Superato lo “scoglio” del 28 febbraio (data che per altro, per il 70% dei comuni è in realtà il 30 aprile, salvo proroghe dello stato di emergenza) le PA potranno ora concentrarsi sull’obiettivo del 7 giugno, quando, finalmente, scadranno i nove mesi concessi per adeguarsi alle nuove Linee guida sulla Gestione documentale e la conservazione.
È questo un traguardo fondamentale, più volte rimandato di anni e anche oggi, oscurato, colpevolmente, dalle scadenze introdotte dal DL Semplificazione e, ancora di più, da quelle relative al Fondo per l’innovazione. Fra i tanti cambiamenti che questa scadenza porterà, ce n’è uno in particolare che rappresenta un simbolo per la digitalizzazione della PA: l’affrancamento, tanto agognato da molti, ma altrettanto temuto e ostacolato da altri, dalla carta. Ci si chiede se riusciremo davvero a fare in modo che la carta sparisca dalle nostre amministrazioni.
L’articolo 40 del Codice dell’Amministrazione digitale
In primis è bene ricordare cosa prevede l’articolo 40, uno dei caposaldi del CAD e uno di quelli che ha subito il minor numero di modifiche. È rubricato “Formazione di documenti informatici”, e recita: “Le pubbliche amministrazioni formano gli originali dei propri documenti, inclusi quelli inerenti ad albi, elenchi e pubblici registri, con mezzi informatici secondo le disposizioni di cui al presente codice e le Linee guida”.
PA digitale, mission impossible al 28 febbraio 2021: luci e ombre del decreto
Un piccolo inciso per i non giuristi: l’indicativo presente, è il modo verbale proprio della norma giuridica ed è quello idoneo ad esprimere il comando. Così almeno recitano le Linee Guida per la redazione degli atti normativi (Circolare 10888/2001 della Presidenza del Consiglio dei Ministri). Quindi quanto stabilito all’articolo 40 è effettivamente un obbligo, le PA devono formare i propri documenti nel modo ivi indicato.
Al di là dell’epigrafe che lascerebbe pensare ad un articolo che ha come oggetto i soli documenti informatici, l’articolo 40 si riferisce della formazione degli originali (tutti) della PA, che deve essere realizzata con mezzi informatici. Il come realizzare questi documenti è specificato dalle Linee Guida, quelle che a breve diventeranno pienamente operative, rendendo, finalmente, dopo 15 anni dalla sua emanazione, l’articolo 40 e una parte consistente del Codice, applicabile.
Addio alla carta, o forse no
È opinione consolidata che una volta entrate in vigore le Linee Guida (o meglio, scaduti i nove mesi di tempo che il legislatore ha dato alle PA per adeguarvisi) le PA non possano più produrre i propri originali sulla carta. Nemmeno quelli che rappresentano albi, elenchi e pubblici registri e che tutt’ora sono quelli che più frequentemente si trovano ancora cartacei.
Molto meno convergente è però l’interpretazione su come comportarsi con i documenti che provengono dall’esterno della PA, ancora in formato cartaceo. Se per i documenti provenienti da altre PA o dalle Imprese/Liberi professionisti questo in teoria non può accadere, visto che oltre agli obblighi di formazione ci sono pure obblighi di trasmissione telematica, per quanto riguardo i cittadini invece, non essendoci alcun obbligo, ma solo un diritto all’uso del digitale, questa è una circostanza non solo possibile ma, ahimè, vista anche l’inadempienza delle PA a fornire servizi online, piuttosto diffusa. Come trattare questi documenti cartacei?
La modalità di formazione del documento informatico
Le Linee Guida stabiliscono le modalità di formazione del documento informatico al paragrafo 2.1.1. Non si occupano solo di stabilire come formare i propri originali, ma anche come acquisire documenti provenienti dall’esterno. Al punto b) si dice infatti: “acquisizione di un documento informatico per via telematica o su supporto informatico, acquisizione della copia per immagine su supporto informatico di un documento analogico, acquisizione della copia informatica di un documento analogico”.
La differenza interpretativa è relativa proprio a questo aspetto: per alcuni la formazione non è solo la produzione dei propri documenti ma anche la loro acquisizione dall’esterno. In altri termini, per produzione si deve intendere non solo quella dei propri documenti, ma in senso lato, ogni documento che finisce nell’archivio della PA, compresi quelli acquisiti. Questa chiave di lettura è quella che porta poi ad una visione estensiva dell’articolo 40, nel senso che la PA non solo dovrà produrre i propri originali in digitale, ma anche acquisire obbligatoriamente i documenti analogici provenienti dai cittadini, in ottemperanza a quando specificato al succitato punto b) del paragrafo 2.1.1.
La seconda interpretazione che credo (più che altro temo) essere la più corretta, certamente le maggiormente accettata, vede nelle Linee Guida delle regole non solo per la formazione dei propri originali, e quindi non specifiche per il solo articolo 40, ma anche al richiamato articolo 22 sulle copie informatiche di documenti analogici. Anche se, ad essere pignoli, l’acquisizione di documento informatico per via telematica anch’essa presente nel succitato punto b), esulerebbe un po’ da questo contesto e non è nemmeno riferibile alle copie informatiche di documento informatico.
In altre parole, secondo questa seconda interpretazione, la PA che riceva documenti cartacei non ha un obbligo di acquisirli in formato digitale ma si può limitare a tenerli così come li ha ricevuti.
