Sono trascorsi ormai otto anni dalla sentenza “Google Spain”, con cui la Corte di Giustizia ha riconosciuto i motori di ricerca come titolari del trattamento e, pertanto, responsabili della corretta raccolta, gestione ed elaborazione delle informazioni personali presenti in Rete, nel rispetto del quadro normativo in materia di tutela dei dati.
Un quadro attualmente racchiuso a livello europeo nella specifica trama regolativa definita dal Regolamento (UE) 679/2016[1].
Diritto all’oblio, ecco come rispettarlo secondo gli interventi del Garante privacy
Tale qualificazione ha delineato da allora il quadro di responsabilità e di obblighi che ricadono su tali operatori, che assumono inevitabilmente un ruolo centrale nell’attuale società della informazione e della comunicazione, dal momento che mettono a disposizione degli utenti le coordinate necessarie per orientarsi nel mare magnum delle informazioni presenti in Internet.
È incontrovertibile, infatti, che in loro assenza l’attività di ricerca all’interno dello scenario digitale risulterebbe estremamente complicata, se non addirittura impossibile, data la vastità delle notizie e delle immagini che vengono quotidianamente caricate e diffuse tramite la Rete.
Questa quasi sostanziale irrinunciabilità al servizio da essi erogato è espressione dell’importanza dell’attività svolta, ma al contempo testimonia anche la delicatezza del ruolo che essi assumono oggi all’interno delle società democraticamente avanzate.
I motori di ricerca come “porte d’accesso” all’informazione nell’era digitale
In uno scenario fortemente connesso, in cui è sempre più significativo il processo di integrazione tra la sfera reale e quella digitale, tali operatori costituiscono, infatti, le “porte di accesso” alla conoscenza, incidendo significativamente sulle modalità di fruizione dei contenuti informativi.
Ne consegue che il modo con cui essi strutturano il proprio servizio, definendo la logica algoritmica in grado di orientare la ricerca dell’utente e l’organizzazione dei risultati indicizzati con il posizionamento di alcune informazioni in prima linea, ricade inevitabilmente sull’esercizio di uno dei pilastri fondamentali degli assetti democratici, vale a dire la libertà di manifestazione del pensiero, nella sua duplice declinazione di diritto di informare ed essere informati.
Parallelamente, ricade sulla tutela della sfera privata dell’individuo e, quindi, della corretta proiezione della sua identità all’interno dello scenario digitale.
In altri termini, il motore di ricerca quale gatekeeper dell’informazione digitale influisce con il suo operare su una delle più significative e delicate attività di bilanciamento tra diritti fondamentali all’interno delle architetture democratiche.
Infatti, incide da un lato sull’accessibilità delle notizie, sulla loro pluralità e, quindi, in una visione più ampia e sistemica, sul percorso di formazione dell’opinione pubblica, dall’altro sulla diffusione delle informazioni personali e, quindi, sul rispetto della persona e della sua sfera privata, che è elemento centrale attorno cui vengono a dipanarsi i principi e valori che orientano la società europea.
L’onere di intervento per il diritto all’oblio
È alla luce proprio di tale peculiare posizione rivestita all’interno dello scenario digitale, quindi, che la Corte di Giustizia ha affidato a tali operatori la concreta realizzazione del diritto all’oblio in Rete o meglio della sua dimensione digitale intesa come diritto di deindicizzazione, ovvero di cancellazione, attribuendo loro l’onere di intervenire, in qualità di titolari del trattamento, nel caso in cui il soggetto interessato lamenti un utilizzo illecito dei propri dati personali.
In tale prospettiva, quindi, come è noto, ai sensi dell’art. 17 del Regolamento (EU) 679/2016 spetta al motore di ricerca di rimuovere tali informazioni nel caso in cui non siano più necessarie rispetto alla finalità originaria (articolo 17, paragrafo 1, lettera a); di revoca del consenso (articolo 17, paragrafo 1, lettera b); di esercizio del diritto di opposizione ex art. 21, sono stati trattate illecitamente ovvero sia necessario per adempiere un obbligo legale.
Tuttavia, dal momento che il diritto alla tutela della vita privata non è assoluto ma deve “essere considerato in relazione alla sua funzione sociale ed essere bilanciato con altri diritti fondamentali, conformemente al principio di proporzionalità”[2], ricade sullo stesso motore di ricerca il difficile compito di valutare se sussistono motivazioni rilevanti e proporzionali tali da giustificare il rigetto della richiesta di rimozione delle informazioni personali in presenza di un prevalente interesse della collettività a essere informata, ai sensi dell’articolo 17, paragrafo 3, lettera a) del Regolamento europeo 679/2016.
