L'approfondimento

Processo civile telematico, troppe incertezze dalla Corte di Cassazione

La Suprema corte, chiamata a far chiarezza sulla possibilità di digitalizzare le procedure nell’ambito del processo civile telematico, spesso si è trovata in difficoltà, facendo sprofondare nel dubbio gli operatori della giustizia. Ecco il quadro

Pubblicato il 09 Mar 2020

Riccardo Berti

Avvocato e DPO in Verona

Franco Zumerle

Avvocato Coordinatore Commissione Informatica Ordine Avv. Verona

Giustizia digitale

L’avvio del Processo civile telematico a macchia di leopardo, con atti e uffici che ancora si affidano interamente al cartaceo, ci ha posto di fronte a incerte decisioni da parte degli uffici giudiziari, che sono stati chiamati fin da subito a dirimere delicate questioni “processual-telematiche” delle quali però non avevano esperienza diretta.  Il problema è amplificato nel caso della Suprema Corte di Cassazione, chiamata a decisioni che dovrebbero essere portatrici di chiarezza risolutoria ma che la Corte, complice il fatto che il PCT non è attivo presso il suo ufficio, non è stata in varie occasioni in grado di fornire, non avendo mai conosciuto davvero tali strumenti.

Se in un primo periodo la Suprema Corte, con benevolo atteggiamento sostanzialistico, ha spesso salvato i legali alle prime armi con le modalità telematiche, facendo leva sul principio di cui all’art. 156 c.p.c. che esclude la possibilità di dichiarare la nullità di un atto se questo ha raggiunto il suo scopo, una volta abbandonato questo “terreno sicuro” la Cassazione si è trovata più volte incerta sul da farsi, creando spesso confusione anche dove non c’era.

Ricorso/sentenza notificati via PEC, la mancata produzione

La Cassazione ha infatti messo presto da parte l’atteggiamento bonario fondato sul principio del raggiungimento dello scopo per “troncare” una cospicua mole di ricorsi, giudicati improcedibili per il fatto di non aver prodotto in una con il ricorso, la copia autentica rispettivamente della sentenza notificata da controparte via PEC o del ricorso notificato via PEC. La mancanza di questo adempimento di forma è stata ritenuta sufficiente per pronunciare l’improcedibilità del ricorso anche nei casi in cui controparte non avesse eccepito la circostanza, né comunque la tardività del deposito del ricorso.

Per legittimare una simile lettura la Suprema Corte è andata anche a “cercare” il potere di autentica del difensore per un atto che, nel caso della sentenza, è solo ricevuto dal legale e quindi non parrebbe un possibile oggetto di attestazione di conformità. La Cassazione ha però rinvenuto nell’art. 9, commi 1 bis e 1 ter della L. n. 53 del 1994 (in realtà rivolti all’attestazione dell’atto che il legale notifica e non di quello che il legale riceve) un “potere di autentica” riguardante anche l’atto inviato ed ha quindi sanzionato i legali che non vi avevano provveduto (ed erano numerosi visto che, un simile potere di autentica, non sapevano nemmeno di averlo prima che lo affermasse la Cassazione!).

Dopo molte pronunce in cui ha ribadito con fermezza tale principio, con conseguente falcidia di ricorsi per questa improcedibiltà formale, la Cassazione a Sezioni Unite, con la pronuncia n. 22438/2018 ha affermato che la mancata produzione del ricorso notificato via PEC entro il termine previsto per il deposito del ricorso, non ne comporta l’improcedibilità ove il controricorrente (anche tardivamente costituitosi) depositi copia analogica del ricorso ritualmente autenticata ovvero non disconosca la conformità della copia informale all’originale notificatogli. Soluzione a metà questa che, per espressa affermazione delle Sezioni Unite, non si estendeva però all’ipotesi, di fatto identica, di mancata produzione della sentenza notificata via PEC.

Pochi mesi dopo però la Corte ha reso una nuova sentenza a Sezioni Unite, la n. 8312/2019, con cui ha affermato che la mancata produzione della sentenza notificata via PEC non comporta l’improcedibilità del ricorso ove l’unico controricorrente o uno dei controricorrenti (anche tardivamente costituitosi) depositi copia analogica della decisione stessa ritualmente autenticata ovvero non disconosca la conformità della copia. Per evitare un completo revirement rispetto a quanto in precedenza affermato, la pronuncia “salva” la potestà del legale che ha ricevuto la notifica di attestarne la conformità ex art. 9 L. 53/94. Dopo anni di draconiano formalismo la Corte torna quindi sui suoi passi ed ammette un errore che però, nel frattempo, ha causato ingenti danni, negando tutela a legittime domande di giustizia.

