Le riflessioni fatte altrove sulla governance digitale provocano necessariamente una lista dei desiderata per costruire l’Italia digitale. Condicio sine qua non: le risorse economiche. Ma non solo: cultura, formazione e accountability sono le chiavi della rivoluzione digitale. Vediamo
Risorse economiche
Una scelta “forte” per l’innovazione, nella quale confido, deve necessariamente tradursi nella destinazione di risorse congrue e abbandonare la pratica abituale che vuole le riforme normative in materia ogni volta “a costo zero”, condannandole così in partenza al rischio di mancata attuazione. Innovare costa, costa digitalizzare, costa costruire quella cultura digitale che permetta a tutto questo di funzionare.
La cultura digitale
E qui ecco un altro aspetto, primo peraltro nella mia lista dei desideri, su cui ritengo ci sia da lavorare nel futuro: se manca cultura digitale interna ed esterna alle amministrazioni, l’Italia digitale non potrà mai decollare. E la cultura digitale è probabilmente il “progetto” più complesso e ambizioso dell’intero panorama. Prodromico all’utilizzo di ogni strumento, necessario alla consapevolezza sui diritti della cittadinanza digitale e ai doveri delle amministrazioni, è condicio sine qua non del volto digitale del Paese. Ma ogni volta, al di là di ciò che viene dichiarato, viene accantonato. Per dirla in modo forte e con una semplificazione inevitabile, è più semplice creare un prodotto che consapevolezza; è più facile mettere a disposizione uno strumento che farne comprendere potenzialità e rischi; è più facile adeguare un sistema informativo o un servizio online che creare le condizioni perché sia usato. Sulla cultura digitale del Paese c’è ancora da fare molto, moltissimo.
Le norme nel CAD non mancano sia per quanto riguarda la cultura digitale (art. 8) che in merito alla formazione in seno alla pubblica amministrazione (art. 13), ma vanno fatte vivere. L’amministrazione deve accompagnare la collettività e l’utenza in questo percorso, non accontentarsi di mettere a disposizione una piattaforma o un servizio. Questo aspetto deve diventare una priorità del Paese.
Non è facile, ma la politica deve occuparsene (e tornando a livello di governance per questo un Ministero dedicato al digitale a mio avviso servirebbe), non come un argomento secondario, ma come la priorità per mantenere il Paese al livello del mondo che cambia e all’altezza del futuro.
Per farlo è necessario un progetto ambizioso, che vada a toccare non solo le istituzioni, ma la scuola, l’università, i mezzi di comunicazione e che non si limiti all’alfabetizzazione informatica, usando la terminologia un po’ vintage della rubrica dell’art. 8 del CAD, e neppure alla conoscenza necessaria per utilizzare gli strumenti, ma che fornisca gli strumenti idonei a creare una consapevolezza, anche giuridica, delle potenzialità e dei rischi della tecnologia.
La formazione
L’ordinamento intero e, in particolare, le istituzioni deputate alla formazione, come scuola e università, non possono rimanere sostanzialmente impermeabili a questi aspetti e sperare che le norme o le istituzioni da sole siano in grado di attuare una rivoluzione digitale. La rivoluzione digitale parte dalla formazione, dall’insegnamento di educazione civica digitale e di informatica giuridica. La sezione che nel CAD parla dei diritti di cittadini e imprese è rubricata oggi significativamente (mutuando la rubrica dell’articolo della relativa legge delega 124/2015) “Carta della cittadinanza digitale”: la cittadinanza digitale ha bisogno per esistere non di sola tecnologia a disposizione, ma degli strumenti cognitivi per comprenderla e utilizzarla in modo consapevole. Ne parla opportunamente il CAD che prevede che le azioni specifiche e concrete volte a favorire la diffusione della cultura digitale (art. 8) debbano riguardare anche questi aspetti (lo sviluppo di competenze di informatica giuridica e l’utilizzo dei servizi digitali), così come opportunamente chiarisce che queste competenze devono essere possedute all’interno delle amministrazioni in capo al responsabile per la transizione digitale (art. 17) e più ampiamente nel management pubblico (art. 13).
Mi piacerebbe una sezione intera del Piano triennale per l’informatica nella pubblica amministrazione, prodromica a tutto il resto, dedicata alle azioni per cultura e la cittadinanza digitale. Del resto nel CAD queste sono le prime norme.
Tutto ciò non significa peraltro neppure declinare la cultura digitale solo nei rapporti con le istituzioni, ma fornire gli strumenti necessari per essere consapevoli e tutelarsi nei confronti delle piattaforme online e in tutti quei luoghi digitali che abitiamo costantemente nella nostra esistenza. Questa funzione non può che agirla il soggetto pubblico, deputato alla tutela dei diritti e al benessere della propria collettività. Quello che c’è non basta.
L’accountability
Non lontano da qui si situa un altro punto della lista personale dei desiderata: l’accountability e la responsabilizzazione, anche etica, in ambito digitale. Le norme del CAD scontano ancora l’originaria interpretazione quale “dichiarazione di intenti”, restano ancora appannaggio di amministrazioni virtuose. Ma in realtà queste norme sono il volto nuovo del diritto amministrativo, sono le regole dell’agire pubblico al pari di quelle sul procedimento. Del resto la tecnologia è strumento che deve permettere di raggiungere gli obiettivi che caratterizzano l’agire pubblico: di conseguenza, le regole sull’amministrazione digitale devono sposarsi fino a fondersi con le regole sull’amministrazione tout court. E allora queste regole vanno rese maggiormente effettive, bisogna responsabilizzare l’amministrazione tutta al suo rispetto, è necessario far conseguire le responsabilità previste alle mancate attuazioni. Bisogna rendere l’approccio proattivo, preventivo e responsabile che conforma la normativa europea in materia di protezione dei dati personali (regolamento UE 2016/679), la logica da utilizzare più ampiamente in ambito digitale.
La lista dei desiderata è lunga e si estende alla speranza che le regole tecniche siano adeguate presto, perché altrimenti rischia di restare il solito Codice perennemente incompiuto senza le gambe necessarie ad andare lontano; si amplia al desiderio che tra amministrazioni si cominci a giocare di squadra, facendo la gara anche a “copiare” chi fa meglio, a “riusare” modelli virtuosi e non a differenziarsi e a competere; arriva alla speranza che il gioco di squadra sia potenziato anche tra mondo interno e mondo esterno alla PA mantenendo e facendo crescere il modello di open government e le buone pratiche degli ultimi anni, dal momento che per essere efficace il volto contemporaneo della PA può essere solo “open” e che l’Italia digitale va costruita su un nuovo paradigma orizzontale pubblico-privato attento alla voce qualificata degli stakeholder; include il desiderio che vada avanti il percorso sull’intelligenza artificiale e più ampiamente uno sguardo teso al futuro basato su un metodo inclusivo e concreto (libro bianco e progetti cui dedicare risorse) che potrebbe diventare il consueto modello d’azione.
La strada dell’Italia digitale che vorrei è ancora lunga. E forse l’unica vera speranza da nutrire è che diventi davvero una priorità strategica, una partita seria su cui investire, capace di rivestire quell’autorevolezza che merita e che ha nei fatti. Se non lo costruiamo oggi, rischiamo che il futuro digitale del Paese non sia all’altezza della nostra lista dei desideri.
Italia digitale, la governance che ci aspettiamo (dall’autunno)