L’ESPERIMENTO

Se ChatGPT ti querela: ecco perché è importante il controllo di un legale



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Abbiamo chiesto a ChatGPT di scrivere una querela per diffamazione, citando la giurisprudenza più recente: vediamo com’è andata

Pubblicato il 27 feb 2025

Marco Cartisano

Docente SSPL Unirc A/A 2024/2025



giudici con l'IA

Da tempo ormai si conoscono le applicazioni di AI per gli avvocati e, tra questi, l’uso dell’AI gen per i documenti legali a supporto dei professionisti dell’ambito della Giustizia. Risulta quindi interessante approfondire l’impiego dell’intelligenza artificiale generativa nel settore legale, per cui abbiamo svolto un esperimento: chiedere a ChatGPT di scrivere una querela.

ChatGPT per scrivere una querela: l’esperimento

Si è chiesto dunque a ChatGTP di redigere una ipotetica querela per diffamazione perpetrata in un gruppo WhatsApp, citando gli ultimi eventi giurisprudenziali in materia. Si è ottenuto, in prima battuta, il seguente risultato:

«Alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di [Luogo]

Oggetto: Querela per diffamazione aggravata (art. 595 c.p.)

Il sottoscritto/a [Nome e Cognome], nato/a a [Luogo di nascita] il [Data di nascita], residente in [Indirizzo completo], espone quanto segue:

Fatti:

In data [Data dell’evento], all’interno del gruppo WhatsApp denominato “[Nome del gruppo]”, composto da [Numero] partecipanti, il Sig./la Sig.ra [Nome del presunto diffamatore] ha inviato un messaggio contenente affermazioni offensive nei miei confronti, nello specifico: “[Riportare il contenuto del messaggio diffamatorio]”.

Tali affermazioni sono false e lesive della mia reputazione personale e professionale, causando un danno significativo alla mia immagine.

Elementi probatori:

Allego alla presente querela:

  • Screenshot della conversazione incriminata, con evidenza della data, dell’ora e dei partecipanti al gruppo.
  • Elenco dei membri del gruppo WhatsApp al momento dell’offesa.

Riferimenti giurisprudenziali:

Recentemente, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 42783/2024, ha stabilito che l’invio di un messaggio offensivo su una chat di gruppo WhatsApp non comporta automaticamente l’applicazione dell’aggravante del “mezzo di pubblicità”, in quanto tale piattaforma è considerata uno strumento di comunicazione ristretto ai soli membri del gruppo.

Richiesta:

Alla luce di quanto esposto, chiedo che venga perseguito il reato di diffamazione ai sensi dell’art. 595 c.p., valutando l’applicabilità delle circostanze aggravanti previste dalla legge.

Mi riservo inoltre di costituirmi parte civile nel procedimento penale per ottenere il risarcimento dei danni morali e materiali subiti.

Dichiarazioni:

Dichiaro di essere a conoscenza delle responsabilità penali previste per chi rende dichiarazioni false o reticenti.

Autorizzo espressamente il trattamento dei miei dati personali ai sensi del Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR) per le finalità connesse al presente procedimento.

Luogo e Data: [Luogo], [Data]

Firma:

[Nome e Cognome]»

Il risultato, pur essendo nella sua semplicità abbastanza corretto, riporta una giurisprudenza che potrebbe limitare le aspettative della persona offesa, suggerendo la forma non aggravata del reato.

La richiesta dell’aggravante

Si è chiesto quindi a ChatGPT di porre l’accento sul fatto che la diffamazione è stata posta in essere in una chat con 200 persone e che ciò ha cagionato un danno alla reputazione dell’assistito; il sistema ha quindi così corretto il fatto:

«In data [Data dell’evento], all’interno del gruppo WhatsApp denominato “[Nome del gruppo]”, composto da circa 200 partecipanti, il Sig./la Sig.ra [Nome del presunto diffamatore] ha inviato un messaggio contenente affermazioni offensive nei miei confronti, nello specifico: “[Riportare il contenuto del messaggio diffamatorio]”.

Tali affermazioni, false e gravemente lesive della mia reputazione personale e professionale, sono state diffuse all’interno di un contesto altamente esposto, considerato l’elevato numero di membri presenti nel gruppo. La portata di tale diffusione ha causato un danno significativo alla mia immagine, con ripercussioni negative anche nella mia vita personale e lavorativa.»

A questo punto, la sentenza di prima viene così illustrata:

«Recentemente, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 42783/2024, ha ribadito che la diffusione di messaggi diffamatori in gruppi WhatsApp numerosi può configurare l’aggravante del “mezzo di pubblicità”, poiché il numero elevato di partecipanti amplia la potenziale risonanza delle offese».

Ma in questo caso, l’IA ha completamente inventato una massima poiché la sentenza citata, in realtà, dice così:

«In ipotesi di diffamazione tramite chat di whatsapp, trattandosi di mezzo che non è potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato di destinatari, non sussiste la circostanza aggravante del mezzo di pubblicità» (Cass. pen., Sez. I, 11/09/2024, n. 42783).

Ma quindi, qual è il corretto approccio con queste tecnologie?

