Anche con la fatturazione elettronica si rischia di perdere una importante occasione, se non interveniamo sulla normativa Iva.
La digitalizzazione infatti dà vantaggi solo se è inserita in un contesto normativo ed organizzativo adeguati. L’introduzione a macchia di leopardo del meccanismo del reverse charge e la mancata revisione delle modalità applicative dell’Iva per essere adeguate all’attuale contesto digitale, dimostrano che non è così. Vediamo perché,
La neutralità dell’Iva
Il principio cardine dell’Iva è la sua “neutralità”: è una imposta sui consumi, pertanto grava soltanto sull’effettivo utilizzatore finale del bene o del servizio, e quindi non deve incidere in nessuna delle fasi intermedie di trasferimento dei beni o servizi tra soggetti Iva che precedono la fase della cessione al consumo (al privato consumatore finale o ad un soggetto ad esso assimilato).
Il superiore corollario trova il suo paradigma nel meccanismo per cui a fronte del debito Iva assunto da chi emette una fattura corrisponde un identico credito Iva per il ricevente[1] soggetto passivo Iva. Quando invece le cessioni/prestazioni sono effettuate nei confronti di privati, il “valore aggiunto” colpisce nella sua globalità il consumatore finale, che resta “inciso” dall’Iva; in questa ipotesi, l’impresa cedente incassa l’Iva dal privato e la versa allo Stato, al netto dell’Iva detratta sugli acquisti.
Le frodi Iva
Tale meccanismo, che realizza la neutralità sopra evidenziata, è stato ed è generatore di distorsioni ed abusi perché si presta facilmente a frodi. Valga il seguente esempio:
- A emette una fattura a B del valore di euro 1.220, ovvero euro 1.000 imponibile (valore del bene) + euro 220 di Iva (22%);
- B paga ad A la fattura, ovvero euro 1.220,00;
- A incassa euro 1.220 e dovrebbe versare euro 220,00 (IVA) nelle casse dell’erario. Ma A ha deciso di frodare lo Stato, pertanto incassa l’Iva e sparisce (Danno N.1 all’erario – Iva non versata);
- B, che ad esempio è un’impresa, e che non sa che A non ha versato l’Iva allo Stato, chiede il rimborso d’Iva di euro 220,00 (o comunque riduce i suoi debiti per Iva a lui addebitata per rivalsa per 220) e non c’è motivo per cui non venga concesso, dato che è inoppugnabile il fatto che B abbia pagato l’Iva ad A (Danno N.2 all’erario – restituzione/detrazione di un’Iva mai versata da chi ha emesso la fattura).
La frode può assumere profili ancora più gravi nell’ipotesi in cui le operazioni sottostanti siano inesistenti, per cui la emissione delle fatture spesso rappresenta un metodo illecito per realizzare un “commercio” del credito Iva (frodi “carosello”).
La soluzione normativa: il reverse charge
Per contrastare questo fenomeno, il legislatore, prima europeo, poi nazionale, ha progressivamente introdotto il meccanismo del “reverse charge”, o “inversione contabile”, che attualmente riguarda una serie definita di operazioni rilevanti ai fini Iva. È un sistema con cui un titolare di partita Iva che emette una fattura nei confronti di un altro titolare di partita Iva non addebita alcuna Iva e indica in fattura solo l’imponibile e l’aliquota dell’imposta. L’importo della fattura non include quindi l’Iva e il corrispettivo che verrà pagato a chi ha ceduto il bene o prestato il servizio è rappresentato solo dall’imponibile. Essendo tuttavia l’operazione astrattamente assoggettabile ad Iva in base alla aliquota specifica del bene/servizio ceduto, chi riceve la fattura deve registrarla tra gli acquisti calcolando l’Iva teorica e portandola in detrazione ma, non avendo titolo per detrarla (non avendola pagata), deve registrarla simultaneamente anche tra le vendite, neutralizzando così contabilmente il credito derivante dalla registrazione dell’acquisto. Non attribuendo quindi la fattura alcun titolo per detrarre l’Iva, il problema dell’abuso sopra evidenziato sembrerebbe risolto.