In altri termini, all’interno dello scenario digitale, il motore di ricerca assume un ruolo determinante nella definizione di uno spazio informativo che sia plurale in termini di “fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati ostacoli legali, anche temporanei, alla circolazione delle notizie e delle idee”[3] operando come uno dei custodi di quel pluralismo che della democraticità delle moderne società costituisce un pilastro essenziale.
La pronuncia con l’attribuzione della verifica dell’inesattezza dei dati trattati
La rilevanza di tale decisione è emersa nuovamente in occasione della presentazione delle conclusioni dell’Avvocato generale Pitruzzella in risposta alla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte di Giustizia dal Bundesgerichtshof, la Corte federale di giustizia tedesca, nell’ambito della causa C-460/20 che vede ancora una volta al centro del dibattito in aula il motore di ricerca americano Google.
Il dibattimento contempla la corretta interpretazione dell’art. 17, par. 3, lett. a) del Regolamento 2016/679, con riferimento alla richiesta di deindicizzazione di alcune informazioni ritenute dai ricorrenti false e di rimozione di immagini sotto forma di miniature, cd. “thumbnails”.
L’Avvocato generale ha evidenziato la necessità di prevedere una soluzione imperniata su un “procedural data due process”, in virtù del quale incomberebbe sull’interessato l’obbligo di fornire un principio di prova della falsità dei contenuti di cui si chiede la deindicizzazione.
Ha attribuito, invece, al motore di ricerca, il compito di verificare l’allegata inesattezza dei dati trattati, nel rispetto delle proprie capacità tecniche effettive, anche interpellando, quando possibile, l’editore della pagina web indicizzata.
Solo in caso di persistenza del dubbio circa l’autenticità dei contenuti il motore di ricerca dovrebbe procedere con il rigetto della domanda, lasciando all’interessato la possibilità di rivolgersi all’autorità di controllo ex art. 51 del GDPR per opporsi alla scelta effettuata dall’hosting provider.
In tale prospettiva, pertanto, nell’ambito di azione del diritto all’oblio, viene riconosciuto al motore di ricerca, un nuovo e, soprattutto, rilevante potere di intervento, se calato all’interno di una società democraticamente organizzata, che consiste nella autonoma verifica della veridicità delle informazioni veicolate tramite la propria piattaforma.
Un potere, inoltre, che risulta ancor più significativo se valutato alla luce della perdurante assenza di un obbligo di monitoraggio generalizzato sui contenuti ospitati, già previsto dalla direttiva sul commercio elettronico 2000/31/CE all’art.15[4] e ribadito dal Digital Service Act approvato solo pochi giorni fa dal Parlamento europeo.
I nuovi rischi per il pluralismo informativo nello scenario digitale
La soluzione prospettata dall’Avvocato generale si colloca pienamente nel processo di responsabilizzazione (cd. accountability) dei titolari di attività di trattamento dei dati personali che, come è noto, costituisce uno dei pilastri fondamentali del quadro normativo delineato in materia dal legislatore europeo del 2016.
Alla luce della consapevolezza che l’impiego di informazioni personali sia di per sé un’attività rischiosa perché in grado di incidere significativamente sull’esercizio di diritti e libertà fondamentali, le norme in materia impongono, infatti, un sistema dettagliato di obblighi a carico del soggetto che raccoglie e utilizza tali preziosi frammenti informativi, in modo da minimizzare il rischio di utilizzi pregiudizievoli per i soggetti coinvolti all’interno della società digitale.
Inoltre, tale visione risponde perfettamente anche alla generale tendenza, delineata sempre in ambito europeo – si veda ad esempio il Digital Service Act e il Digital Markets Act – di garantire interventi volti a porre fine sollecitamente a comportamenti illeciti, attraverso il più diretto coinvolgimento degli stessi operatori digitali che gestiscono tali piattaforme.
In tale prospettiva, infatti, va valutata la proposta dell’Avvocato generale di prevedere, in modo da evitare un pregiudizio irreparabile per la persona coinvolta, la possibilità per il motore di ricerca di effettuare una sospensione temporanea dell’indicizzazione, ai sensi dell’art. 18, par.1, lett. a) del GDPR.
