrebbero formare il CAD questi, a mio avviso, dovrebbero essere atti a delineare diritti “digitali” di cittadini, associazioni e imprese e doveri delle amministrazioni; più specificamente i principi dovrebbero declinarsi in quelle dimensioni dell’azione pubblica già tracciate nelle riforme, dimensioni in cui vive l’amministrazione digitale e che emergono anche dai principi e criteri direttivi della legge delega 124/2015: competenze, governance, organizzazione e procedimenti. Accompagnate e fortificate dall’ulteriore dimensione trasversale, che consiste nell’obiettivo di garantire effettività alle misure proposte, e dal principio generale di garantire al Codice “piena esplicazione”, adeguando la normativa italiana alle disposizioni europee, garantendo la coerenza giuridica, logica e sistematica e coordinando le discipline speciali con i principi del Codice.
In questo percorso è opportuno mantenere e rafforzare nel Codice il previsto coinvolgimento preventivo e obbligatorio (seppur non vincolante) degli stakeholders negli interventi relativi alla normativa e alle regole tecniche in materia, in considerazione della necessità di competenze e approcci diversi e dell’impatto trasversale che hanno le regole che conformano l’amministrazione digitale. La consultazione e l’approccio multi-stakeholders in materia, idoneo a coordinare attori istituzionali e privati, è fondamentale per ottenere norme più condivise e maggiormente effettive. Un esempio che mi sta particolarmente a cuore, per avere avuto l’onore di coordinarla in prima persona, è stata la consultazione che l’on. Paolo Coppola ha realizzato per la redazione del parere della Camera dei deputati in merito al d.lgs. 179/2016: consultazione estremamente partecipata, che a mio avviso ha portato all’ingresso di molte buone norme che oggi sono nel CAD.
Il metodo collaborativo e partecipato è in linea con un modello di open government, attento alla voce qualificata dei diversi portatori di interesse. Del resto non dobbiamo dimenticare che la tecnologia digitale è strumento che deve permettere di raggiungere gli obiettivi che caratterizzano l’agire pubblico. E allora se quello che ho descritto in pochissime parole è il CAD che vorrei, sicuramente il governo aperto è il modello di amministrazione che vorrei e su questi temi si può proprio trovare il luogo ideale per dargli forma, grazie a un approccio orizzontale che permetta di avere regole condivise e, quindi, più forti.
Infine, evitiamo di cadere nell’equivoco che in tale materia la legge non serve. Non è così, a mio avviso. Serve una buona legge, ma la dimensione legislativa è fondamentale, dal momento che le amministrazioni pubbliche sono rette dal principio di legalità. Dico di più: il CAD da normativa “strana” e “per addetti ai lavori” deve diventare una delle norme portanti della configurazione del diritto amministrativo contemporaneo. La legge è fondamentale, ma deve essere di qualità e ciò significa recuperare il modo di legiferare, evitando di minare la certezza del diritto e legittimare l’idea silenziosamente presente che le norme in materia siano solo dichiarazioni d’intenti, inattuabili a piacimento, con la nemmeno infondata speranza che potranno cambiare alla prossima riforma. Serve corredare le norme di effettività, agire le responsabilità di mancate attuazioni. Fare una “rivoluzione digitale” di “squadra” fra chi lavora in PA, tutte quelle competenze che ci sono (eccome se ci sono) e tutti i soggetti chiamati a dare forma e contenuto all’amministrazione digitale.
Occorre conferire la dovuta autorevolezza alla questione “digitale” del Paese. Insomma un’unica complessa, articolata, partecipata, necessaria operazione. Rendere il Codice un Codice. Di nome e di fatto.