Niente da fare, nemmeno la consolidata efficienza del sistema di trasmissione di allegati per mezzo della PEC – posta elettronica certificata è riuscita ad infrangere il muro del formalismo dietro il quale si è trincerata la Suprema Corte.
Le parti private del processo penale non possono depositare a mezzo PEC atti processuali di nessun genere. Una recente pronuncia depositata lo scorso settembre dalla Terza Sezione Penale della Cassazione (Cass., Sez. III, n. 37126/19) ha ribadito il divieto, considerando tam quam non esset la richiesta di rinvio per concomitante impegno professionale, inoltrata da un difensore con posta elettronica certificata all’indirizzo della cancelleria d’una Corte di Appello.
PEC e deposito atti
Nemmeno la prova documentale della regolare ricezione del messaggio telematico contenente la richiesta del difensore ha fatto breccia tra gli Ermellini, che hanno – anzi – sciorinato una lunga serie di precedenti giurisprudenziali con i quali si è affermato che la PEC non è un mezzo idoneo di deposito degli atti processuali da parte del difensore. Le numerose sentenze citate, tutte conformi nel risultato finale, riguardano una ricca casistica di atti processuali di parte, ritenuti non correttamente depositati proprio perchè inviati col sistema della posta elettronica certificata.
Questo valido e collaudato strumento informatico, secondo le indicazioni che provengono dai giudici di legittimità, può essere utilizzato soltanto dall’autorità giudiziaria per effettuare notifiche a persona diversa dall’imputato (così vuole la l. 221/2012). Gli argomenti della comprovata efficienza, della necessità di celerizzare le attività processuali, del pieno raggiungimento dello scopo (quell’istanza era effettivamente pervenuta al destinatario) non sono riusciti a prevalere sulla rigidità di un dato normativo che appare ogni giorno più capriccioso ed insensato.
Soltanto in un caso, dicono i supremi giudici, può farsi uno strappo alla regola generale: ci si riferisce al deposito di richieste e memorie dirette al giudice della convalida del D.A.SPO. (v., in questo senso, Cass., III, 17844/19). Alla base di questa eccezione vi è un cavillo: la L. 401/89 non prevede che gli atti summenzionati debbano essere depositati necessariamente in cancelleria, data la particolare ristrettezza temporale della tempistica della procedura di convalida.
La garanzia della PEC
Il ragionamento, francamente, convince poco: più che un’eccezione alla regola generale che fa divieto di depositare a mezzo PEC atti processuali, e che correlativamente impone al giudice di non considerare i documenti eventualmente pervenutigli con quella modalità, sembra che ci si sia concentrati soltanto sul rilievo che per quella specifica ipotesi non sarebbe necessario il deposito in cancelleria. Il precipitato di questo ragionamento giunge a conclusioni che lasciano perplessi perchè consacrerebbe lo strano principio secondo cui un giudice dovrebbe tener conto di un atto processuale pervenutogli a mezzo PEC – ad esempio, una memoria difensiva – soltanto se quest’ultimo potrebbe anche non essere depositato presso la propria cancelleria. Lo stesso identico atto, invece, in contesti processuali meno contratti di quello per la convalida del D.A.SPO., dovrebbe essere ignorato se pervenuto in modalità telematica. Il tutto a prescindere da rilievi che mettano in dubbio, ad esempio, l’autenticità dell’indirizzo del mittente o la effettiva paternità dell’atto stesso.
Eppure, se consideriamo la tecnica che risiede dietro un servizio di posta elettronica certificata, possiamo certamente apprezzare che gli elaboratori dei vari sistemi telematici a ciò deputati hanno lavorato soprattutto per garantire l’univoca riferibilità dell’indirizzo ad un determinato soggetto, garantendo sicurezza massima nell’invio e nella ricezione dei messaggi: la traccia telematica di un messaggio PEC deve necessariamente considerarsi equivalente alla consegna a mani dell’incaricato di cancelleria. E ci scuseranno i lettori se ci lasciamo andare ad una riflessione banale: la percentuale che un messaggio di posta elettronica certificata fallisca il bersaglio dovrebbe essere infinitamente più contenuta di quella che un foglio di carta vada smarrito presso una cancelleria (non ce ne voglia la categoria del personale amministrativo in servizio presso tutti gli uffici giudiziari: tutti conosciamo il livello di cronica caoticità che li contraddistingue).
Il concetto di inammissibilità
Per tornare all’eccezione della convalida del D.A.SPO.: non si comprende oltretutto in che modo la facoltatività del deposito in cancelleria di un atto, e non invece la sua effettiva genuinità o paternità, possa riverberarsi in concreto sia sulla sua ammissibilità, sia sulla utilizzabilità di quest’ultimo; sono, se ci pensiamo bene, profili di valutazione del tutto diversi: la selezione è operata sulla necessità o meno che un atto debba giungere al giudice tramite la cancelleria, mentre l’interesse che le disposizioni sulle notificazioni mirano a tutelare è senza dubbio quello di garantire sia la sicura riconducibilità di un atto al suo autore, sia la conoscenza ufficiale di quest’ultimo da parte del destinatario.
Scomodare la categoria giuridica dell’inammissibilità e dell’inutilizzabilità comporta, in ultimo, un ulteriore problema sistematico: le sanzioni processuali appena citate soggiaciono al principio di tassatività esplicita. Nel caso che ci occupa, invece, si ricava una forma di inammissibilità facendo leva sul silenzio della legge in ordine alla usufruibilità da parte dei difensori del sistema di deposito “virtuale” a mezzo PEC. Comprendiamo benissimo gli scopi – la cui tenuta formale viene garantita con l’osservazione che la disciplina sulle notifiche telematiche è, di per se stessa, un’eccezione alla regola – tuttavia la frattura con i principi generali in tema di cause di invalidità è enorme.
Conclusione
I tempi sono più che maturi per un ripensamento della disciplina in esame: in un contesto nel quale la novella dei codici sembra diventato uno sport nazionale lo snellimento delle tecniche di notifica è stato fino ad oggi accantonato. Il formante giurisprudenziale – dobbiamo dargliene atto – ha provato a smuovere le acque qualche anno fa: nel dicembre 2016, la Quarta Sezione della Cassazione aveva rimesso alle Sezioni Unite la problematica sulla eseguibilità delle notifiche delle parti private a mezzo PEC. Il tentativo, però, è franato nel vuoto: il Primo Presidente della corte di legittimità, qualche giorno dopo, ha respinto la questione.