Esclusione di INI-PEC dai registri ai fini delle notifiche

Sbagliavamo però a salutare le sentenze appena viste come il sintomo di un giudice nomofilattico finalmente al passo con il fenomeno tecnologico ed, infatti, con la pronuncia n. 3709 del 08.02.2019, resa dalla terza sezione della Corte di Cassazione, la Suprema Corte ha di nuovo atterrito gli avvocati, affermando che: “Il domicilio digitale previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies [..] corrisponde all’indirizzo PEC che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza e che, per il tramite di quest’ultimo, è inserito nel Registro Generale degli Indirizzi Elettronici (ReGIndE) gestito dal Ministero della giustizia. Solo questo indirizzo è qualificato ai fini processuali ed idoneo a garantire l’effettiva difesa, sicchè la notificazione di un atto giudiziario ad un indirizzo PEC riferibile – a seconda dei casi – alla parte personalmente o al difensore, ma diverso da quello inserito nel ReGIndE, è nulla, restando del tutto irrilevante la circostanza che detto indirizzo risulti dall’Indice Nazionale degli Indirizzi di Posta Elettronica Certificata (INI-PEC)“.

Ora: gli avvocati utilizzano quasi sempre il registro INI-PEC per le notifiche ai Colleghi, perché l’ulteriore registro ReGIndE è accessibile solo con autenticazione tramite smartcard e questo presuppone un browser capace di leggere i certificati CNS e comporta una maggior lentezza nella navigazione. Del resto, la normativa è cristallina nell’includere l’INI-PEC tra gli elenchi pubblici validi per l’esecuzione delle notificazioni ai sensi dell’art. 3-bis L. 53/1994, in posizione di esatta parità giuridica con il ReGIndE (art. 16 ter e sexies del d.l. 179/2012). La pronuncia ha quindi mandato nel panico gli avvocati, che già vedevano poste nel nulla tutte le loro notifiche. La sentenza è in realtà frutto di un semplice errore materiale della Suprema Corte, che voleva invece riferirsi al diverso registro IndicePA (tale registro non è infatti utilizzabile per le notifiche nel PCT).

La fattispecie all’esame della Corte era infatti quella di una notifica effettuata all’Avvocatura dello Stato ad indirizzo PEC diverso da quello presente nel ReGIndE. Tale secondo indirizzo, a detta dell’Avvocatura ricorrente, è da questa “utilizzato per scopi amministrativi e non giudiziali”. Pare quindi evidente che sia l’Avvocatura, sia la Corte intendessero riferirsi al registro IndicePA, che infatti contiene un recapito PEC dell’Avvocatura dello Stato da quest’ultima utilizzato, appunto, per scopi amministrativi. Nessun indirizzo dell’Avvocatura è invece presente sul registro INI-PEC, riservato a professionisti e imprese e non coinvolto, salvo la sfortunata svista nell’indicazione della Cassazione. Del resto, salvo casi residuali, gli indirizzi presenti in INI-PEC e quelli presenti in ReGIndE sono i medesimi, essendo unica la fonte del dato, quindi è ben difficile che la Cassazione potesse evidenziare una discrasia fra gli indirizzi.

Ciononostante, trattandosi di un’indicazione proveniente dal massimo consesso, ha comunque avuto un suo peso e ha messo in allarme (senza che ve ne fosse un reale motivo) gli avvocati e i giudici di merito su tutto il territorio nazionale, spingendo alcuni legali a recuperare gli indirizzi PEC unicamente dal ReGIndE, ed alcuni giudici a dubitare della validità delle notifiche effettuate a indirizzi estratti dal Registro INI-PEC. Sul punto si registra anche un’interrogazione parlamentare a firma dell’On. Rossini, cui il Ministero ha risposto affermando che l’indirizzo interpretativo appariva (al tempo) superato.

