LA CRITICA

Processo Civile Telematico, a chi spetta l’adeguamento tecnologico

La legge non impone agli avvocati di aggiornare le dotazioni tecnologiche per il Processo Civile Telematico, ma per la Cassazione ci sono obblighi precisi di digitalizzazione: un punto di vista critico.

Pubblicato il 29 Ago 2018

Michele Gorga

avvocato

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Il Processo telematico che nelle previsioni Ministeriali doveva essere il volano della velocizzazione della giustizia civile si è trasformato in una nuova causa di rallentamento e di difficoltà per gli avvocati.

Il motivo: ai ritardi originati dal cattivo funzionamento del servizio giustizia, somma il mal funzionamento dei software, degli applicativi e della rete non adeguate alle necessità. In più, in materia di obblighi di digitalizzazione, si segnala una sentenza di Cassazione che contrasta con la norma primaria.

Lo status

Partiamo dalla situazione generale. Le ricorrenti sospensioni per motivi tecnici e i necessari temporanei break per gli inevitabili aggiornamenti delle piattaforme del servizio giustizia, si aggiungono ai ritardi degli applicativi di studio per il deposito degli atti da firmare digitalmente, che costantemente deve essere aggiornato. Assurda è poi, la necessità dell’acquisto della marca temporale per la firma dei documenti nativi cartacei o informatici da depositare presso le Pubbliche Amministrazioni.

Per il decollo del PCT, processo civile telematico, era cruciale la questione dell’infrastruttura proprio perché l’informatizzazione di un ramo importante dell’amministrazione pubblica, la giustizia, non solo doveva essere valorizzata come la più grande esperienza di telelavoro pubblico-privato mai realizzato in Europa, ma anche per il superamento degli elementi  più critici dovuti sia alla vetustà dell’architettura dell’attuale modello, poco flessibile rispetto all’opportunità di utilizzo delle nuove chiavi tecnologiche come SPID, sia rispetto ai nuovi applicativi e alle piattaforme di più recente generazione che già fanno ritenere quelli attuali del PCT, del PAT (processo amministrativo telematico), del PTT (processo tributario telematico) e del PT Contabile, appartenenti all’archeologia tecnologica.

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Ben poche ma indicative, sono state le variazioni dell’architettura iniziale del PCT, che dall’originario sistema ad intranet (rete dedicata e sicura, punti di accesso certificati tramite quella che era la PECPT, ossia dedicata per il solo Processo telematico) è passato alla PEC e, per l’accesso a internet, agli applicativi quali la firma digitale, o i Software di gestione dello studio, che null’altro hanno prodotto se non lo spostamento dell’onere dei costi di accesso dal Ministero della Giustizia all’avvocatura.

Ma se da un lato devono essere evidenziate le storture dell’utilizzo dell’informatica e della telematica nel processo, dall’altro numerose sono state le tappe di svolta verso la nuova forma di telegiurisdizione. Così negli ultimi anni sono state rinnovate le dotazioni dei personal a tutti i magistrati con versioni aggiornate di Windows, protetti da idonei antivirus. Sono state installate nuove apparecchiature server e storage, aggiornate all’ultima versione di Oracle e adeguatamente protette da efficaci antivirus che consentono di gestire dati e documenti del fascicolo informatico in ambiente Linux.

La sentenza della cassazione sul PCT

Speculare all’attività del ministero della Giustizia per le forniture di hardware e software è stata l’attività della giurisdizione volta a consolidare la modalità telematica del processo civile. In tale prospettiva è da segnalare una recente sentenza della Cassazione sul principio di diritto in base al quale gli avvocati hanno l’obbligo di adeguarsi all’evoluzione del processo telematico, dotandosi degli strumenti in loro uso poter decodificare i documenti e gestire la digitalizzazione di tutti gli atti del processo.

La Corte di Cassazione con la sentenza n° 22320 del 2017 ha, infatti, respinto, il ricorso presentato da un avvocato che chiedeva di essere sollevato dalla responsabilità per non essere stato in grado di decodificare un documento sottoscritto in Cades con estensione “p7m” poiché privo degli strumenti software idonei.

Il principio di diritto affermato con la sentenza della Corte, è così riassumibile: “Avendo avuto il processo civile telematico una fase di lunga sperimentazione e di graduale applicazione, non possono ritenersi legittimi i ritardi nell’adeguamento tecnologico e formativo da parte degli avvocati per tale modalità processuale“. Per la sentenza gli avvocati hanno, quindi, l’obbligo di adeguarsi alle nuove dinamiche del processo telematico avendo avuto tutto il tempo necessario per acquistare software per la decodifica dei file, per i quali “non ci sono più scuse”.

La posizione della Corte di Cassazione contrasta, però, con il dato normativo che non prevede alcun obbligo giuridico del genere e, preme doverlo ricordare a quella che tra le Corti ha proprio il compito, costituzionalmente orientato, di verificare, accertare e dichiarare “la violazione e l’esatta applicazione delle leggi in sede processuale” che la forma degli atti è ancora libera, avendo rilievo, ai fini processuali, solo l’elemento specifico di documentazione, quando tassativamente la legge lo richiede.

Un obbligo, quindi, non legislativamente imposto e che qualora dovesse essere introdotto determinerebbe per gli avvocati l’insorgere di oneri difficile da rispettare a fronte di una normativa tecnica in costante evoluzione. Il risultato rischia di essere lesivo del principio della libertà della forma in materia processuale, basata su regole tecniche, che sfuggono dal controllo della sovranità alle quali soggiacciono, invece, le norme giuridiche sostanziali e processuali.

Per la Cassazione, invece, un tale obbligo c’è e va assolutamente rispettato e in base ad esso gli avvocati sono obbligati ad adeguarsi acquistando dei software avanzati e aggiornati e sono anche tenuti alla formazione per l’approfondimento delle dinamiche del processo telematico. In caso contrario saranno direttamente responsabili delle relative nullità processuali.

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