Le criticità sull’attuale percorso di coinvolgimento dei motori di ricerca
Tuttavia, seppur condivisibile negli intenti, tale percorso di coinvolgimento attivo degli operatori della Rete, tra cui si pongono inevitabilmente anche i motori di ricerca, solleva alcune importanti perplessità, almeno nelle modalità con cui si prevede di darne pieno compimento.
La prima criticità di rilievo è rappresentata dal fatto che, seguendo tale visione, il primo e più rilevante “presidio di garanzia” a favore degli utenti della Rete viene inevitabilmente affidato agli operatori privati che, tuttavia, rappresentano, al contempo, parte integrante del problema che si intende risolvere.
D’altra parte, sono le stesse conclusioni dell’Avvocato generale a evidenziare tale problematica, dal momento che da esse traspare chiaramente una generale consapevolezza che l’attività svolta da tali motori di ricerca costituisca in ogni caso un’attività non neutra e, soprattutto, particolarmente significativa nell’ecosistema digitale.
È ampiamente noto, infatti, che pur non intervenendo sulla scelta dei contenuti diffusi, tali soggetti decidono, tuttavia, dell’organizzazione degli stessi, fondando proprio sulla disposizione dei risultati della ricerca il loro modello di business e, quindi, il profitto ricavato dal servizio erogato.
Un’operazione, inoltre, che viene realizzata attraverso l’impiego di algoritmi la cui logica decisionale risulta saldamente protetta dalle incisive norme in materia di proprietà intellettuale o di segreto industriale e, quindi, spesso sottratta alla piena conoscibilità esterna, rendendo opaca la valutazione delle ragioni per cui un determinato contenuto risulti “raccomandato” all’utente in luogo di un altro.
In un panorama così delineato, è evidente che la scelta di quali e, soprattutto, di come le informazioni vengano immesse all’interno del circuito democratico rischia di essere sempre più all’appannaggio di tali operatori dal momento che essi non solo rappresentano, come indicato, le “porte di accesso alla conoscenza” alla luce del loro ruolo di gatekeeper, ma stabiliscono anche i criteri di diffusione delle informazioni che circolano sul web e, inoltre, definiscono autonomamente i contenuti ammissibili sulla propria piattaforma attraverso l’adozione di regole interne di “content moderation”.
A tale prima selezione “interna” dei contenuti diffusi, definita alla luce della relativa e specifica mission aziendale, si aggiunge poi l’attività di selezione “esterna” che, come evidenziato, è dettata dall’architettura regolamentare delineata dal legislatore europeo in visione del percorso di responsabilizzazione di tali operatori.
In questo ambito le criticità si fanno ancora più significative dal momento in cui, come sottolineato dallo stesso Avvocato generale, tra i punti fermi che emergono nella giurisprudenza della Corte in materia di trattamento di dati personali con riferimento ai motori di ricerca rientra anche “la necessità di prendere in considerazione tutti i diritti fondamentali in gioco nel contesto di una domanda di deindicizzazione rivolta al gestore di un motore di ricerca e di operare un bilanciamento di tali diritti che tenga conto, oltre che delle circostanze del caso concreto, delle caratteristiche tecnologiche dell’ambiente di Internet”.
Ne consegue che il percorso di responsabilizzazione avviato con il GDPR, se portato all’estreme conseguenze, finisce con l’affidare a tali soggetti uno dei momenti più significativi e caratterizzanti uno Stato di diritto rappresentato, come è noto, dall’individuazione di un idoneo punto di equilibrio tra interessi parimenti tutelati, ma confliggenti.
Un trasferimento che nell’alveo delle attività dei motori di ricerca risulta ancora più significativo e, quindi, preoccupante, perché viene ad incidere direttamente su uno dei pilastri fondamentali a garanzia della democraticità di una società che si sostanzia proprio nella pluralità delle idee, opinioni e conoscenze che arricchiscono il dibattito sociale.
L’impatto sullo scenario informativo
Il pericolo che si evidenzia, pertanto, è la creazione di uno scenario informativo irrimediabilmente alterato dall’azione di grandi imprese tecnologiche, in grado di incidere in maniera significativa sul livello quali-quantitativo delle informazioni diffuse.