Le criticità del reverse charge
Tuttavia l’attuale introduzione del reverse charge a macchia di leopardo ha creato grossi disagi. Il principale è la sottrazione di liquidità alle aziende di produzione che, obbligate ad emettere fatture senza addebito di Iva effettuano operazioni in regime di reverse charge, ed essendo comunque costrette a pagare l’Iva sulle fatture di materie prime e servizi acquistati non in regime di reverse charge, restano costantemente a credito di Iva. Il rimedio consiste nella procedura di rimborso dell’Iva, che comporta un inevitabile allungamento dei tempi, oltre che l’attivazione di procedure complesse, in cui spesso il richiedente viene visto dall’amministrazione finanziaria alla stregua di un soggetto che “intralcia” i lavori e non come qualcuno che avrebbe diritto a corsie preferenziali e alla massima considerazione sociale, vista la penalizzazione subita.
Per quanto sopra detto, il reverse charge non è applicabile alle operazioni effettuate nei confronti dei privati consumatori, perché questi ultimi devono essere incisi dall’Iva e non hanno la possibilità di detrarre l’imposta a loro addebitata.
Occorre comunque tenere presente che, essendo l’Iva un tributo “armonizzato”, ossia soggetto alle regole dell’Ue, le modifiche strutturali devono ottenere il placet della Unione europea. Senza voler entrare troppo nei dettagli, la normative Ue prevede tre tipi di regimi reverse charge: il reverse charge permanente, reverse charge temporaneo e reverse charge d’urgenza. Certo è che si sta assistendo, sia a livello comunitario che a livello nazionale, ad una continua espansione del meccanismo ad un numero sempre maggiore di cessioni di beni e prestazioni di servizi, a cui è seguita una corrispondente riduzione significativa delle frodi.
Realizzando un semplice sillogismo, risulta chiaro e comprovato come il reverse charge sia un decisivo rimedio alle frodi. Ipotizzare che il reverse charge possa costituire la regola e non l’eccezione non appare quindi una eresia, anche se la materia meriterebbe certamente analisi più dettagliate. Vi è da dire che osservando il problema applicativo anche lato contribuente titolare di partita Iva e non solo dal punto di vista dello Stato, i vantaggi sarebbero enormi. Sembra l’uovo di Colombo.
Il reverse charge come regola, non eccezione
Da quanto sopra esposto, emerge con sufficiente chiarezza che le modalità applicative dell’Iva, nate in un contesto normativo e documentale analogici, devono essere riviste ed adeguate all’attuale contesto digitale, in cui tra l’altro il legislatore italiano ha assunto un ruolo di pioniere, chiedendo all’Unione europea la deroga che ha permesso l’introduzione obbligatoria della fatturazione elettronica a partire dal primo gennaio prossimo. Mentre nel mondo analogico la fattura era un documento con una doppia identità, nel senso che alla sua emissione non era implicita la contestualità della ricezione (latu sensu) per il destinatario, con la fattura elettronica questa discrasia si elimina: una volta che il documento supera i controlli formali diventa una medaglia con due facce, e il destinatario ne ha la disponibilità, anche in caso di impossibilità di recapito, in quanto la fattura viene messa a disposizione nella sua area riservata sul sito dell’Agenzia delle Entrate.
Cosa buona e giusta sarebbe stata accompagnare la rivoluzione digitale avviata con una adeguata modifica della normativa Iva. Invece oggi ci troviamo a discutere per individuare in quale liquidazione periodica inserire la fattura di acquisto datata 30 giugno e ricevuta tramite il sistema di interscambio il primo luglio, dimenticando sia il sopra citato principio di neutralità dell’Iva, sia le chiare disposizioni dell’articolo 1 del D.P.R. 100/1998[2], sia la normativa Europea (Direttiva 2006/112/CE) che, all’articolo 167, sancisce il principio secondo cui “Il diritto a(lla) detrazione sorge quando l’imposta detraibile diventa esigibile”.