Così non era, ed infatti, incredibilmente, la Suprema Corte ha insistito nel proprio errore con ben due distinte pronunce rese nel settembre 2019. Con l’ordinanza n. 24160/2019 del 27.09.2019 la Cassazione richiama la pronuncia n. 3709/2019 ed afferma che “il ricorso è stato notificato a mezzo PEC [..] all’indirizzo di posta elettronica del Protocollo del Tribunale di Firenze, estratto dall’indice nazionale degli indirizzi INI PEC, elenco che [..] è stato dichiarato non attendibile da Cass. n. 3709 del giorno 8 febbraio 2019”, mentre con l’ordinanza n. 24110/2019, sempre del 27.09.2019 la Corte afferma: “in tema di notificazione a mezzo pec, ai sensi del combinato disposto dell’art. 149 bis c.p.c. e dell’art. 16 ter del d.l. n. 179 del 2012, introdotto dalla legge di conversione n. 221 del 2012, l’indirizzo del destinatario al quale va trasmessa la copia informatica dell’atto è, per i soggetti i cui recapiti sono inseriti nel Registro generale degli indirizzi elettronici gestito dal Ministero della giustizia (Reginde), unicamente quello risultante da tale registro. Ne consegue, ai sensi dell’art. 160 c.p.c., la nullità della notifica eseguita presso un diverso indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario”.

L’enorme shock creatosi dopo queste due ulteriori pronunce ha spinto la Corte ad un rimedio che davvero raramente si vede applicato, ovvero la correzione d’ufficio dell’ordinanza n. 24160 del 2019, effettuata con l’ordinanza n. 29749/19 del 15.11.2019 in cui si dà atto che entrambi i registri ReGIndE ed INI-PEC possono validamente essere utilizzati per estrarre gli indirizzi a cui effettuare notifiche via PEC. In questo caso, quindi, vi è stato un opportuno emendamento della (tripla) svista della Cassazione, ma con altri errori informatico/giuridici non siamo stati così fortunati da ottenere una correzione.

Necessità di produrre il registro ai fini della notifica via PEC

La Cassazione ha infatti pensato di complicare ancora la vita agli avvocati che notificano via PEC con una ordinanza del 5 aprile 2019 (Civile Ord. Sez. 6 n. 9562/2019), nella quale i Giudici di Piazza Cavour sembrano affermare la necessità di produrre in copia il “registro” da cui è stato estratto l’indirizzo PEC ai fini della notifica (non si capisce se in via alternativa o congiunta con la dichiarazione, in relata, dell’estrazione dell’indirizzo da uno dei registri validi ai sensi della L. 53/94), per poi ribadire in maniera confusa una sorta di “prevalenza” del ReGIndE rispetto agli altri registri (problema, quest’ultimo, fortunatamente superato dall’ordinanza di correzione appena vista).

Questa la parte della decisione che qui interessa: “Va rilevata la carenza di specificità in relazione alla presunta valida notifica mediante PEC, poiché non è stato dedotto che l’indirizzo al quale è stata inviata la notifica sia quello risultante dal Registro Generale degli indirizzi elettronici (ReGindE), né è stata prodotta copia di detto registro (si veda Cass. n. 11574 del 11/05/2018: “In tema di notificazione a mezzo PEC, ai sensi del combinato disposto dell’art. 149 bis c.p.c. e dell’art. 16 ter del d.l. n. 179 del 2012, introdotto dalla legge di conversione n. 221 del 2012, l’indirizzo del destinatario al quale va trasmessa la copia informatica dell’atto è, per i soggetti i cui recapiti sono inseriti nel Registro generale degli indirizzi elettronici gestito dal Ministero della giustizia (Reginde), unicamente quello risultante da tale registro. Ne consegue, ai sensi dell’art. 160 c.p.c., la nullità della notifica eseguita presso un diverso indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario, conforme Cass. n. 13224 del 25/05/2018”), ed inoltre non risulta dimostrata la tempestività della notifica rispetto al termine concesso, tanto più che la stessa risulta effettuata il giorno in cui si è tenuta l’udienza;”

