L’imporre l’utilizzo della fatturazione elettronica tra privati in tempi rapidi, senza dare tempo, modo e risorse a tutti di adeguarsi è un approccio poco condivisibile. Il punire chi non si adegua a un certo obbligo, invece di premiare chi, spontaneamente, si evolve dal punto di vista tecnologico dimostra, ancora una volta, quale sia la visione della gestione del rapporto fisco/contribuente, nel nostro Paese.
Oltre alle difficoltà operative e gli investimenti tecnologici necessari per adeguare i sistemi informativi in tempi molto rapidi (si pensi solo all’incomprensibile scadenza del 1 luglio per l’emissione della fattura elettronica da parte dei distributori di carburante), non bisogna sottacere gli oneri e i costi legati agli obblighi di conservazione sostitutiva delle fatture emesse (e ricevute).
Questo è l’esempio più lampante di una discrasia tra tecnologia e normativa. Un processo, probabilmente impeccabile dal punto di vista informatico, dimentica completamente ciò che contempla la normativa. Non esiste un solo articolo del D.P.R. 633/72, che obblighi a indicare sulla fattura cartacea archiviata, la data e l’ora in cui è avvenuta tale archiviazione; non è previsto in nessun articolo di legge che, per conservare documenti (cartacei sino ad oggi), occorrano competenze professionali e conoscenze tecnologiche.
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Perché è sbagliato l’approccio sulla fattura elettronica b2b
Come dimenticare che il nostro tessuto produttivo, quello che produce la parte sana del PIL italiano, è composto da artigiani, piccole imprese e partite IVA? Perché non si deve considerare l’ammontare dei costi occulti che una simile rivoluzione porterà al sistema Paese? Perché sottacere che la fatturazione elettronica è una “novità” tutta italiana per la quale dobbiamo chiedere una deroga all’Europa, perché non in linea con la normativa IVA comunitaria (a dimostrazione che, forse, non è considerata un fattore critico di successo o di sviluppo indispensabile)? È tanto difficile comprendere che gli investimenti, in termini economici e di risorse uomo per adeguarsi, saranno ragionevolmente “sopportabili” per la grande S.p.A. ma molto più “onerosi” per artigiani, piccole imprese e partite IVA? È tanto difficile comprendere che per le prime i tempi di adeguamento potranno essere più rapidi che per il secondo gruppo? Perché non prevedere, quindi, un’introduzione graduale di una simile obbligo (difficile parlare di opportunità), a seconda delle dimensioni di ciascuno?
Gli errori passati sulla e-fattura
Per sviluppare il rapporto tra normativa fiscale e mondo digitale, basterebbe ripercorrere quanto è accaduto nel passato in questo ambito. Non bisogna dimenticare le difficoltà iniziali, con i conseguenti rinvii, dell’avvio della fatturazione elettronica verso le Pubbliche amministrazioni, non bisogna scordare che, da parte delle PA, venne richiesto di inserire nel flusso digitale trasmesso, informazioni che non erano obbligatorie e/o previste dalla normativa, senza voler, poi, sorvolare su aspetti procedurali tipicamente italiani che non erano applicabili alle società straniere (basti pensare all’iniziale possibilità di trasmissione via PEC delle fatture elettroniche. La PEC è strumento tipicamente italiano e sconosciuto in tutto il resto del mondo – dimostrazione di un legislatore/tecnologico completamente slegato dal mondo reale).
Ogni cambiamento deve fronteggiare delle resistenze, ma è altrettanto vero che, chi guida il cambiamento, dovrebbe farlo in maniera partecipata, condivisa, comprendendo, come detto, il percorso che è stato fatto sino a quel momento e i soggetti che saranno chiamati a utilizzare il nuovo “prodotto” tecnologico.
Il miglior “prodotto” tecnologico può essere considerato tale in un determinato ambiente sociale, ma può essere estremamente pessimo altrove.
Un errore di prospettiva politica
La velocità del cambiamento digitale non dovrebbe prescindere, a modesto parere di chi scrive, dal tenere in considerazione alcuni passaggi che si ritiene siano fondamentali.
Innanzitutto, il mondo digitale dovrebbe cercare di comprendere a fondo la normativa fiscale e le sue evoluzioni nel tempo, per cercare di adeguare il processo tecnologico alle disposizioni di legge e non cercare di piegare la norma alla tecnologia. Nel nostro ordinamento esiste una gerarchia delle fonti, in quella gerarchia la tecnologia, giusto o sbagliato che sia, non esiste.
Secondo: se è vero, come è vero, che il fisco è fortemente invasivo nella nostra società, ecco che la tecnologia dovrebbe fungere da agente semplificatore per il contribuente, considerando che lo stesso è un soggetto molto variegato che spazia dal piccolo artigiano/commerciante alla grande multinazionale. La tecnologia dovrebbe essere strumento utilizzabile anche dai più “deboli”, dai meno preparati, coloro che, non foss’altro per età anagrafica, sono meno abituati e non hanno ancora imparato a convivere con il repentino cambiamento dal mondo fisico al mondo virtuale. A meno che non vi sia un disegno ben preciso di “espellere” dal tessuto produttivo del nostro Paese i più deboli ma, allora, bisognerebbe avere l’onestà intellettuale e il coraggio di esplicitare un tale obiettivo.
Un terzo e ultimo aspetto che si dovrebbe prendere in considerazione è il costo correlato all’investimento e l’eventuale risparmio generato dall’investimento stesso (costo/opportunità).
Fin tanto che la tecnologia non comprenderà, sino in fondo, che per essere accolta con favore, per potersi sviluppare e permeare l’intera società deve sforzarsi di essere di facile utilizzo, vantaggiosa dal punto di vista economico/finanziario, una tecnologia di immediata comprensione, di effettivo aiuto e non di ostacolo o di difficoltà per il cittadino/utilizzatore, ecco sin tanto che la tecnologia non comprenderà queste basilari necessità, essa sarà sempre vista come un “nemico” e non come un “alleato”, come un “costo” e non come “un’opportunità”, come un “male” da sopportare e non come un “vantaggio” da sfruttare.