Le conseguenze
Sposando la seconda tesi, dunque, la PA che non volesse convertire i propri documenti, è libera di non farlo, anche se, è bene chiarirlo, nulla (salvo alcuni ostacoli posti da alcuni Enti, di cui parleremo in seguito) vieta che lo faccia. Ma quali sono le conseguenze del non procedere all’acquisizione della carta, oggi, nel 2021, quando ormai PA e Imprese debbono necessariamente lavorare in digitale e anche quella ricevuta dai cittadini è destinata, nel tempo, a diminuire sempre più drasticamente?
Non acquisire il cartaceo significa dover gestire un cosiddetto archivio ibrido, composto cioè in parte di documenti analogici ed in parte di documenti digitali. È questo un problema gestionale decisamente più complesso e costoso di quanto si possa immaginare, specie nel caso in cui sia il singolo fascicolo ad essere ibrido. Un procedimento iniziato da un’istanza di parte cartacea dovrà necessariamente originare due fascicoli, uno su carta per contenere i documenti analogici presentati dal cittadino, uno elettronico per contenere i documenti prodotti dalla PA, che necessariamente debbono essere digitali. Non semplice, specie in un contesto dove la fascicolazione è spesso assente.
Sicuramente un onere gestionale non da poco, che si complica ancora di più se pensiamo che, oltre all’articolo 40, sarebbe da rispettare anche l’articolo 41, che al comma 2 dispone, fra le altre cose, che “la pubblica amministrazione titolare del procedimento raccoglie in un fascicolo informatico gli atti, i documenti e i dati del procedimento medesimo da chiunque formati”.
Quindi, un fascicolo informatico, stando a quanto prescritto dall’articolo 41, deve comunque esistere. Ma non solo, deve esistere e deve essere consultabile attraverso il sito istituzionale dell’Ente (e il sistema di cui all’art. 64-bis e quello di cui all’art. 40-ter, quando ci sarà) a disposizione di tutti i soggetti interessati. Quindi sarà pur vero che l’articolo 40 non pone in essere nessun obbligo per la PA di acquisizione dei documenti analogici, ma è altrettanto vero che l’art. 41 prescrive la formazione di un fascicolo informatico con precise caratteristiche e contenente tutti i documenti relativi al procedimento sottostante, da chiunque formati. Insomma, una qualche forma di acquisizione, seppur non necessariamente sostitutiva, dovrà avvenire.
E alla luce di questo è lecito chiedersi: vale davvero la pena non pensare ad acquisire, nelle giuste forme (cioè all’art. 22 del CAD e al paragrafo 2.2 delle LLGG)? Ha, oggi, 2021, ancora senso ad ostinarsi a voler mantenere la carta? Alle condizioni, e costi, sopra descritti?
I freni alla dematerializzazione
La risposta alle domande che ci siamo posti non può che essere articolata, perché moltissimi sono i fattori che concorrono a frenare non solo il processo di digitalizzazione della PA, ma anche la sua forma più “primitiva”, la dematerializzazione dei documenti.
Il primo ostacolo è probabilmente la legge: possibile che a 15 anni di distanza dall’uscita del CAD la legge sia ancora ambigua e non preveda in modo chiaro e indiscutibile un esplicito divieto, almeno per la PA, di formazione/acquisizione e utilizzo di documenti non informatici?
È pur vero che sembra “inconcepibile” imporre anche ai cittadini l’utilizzo dello strumento digitale, ma è altrettanto inconcepibile che per garantire il diritto (?) dell’uso della carta si vada di fatto a minare il diritto, sancito nel CAD, all’utilizzo del digitale.
È necessario trovare strumenti che equilibrino questi due diritti e che evitino il più possibile l’utilizzo del “doppio canale”, analogico e digitale, fardello insostenibile per una PA che cerca, con enorme fatica, di compiere la transizione al digitale.
Uno di questi strumenti, fondamentale, sarebbe il Domicilio Digitale per le persone fisiche, INAD, che incredibilmente ed inspiegabilmente, a distanza di lustri, ancora non si palesa. Perché, ed è bene rimarcarlo, l’articolo 3-bis, comma 4 del CAD, prevede che la comunicazione PA – cittadino avvenga esclusivamente attraverso il Domicilio Digitale e, anche in sua assenza (comma 3-bis), in modalità esclusivamente elettronica. Ma se INAD non c’è, ed il Decreto (atteso da ben otto anni!), di cui al comma 3-bis e che dovrebbe fissare modalità e data in cui le comunicazioni con i cittadini sprovvisti di domicilio digitale dovranno comunque avvenire solo in modalità elettronica, la norma rimane inapplicabile e l’onere del “doppio canale” tutto sulle spalle delle amministrazioni.
Le resistenze culturali
Queste mancanze vanno poi a sommarsi, a volte generando loro stesse, resistenze “culturali” che esistono, ancora forti, nella PA. Basti pensare al frequente diniego da parte di molte Soprintendenze, allo scarto degli originali cartacei acquisiti in copia conforme ai sensi dell’art.22 del CAD. Che costringe anche le PA più virtuose a mantenere inutili originali analogici e, spesso, anche a gestire i relativi fascicoli ibridi. Comportamenti questi che non fanno altro che scoraggiare, per altro senza una vera giustificazione giuridica, il processo di dematerializzazione, ma soprattutto non aiutano ad uscire dalla mentalità, ancora largamente imperante nella PA, di quello che definirei “Document first”.
Principio per cui la digitalizzazione è pensata come la mera trasposizione del documento analogico, e questo a prescindere dalla natura del documento stesso, in un PDF/A, di fatto inconciliabile con il vero significato di digitalizzazione.