AI gen e documenti legali, la necessità di supporto umano

L’intervento umano ha consentito alla piattaforma di restituire un risultato più utile, ma ciò è stato possibile in quanto il professionista ha rilevato alcune criticità e facendo le opportune domande, anche se il risultato non è stato per nulla soddisfacente.

Se da un lato l’utilizzo dei big data provenienti dal web alimentano il pattern finale, è anche vero che chi non è del settore potrebbe essere indotto ad utilizzarlo non solo in maniera errata ma, addirittura, in suo danno.

Ed è per questo che il software «..consiglia di consultare un legale per una valutazione approfondita del caso e per l’assistenza nella redazione e presentazione della querela.»

Ma se, invece, è il professionista ad utilizzare lo strumento? Quali sono i limiti che l’avvocato deve osservare nell’utilizzo dei sistemi di intelligenza artificiale nei rapporti con il cliente e con l’Autorità Giudiziaria?

Il caso della Corte di Manhattan Mata c/ Avianca Airlines

È diventato celebre il caso di uno studio legale di New York che difendeva un cliente che aveva subito un infortunio al ginocchio a causa di un carrello di servizio su di un volo El Salvador – New York nel 2019.

La compagnia si difese eccependo, in primis, la prescrizione dell’azione intentata e i legali dell’uomo hanno, quindi, depositato una memoria in cui venivano citati alcuni casi a sostegno della prosecuzione dell’azione.

Peccato che il sistema li avesse completamente inventati, citando anche nomi di giudici realmente esistenti e costringendo la Corte di New York a sanzionare con una pena pecuniaria di 5.000 dollari gli avvocati che non avevano sufficientemente controllato l’atto.

Nello specifico, il giudice P. Kevin Castel ha sostenuto che non ci fosse nulla di «intrinsecamente improprio» nell’utilizzo dell’intelligenza artificiale nell’ambito dell’attività degli studi legali, «ma le regole esistenti impongono agli avvocati un ruolo di controllo per garantire l’accuratezza dei loro documenti»

D’altro canto sono bastate, per evitare la sanzione, le giustificazioni degli avvocati che rimarcavano la loro buona fede nella convinzione che il software non potesse inventare casi specifici per sostenere una tesi in giudizio.

Le implicazioni di stampo deontologico, i doveri di diligenza e di competenza

Va detto che gli avvocati stanno iniziando ad utilizzare sistemi basati sull’IA generativa nell’ambito del proprio lavoro, con risultati abbastanza soddisfacenti quando si tratta di ricerca giurisprudenziale comparativa.

È opportuno specificare che la differenza nei sistemi di civil law -come il nostro- fra giurisprudenza di legittimità (ossia le pronunzie della S.C. di Cassazione) e quella di merito (ossia quelle dei Tribunali, Corti d’Appello, ecc.), potrebbe generare “falsi positivi” o meglio una “giurisprudenza artificiale” antitetica a quella della S.C. se l’addestramento dell’IA fosse eseguito solo con le pronunzie dei tribunali.

Qualche autore sostiene, infatti, che l’addestramento dell’IA con i giudizi di merito trova il suo limite nel fatto che nelle corti territoriali l’applicazione della legge è limitata al caso specifico e concreto e quindi sarebbe difficile per la macchina trarre dalle predette decisioni principi di diritto di portata generale, «anzi, estrarre un principio di diritto, da una sentenza destinata giuridicamente a non produrlo, è scelta fallace (trattando la situazione non già come è, ma come se fosse)».

Al di là della possibile fallacia delle risposte dell’IA, il professionista ha il dovere di verificare sia l’atto in sé che i richiami giurisprudenziali proposti, non limitandosi -come insegnavano i vecchi avvocati- alla massima, ma procedendo all’esame dell’intera sentenza.

Ma se l’avvocato non controlla i risultati dell’IA è sanzionabile dal punto di vista deontologico, la di là delle conseguenze civilistiche (rectius responsabilità professionale)? Potrebbero rilevare nel caso di specie due norme del Codice deontologico forense (approvato il 31/01/2024), ossia l’art. 12 (Dovere di diligenza) che stabilisce che «L’avvocato deve svolgere la propria attività con coscienza e diligenza, assicurando la qualità della prestazione professionale.» e l’art. 14 (Dovere di competenza) secondo cui «L’avvocato, al fine di assicurare la qualità delle prestazioni professionali, non deve accettare incarichi che non sia in grado di svolgere con adeguata competenza.»

L’avvocato per assicurare un’adeguata qualità della prestazione può e deve utilizzare i nuovi strumenti tecnologici a sua disposizione, ma si dovrebbe astenere dall’affidarsi completamente alle risultanze dell’IA, soprattutto se potenzialmente dannose per il cliente o per sé (es. in caso di plagio).

La questione, per quanto dato sapere, non è stata ancora affrontata ma appare le nuove generazioni di professionisti si stanno già confrontando con questi strumenti e non è escluso che anche i giudici inizino a prendere le dovute contromisure.

Lo scenario

Il diritto, da sempre, non riesce a tenere il passo con la tecnologia, arrivando sempre molto più tardi ed a giochi fatti, ma l’implementazione delle piattaforme di IA anche nelle professioni forensi è una realtà e corre l’obbligo porsi il problema delle conseguenze del non corretto utilizzo delle stesse nell’ambito dell’attività professionale.

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