Onerare i legali di una simile produzione è però inverosimile e questo perché, innanzitutto, è ben difficile se non impossibile ottenere una “copia” di alcuni dei registri validi ai fini delle notifiche via PEC (a meno che la Cassazione non si accontenti di un semplice -ed alterabile- screenshot) ed è ancora più difficile ottenere una certificazione che dimostri la presenza nei registri di un dato indirizzo PEC ad una certa data (ad esempio, con riguardo al Registro INI-PEC, sono le stesse informazioni sul sito che precisano che INI-PEC “allo stato attuale non consente di verificare nel tempo un indirizzo PEC associato ad una determinata impresa o professionista”). Inoltre, il procedimento di notifica via PEC è normato compiutamente dalla L. 53 del 1994, che, all’art. 6, qualifica come pubblico ufficiale il legale che procede alla notifica e, tra le attività che il legale compie nella sua veste di pubblico ufficiale c’è anche l’indicazione dell’elenco da cui l’indirizzo PEC del destinatario è stato estratto.

A ben vedere, quindi, la presenza nel registro dell’indirizzo PEC estratto è circostanza che fa fede fino a querela di falso e non si può certo pretendere che il legale sia costretto a produrre “copia del registro”. Nemmeno un parallelo con la notifica in proprio effettuata dagli avvocati attraverso il servizio postale può essere utile. In quel caso il processo notificatorio (che vede sempre il legale impegnato quale pubblico ufficiale) è limitato all’attestazione del destinatario e del suo indirizzo, ma nessuna “attestazione” è prevista circa il fatto che quell’indirizzo sia estratto dall’anagrafe dei residenti. Al fine di provare che la notifica sia andata a buon fine (in caso di contestazione o contumacia) è quindi doveroso produrre il certificato storico di residenza (tra l’altro agevolmente reperibile presso gli uffici comunali), ma nel caso della PEC, dove l’estrazione dal registro è attività che il legale svolge come pubblico ufficiale, è evidente che una simile attività non può essere richiesta al professionista!

Sulla necessità di notificare la procura firmata digitalmente

Con la recente sentenza n. 12850 del 2019 la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sulla interessante questione della possibilità di attestare la conformità di un file senza indicarne la funzione di hash nel periodo precedente la modifica delle specifiche tecniche del PCT, intervenuta con il provvedimento del 28 dicembre 2015, che ha innovato la disciplina e chiarito come l’attestazione, nel PCT, possa fare a meno dell’hash anche se fatta su file separato. La Suprema Corte ha però evitato di affrontare la questione, dichiarando a monte l’inammissibilità del ricorso per “difetto di valida e tempestiva procura”. Il difetto di procura di cui parla la Corte, a quanto è dato capire dal testo della pronuncia, dipenderebbe dal fatto che il difensore del ricorrente avrebbe notificato via PEC il ricorso e la procura senza sottoscrivere digitalmente quest’ultimo file, scansione dell’originale cartaceo in possesso del legale.

Come abbia fatto la Corte ad avere contezza dell’errore rimane un mistero (produzione di un compact disc contenente il file della notifica? Mancata contestazione del ricorrente sul punto?) ci si augura solo che la Cassazione non abbia “ricavato” l’assenza di sottoscrizione sulla procura dall’assenza di estensione .p7m sul file (essendo ben possibile la firma PADES nel PCT, che non incide sulla desinenza del file, salvo la Corte sia recidiva in un’altra tristemente nota sua svista in tema di formati di firma nel processo telematico). Comunque sia arrivata alla conclusione che la procura non era firmata digitalmente, la Cassazione giustifica l’inammissibilità che ne consegue richiamando l’art. 83 c.p.c. e l’art. 10 D.P.R. 123/01 che impongono, qualora la procura alle liti sia stata conferita su supporto cartaceo, che il difensore, ove si costituisca per via telematica, trasmetta la copia informatica della procura, asseverata come conforme all’originale mediante sottoscrizione con firma digitale.

La norma fa però evidente riferimento alla costituzione del difensore e non alla notifica del ricorso (del resto la procura è atto rivolto all’ufficio giudiziario piuttosto che alla controparte) e quindi non si comprende quale rilievo tali disposizioni possano avere nel processo davanti alla Corte di Cassazione che, essendo necessariamente cartaceo, nulla ha a che fare con una norma che disciplina la costituzione “attraverso strumenti telematici”.