Quindi, l’applicazione a tappeto del reverse charge farebbe sì che le imprese che hanno esclusivamente rapporti B2B non fossero mai né creditrici né debitrici di Iva salvo casi particolari: Iva oggettivamente indetraibile, in tutto o in parte (su carburanti, auto, viaggi, alberghi, etc.) e rettifiche al pro-rata annuale di detraibilità. Sarebbe interessante avere statistiche, ma non sarebbe azzardato pensare che la mole degli F24 (versamenti) e dei rimborsi Iva sarebbe quasi eliminato. Non ipotizzo nemmeno quanti sarebbero i risparmi per i contribuenti, in termini di adempimenti, e per lo Stato in termini di accertamenti, recupero di frodi, controlli, processi penali[3].
La digitalizzazione discriminante
La digitalizzazione permette la fruizione di vantaggi solo se è inserita in un contesto normativo ed organizzativo adeguati. Oggi, per esempio, affermare che i bonifici bancari sono telematici è un errore clamoroso, la cui dimensione e rilevanza sfugge a molti: telematico è il canale, non certamente la gestione dei dati, che, per essere tale, dovrebbe essere accompagnata da una standardizzazione di tracciati record idonea a generare in maniera strutturata tutte le informazioni necessarie al successivo trattamento informatizzato. Non possiamo onestamente affermare che la interpretazione operata dai software applicativi – con tutti i limiti che ne derivano – dei caratteri contenuti nella descrizione delle operazioni bancarie acquisite dal CBI, possa definirsi digitalizzazione dei processi. Sarebbe sufficiente che i pagamenti delle fatture elettroniche fossero effettuati mediante generazione di files strutturati contenenti la partita Iva di chi effettua il pagamento e di chi lo riceve, il numero e la data della fattura, e la immissione (o meglio, la generazione) dei dati contabili sarebbe davvero sicura e automatica.
Dobbiamo ammettere che ci troviamo di fronte ad una digitalizzazione selettiva e discriminatoria: c’è una grande attenzione legislativa, spinta da palesi impulsi politici e corporativi, tendente a tutelare le esigenze di alcuni stakeholders, pubblici o privati, ma c’è una evidente “distrazione” per la tutela dell’impresa, del cosiddetto utente finale, sulla cui testa gravano adempimenti su adempimenti, edulcorati con l’utilizzo del termine “compliance”, ma sostanzialmente asfissianti e penalizzanti.
Se non si realizza un “bilanciamento” tra le opposte esigenze si corre il rischio di far prevalere una visione “obbligatoria” degli adempimenti, di far passare in secondo piano le grandi opportunità insite nella digitalizzazione integrata di tutti i processi, e di generare un clima di rifiuto, di diffidenza che ostacola il raggiungimento degli obiettivi che le innovazioni si pongono.
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[1] In effetti ci sono alcune eccezioni che riguardano la indetraibilità totale o parziale dell’Iva su alcuni beni/servizi (cellulari, autovetture, telefoni, alberghi, ristoranti, etc.) in cui l’impresa che effettua gli acquisti viene assimilata al consumatore finale e dovrebbe pagare all’Erario la quota di imposta indetraibile (vedi prospetto che segue).
[2] “Entro il giorno 16 di ciascun mese, il contribuente determina la differenza tra l’ammontare complessivo dell’imposta sul valore aggiunto esigibile nel mese precedente…sulla base dei documenti di acquisto di cui è in possesso (entro il giorno 16 di ciascun mese, ndr) e per i quali il diritto alla detrazione viene esercitato nello stesso mese….”
[3] L’omesso versamento di IVA per importo annuo superiore a 250 mila euro è reato a norma dell’articolo 10-ter decreto Legislativo 74/2000