Da un lato, attraverso la determinazione dei contenuti ammissibili sulle proprie piattaforme nel rispetto delle proprie condizioni contrattuali; dall’altro, mediante la realizzazione, in qualità di titolari del trattamento, di attività di deindicizzazione alla ricerca di un bilanciamento tra diritti fondamentali che potrebbe declinarsi pericolosamente a vantaggio di interessi non necessariamente rispondenti le esigenze della collettività.
Tutto questo, inoltre, all’interno di un mercato che si mostra estremamente concentrato con il primo motore di ricerca, che d’altra parte è lo stesso coinvolto nel caso oggetto di analisi, che presenta oggi una quota di mercato del 91,9% delle ricerche che vengono effettuate quotidianamente dagli utenti su tutte le piattaforme[5].
È evidente che in tale prospettiva si impone la necessità di effettuare una riflessione circa l’effettiva opportunità di affidare a tali operatori anche la valutazione della veridicità delle informazioni presenti in Rete, vista la delicatezza dell’operazione che va a incidere direttamente su uno dei tre parametri fondamentali che insieme alla continenza e alla pertinenza, come sottolineato dalla Corte di Cassazione nella ormai celebre “sentenza Decalogo” (Cass. Civ., Sez. I, 18 ottobre 1984, n. 5259), contribuisce a definire i confini legittimi del diritto di cronaca.
Sebbene l’Avvocato generale ritenga che la previa predisposizione da parte dei ricorrenti delle prove a sostegno della falsità delle informazioni diffuse impedisca di “trasformare Google nel «giudice della verità» è chiaramente percepibile che in un contesto di quasi monopolio e di estrema pervasività di strumenti che sono in grado di incidere “in modo significativo ed in aggiunta all’attività degli editori”[6] sull’esercizio di diritti fondamentali, il rischio di una eccessiva compressione delle opportunità informative nello scenario digitale a danno del vitale valore del pluralismo appare ancora più concreto.
Conclusioni
Pur nella consapevole necessità di intervenire tempestivamente sul fluire incessante dei contenuti in Rete al fine di preservare la dignità dell’individuo coinvolto da un possibile “sfregio permanente della sua identità” determinato dalla circolazione imperitura di una informazione non veritiera, il coinvolgimento di tali piattaforme, evidentemente imprescindibile per le caratteristiche del mezzo, in una sfera così rilevante per la formazione dell’opinione pubblica e dell’evoluzione democratica della società richiederebbe parimenti un più significativo coinvolgimento dei pubblici poteri.
In tal senso sarebbe auspicabile intraprendere, anche e soprattutto in tale ambito vitale per le sorti del dibattito pubblico, la via della co-regolazione, che consente di unire l’animo spiccatamente privatistico delle piattaforme con le esigenze di carattere pubblico di società democraticamente organizzate.
In particolare, una possibile soluzione dovrebbe orientarsi verso l’affidamento a tali piattaforme della sola fase, comunque fondamentale, dell’intervento immediato sul contenuto illecito, al fine di limitare l’effetto propagazione determinato dalla Rete mediante, ad esempio, la previsione della sospensione dell’indicizzazione.
Questo consentirebbe di garantire una immediata tutela, seppur non definitiva, al soggetto interessato e, al contempo, permetterebbe di ricondurre l’attività di bilanciamento tra diritti fondamentali nella sua sede “naturale”, costituita dalla trama di istituti espressione del vivere democratico.
Note
- Sentenza della Corte di Giustizia del 13 maggio 2014 Google Spain SL e Google Inc. contro l’Agencia Española de Protección de Datos e Mario Costeja González (causa C−131/12). ↑
- CGUE, causa C-136/17, sentenza del 24 settembre 2019, punto 57 ↑
- Corte Costituzionale sentenza n. 105/1972. Affermazione ribadita anche nella sentenza. n. 94 del 1977. ↑
- Direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («Direttiva sul commercio elettronico») ↑
- Il dato si riferisce a giugno 2022 e riguarda il mercato europeo. Gli altri motori di ricerca presentano un notevole distacco rispetto a Google: Bing, infatti detiene una quota di mercato del 3,69%, seguita da YANDEX 1.64% Yahoo! 0.96% DuckDuckGo 0.57% ed Ecosia 0.35% I dati aggiornati sono reperibili al seguente link Search Engine Market Share Europe | Statcounter Global Stats ↑
- Corte di Giustizia, causa 131/12, punto 38. ↑