Ciononostante, non si dubita che molti legali saranno costretti a correre ai ripari, sottoscrivendo digitalmente le procure in sede di notifica via PEC per evitare simili censure, compiendo così un’attività superflua ai sensi della normativa (che infatti imporrebbe di collocare le attestazioni di conformità nella relata di notifica), ma resa necessitata da un’interpretazione non sufficientemente ponderata da parte degli ermellini. Quest’ultima sentenza lascia poi spazio ad ulteriori dubbi, relativi al fatto che la Corte non abbia ritenuto applicabile l’art. 182 c.p.c., che consente di sanare i vizi della procura con concessione di apposito termine da parte della Corte, e che abbia deciso di condannare direttamente i legali al rimborso delle spese, non ritenendo riconducibile la loro attività all’assistito, nonostante il difetto di “notifica” della procura, vizio procedurale, difficilmente possa condurre ad una carenza sostanziale di procura (che nel caso, sembra di capire, era valida nella sua originaria forma cartacea, verosimilmente depositata in originale presso la Corte).

Perfezionamento della notifica incompleta o non consegnata

La Suprema Corte ha dimostrato un atteggiamento anomalo anche con riguardo al perfezionamento delle notifiche PEC non solo con riguardo al caso in cui i file notificati non fossero conformi agli standard del PCT (es. notifica di file .doc), o non fossero firmati digitalmente, ma anche nel caso di notifica incompleta o illeggibile o, ancora ed infine, nel caso di notifica nemmeno consegnata. Ad esempio, la Cassazione ha “salvato” una notifica con allegato illeggibile, facendo leva su un “onere di collaborazione” del destinatario della notifica, nelle sentenze n. 25819 del 31.01.2017 e nella più recente pronuncia della Sezione Lavoro n. 21560 del 21.08.2019, dove la Corte afferma che: “Si può quindi ritenere che nel momento in cui il sistema genera la ricevuta di accettazione della pec e di consegna della stessa nella casella del destinatario si determina una presunzione di conoscenza della comunicazione da parte del destinatario analoga a quella prevista, in tema di dichiarazioni negoziali, dall’articolo 1335 c.c. Spetta quindi al destinatario, in un’ottica collaborativa, rendere edotto il mittente incolpevole delle difficoltà di cognizione del contenuto della comunicazione legate all’utilizzo dello strumento telematico. Di conseguenza, nel caso di specie, sarebbe stato dovere del difensore dei controricorrenti informare il mittente della difficoltà nella presa visione degli allegati trasmessi via pec, onde fornirgli la possibilità di rimediare a tale inconveniente.”

Il principio è stato infine ripetuto e ribadito nella recentissima ordinanza della Sezione Lavoro n. 4624 del 21.02.2020, in cui la Corte ha ritenuto perfezionata una notifica con allegato illeggibile (Acrobat Reader riportava la dicitura “Errore nell’apertura del documento. Il file è danneggiato e non può essere riparato”) a causa della mancata attivazione di quell’onere di collaborazione da parte del destinatario che si traduce nell’obbligo di segnalare al mittente la problematica nella lettura del file, permettendo così a controparte di sanare la notifica. In forza di questa ricostruzione la Suprema Corte ha accolto l’eccezione di inammissibilità del ricorso per mancato rispetto del termine breve per la sua proposizione, decorrente dalla notifica della sentenza (pur, nel caso, illeggibile).

Va detto però che questo “onere di collaborazione” del destinatario non trova riscontro nella normativa e il principio espresso dalla Suprema Corte si presta quindi a spiacevoli strumentalizzazioni (notifiche di atti “a metà” poi integrate oltre i termini una volta che il destinatario si è attivato per segnalare l’illeggibilità del contenuto). Ancora, con la recentissima ordinanza n. 3164/2020 i Giudici di Piazza Cavour (Sez. Lavoro) sono arrivati, infine, a considerare perfezionata la notifica via PEC non consegnata essendo la casella del destinatario piena.

Secondo la Corte è infatti sufficiente che la ricevuta di consegna sia generata per considerare perfezionata la notifica, a prescindere dal fatto che questa attesti l’effettiva consegna del messaggio o che questa attesti l’impossibilità di consegnarlo avendo il destinatario la casella piena. Il ragionamento della Corte è che se l’impossibilità della consegna è imputabile al destinatario, allora la notifica si intende perfezionata a prescindere dall’esito. La soluzione, sebbene possa incontrare il favore di molti operatori (che vedono profilarsi all’orizzonte un risparmio di spese di notifica significativo proprio nei procedimenti nei confronti dei soggetti meno solvibili, che spesso tralasciano di comunicare, rinnovare o controllare la propria PEC), fatica ad innestarsi nel plesso normativo, che prescrive infatti alcune specifiche ipotesi in cui il fatto che non sia possibile effettuare la notifica per cause imputabili al destinatario comporta determinate conseguenze.

Il tipico caso è quello disciplinato dall’art. 16 co. 6 D.L. 179/2012 che prevede la possibilità per le cancellerie di notificare mediante deposito in cancelleria in caso di “mancata consegna del messaggio di posta elettronica certificata per cause imputabili al destinatario” ovvero di mancato inserimento dell’indirizzo PEC nei prescritti elenchi ove il destinatario sia un soggetto tenuto a provvedervi. La legge sembra quindi esplicitamente considerare la notifica via PEC non perfezionatasi per cause imputabili al destinatario come -appunto- non perfezionata, tanto da richiedere la successiva attività di deposito in cancelleria per ultimare il processo notificatorio (in questo senso correttamente si esprime anche Cass. Sez. VI sent. 25968 del 15.12.2016). Perché dunque alla cancelleria è imposto questo “doppio passaggio” se la Suprema Corte considera (per tutti gli altri soggetti abilitati alle notifiche via PEC) sufficiente l’avviso di mancata consegna per considerare ultimata la notifica?

In precedenza, inoltre, la Cassazione aveva proposto (con ordinanza della sesta sezione n. 20381 del 24.08.2017) tutt’altra soluzione, affermando la necessità per il notificante la cui notifica via PEC non sia andata a buon fine per cause a lui non imputabili (e quindi anche per cause imputabili al destinatario) di provvedere tempestivamente a completare il processo notificatorio con altre modalità, nei termini dimidiati di cui all’art. 325 c.p.c. e salvo documentati casi eccezionali che ne giustifichino il prolungamento. Sul punto ci auguriamo faccia chiarezza la Cassazione dopo l’ordinanza di rimessione alla pubblica udienza n. 2755/20 da parte della Sesta Sezione, che fa il punto sulle varie tesi che si sono affacciate in giurisprudenza e rinvia alla pubblica udienza per dirimere la questione.

Interessante (anche se fragile, per le ragioni già viste), l’argomentazione della Corte che nell’ordinanza di rimessione propone un parallelo fra notifica via PEC a casella piena e rifiuto di ricevere l’atto in caso di notifica cartacea. Secondo la Corte infatti: “il lasciare la casella di p.e.c. satura potrebbe equivalere a un preventivo rifiuto di ricevere notificazioni tramite essa e l’essere della sua gestione direttamente responsabile il titolare potrebbe giustificare il considerare la conseguenza di tale condotta come equipollente a una consegna dell’atto”.

Prospettive future

É quindi indiscutibile la necessità di una maggior ponderazione e prudenza sulle questioni “processual-telematiche”, specie da parte di un giudice che non ne è avvezzo (e che, incidentalmente, è quello investito della funzione nomofilattica). É altrettanto chiaro che solo l’avvento del processo telematico in Cassazione porterà la necessaria familiarità alla Corte per affrontare con sicurezza questi rilievi (incrociamo le dita). Gli schemi XSD diffusi il 18 luglio scorso in vista della sperimentazione del processo telematico in Cassazione dimostrano che entrerà in vigore (non ci sono dati certi sulle tempistiche) un processo telematico strutturato sul modello del processo civile telematico anche per il deposito degli atti avanti alla Suprema Corte.

Il problema, a questo punto, è che l’avvento del telematico in Cassazione pone non poche -ulteriori- difficoltà e farà venire al pettine il nodo dell’assurda multi-partizione dei processi telematici in Italia. La Suprema Corte dovrà infatti non solo adeguarsi ai meccanismi del processo civile telematico (e penale telematico), ma anche attivarsi e decidere sulle problematiche del processo tributario telematico, del tutto diverse e peculiari perché completamente diversi sono i due procedimenti telematici (in tutto: nei formati, negli strumenti, nelle procedure…), nonché, per quanto di sua competenza, alle problematiche del processo amministrativo telematico che ancora è del tutto diverso e distinto da quelli cui si è appena accennato.

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