Il pensiero laterale è un termine coniato dallo psicologo Edward de Bono: si riferisce a un metodo di soluzione dei problemi attraverso un approccio interdisciplinare. In poche parole, si dipana nella scomposizione del problema e nella sua speculazione da diverse prospettive, contrapponendosi al tradizionale approccio fondato sulla soluzione diretta. Quest’ultima prevede una sequenza: il problema si risolve partendo dalle considerazioni più semplici; il pensiero laterale, invece, se ne discosta e lo affronta considerando punti di vista alternativi, cioè “laterali”, per trovare una soluzione possibile a più dimensioni in una pluralità di pensieri e di azioni.
L’amministrazione digitale è il tipico caso in cui è imprescindibile una logica non tanto multidisciplinare, quanto piuttosto interdisciplinare, mediante l’attivazione del pensiero laterale. Non tante discipline in verticale, ma un insieme di interrelazioni in orizzontale, quindi sostanzialmente trasversale.
Molti si sono concentrati su cosa serva per risolvere il problema del digitale in Italia. In questa sede, invece, ci concentreremo sulla logica contraria, cioè sulle azioni di cui certamente non ha bisogno il principale strumento normativo del digitale, il CAD.
Servono ancora norme?
Qualche illustre collega ha contato sei versioni diverse del CAD. E tutte le modifiche inserite, talvolta surrettiziamente, nelle varie leggi cosiddette finanziarie o di stabilità succedutesi dal 2006 in poi? E tutte le norme “outstanding” (ad esempio, la PEC), cioè al di fuori dei binari normativi del CAD? E, soprattutto, tutte le regole – che norme non sono – perché non trovano disciplina nelle fonti ordinarie del diritto, ma fatte assurgere, anche con strampalatezze giuridiche, a principi inderogabili?
Probabilmente, la soluzione principe sarebbe stata l’abolizione delle norme tecnicistiche contenute qua e là, per giungere a una sintesi giuridica in principi di carattere generale e neutrali rispetto al progresso tecnologico. Invero, si tratta di un principio aureo di provenienza europea, tanto spesso dimenticato dal legislatore italico. O piuttosto una rivisitazione delle stesse, in un’ottica di semplificazione e di certezza giuridica, un testo guida per tutti, operatori e non. Di certo, ad esempio, non aggiungere un’altra species di firma elettronica, fonte futura di infrazioni e di cavilli gestionali.
Il problema non è fare/non fare, ma avere le competenze, in primis le conoscenze, per fare o per stabilire a chi farle fare. Inoltre, bisogna avere anche il coraggio di decidere di non fare.
Se il problema dell’amministrazione digitale italiana si potesse risolvere attraverso una norma, lo avremmo già superato da tempo, vista l’alluvione normativa che si è abbattuta su quel che resta di un “Codice” dell’amministrazione digitale. Il CAD ora deve cristallizzarsi allo stato solido di un vero codice, contenitore giuridico di principi, come più volte ribadito dal prof. Limone, da altri autorevoli colleghi e anche da noi.
L’art. 40-ter e la logica del MMMr
L’art. 40-ter della bozza del nuovo CAD (errore, è sempre il D.Lgs. 82/2005 integrato e modificato), attualmente recita:
Art. 40-ter (Sistema di ricerca documentale) – 1. La Presidenza del Consiglio dei ministri promuove lo sviluppo e la sperimentazione di un sistema volto a facilitare la ricerca dei documenti soggetti a registrazione di protocollo ai sensi dell’articolo 53 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, e di cui all’articolo 40-bis e dei fascicoli dei procedimenti di cui all’articolo 41, nonché a consentirne l’accesso on-line ai soggetti che ne abbiano diritto ai sensi della disciplina vigente.
A meno di una lettura distorta, della quale fin d’ora mi scuso peraltro auspicandola, avremo un grande meta-motore di ricerca testuale, progettato dalla Presidenza del Consiglio. Dovrebbe essere enorme, praticamente “mega”. Allora lo chiameremo “Mega-Meta-Motore di ricerca”: MMMr. Nella sua insostenibile leggerezza, tuttavia, il nuovo art. 40-ter rimane semplicemente comico.
Sia chiaro: nulla di trascendentale sotto il profilo tecnico, una volta sciolti i nodi dell’esposizione dei dati. Tuttavia, un enorme problema carico di criticità sul fronte della gestione giuridica. Il protocollo, infatti, rimane un atto pubblico di fede privilegiata, non direttamente accessibile a chiunque e fonte pressoché inesauribile di dati personali e, tra questi, di dati sensibili.
Negli ultimi vent’anni, abbiamo assistito a grandi innamoramenti da parte del legislatore italiano. Nati per durare il tempo in cui si sviluppa e muore una tecnologia.
Oltre a quelli indicati in un articolo di qualche tempo fa per Forum PA, oggi prevale una visione del mondo global-digitale. Mentre qualche decennio fa tutti si concentravano su un cosmo immaginato come un enorme database e poi come un grande contenitore di dati e metadati in XML, oggi siamo alla visione monotematica delle amministrazioni pubbliche, semplificate alla stregua di una grande area organizzativa omogenea, in cui un motore di information retrieval riesce a trovare tutti i documenti richiesti.
Questa visione è molto limitata e, di certo, dimostra di sopravvalutare un motore di ricerca rispetto agli strumenti di gestione documentale (records management). Mi riferisco alla classificazione, alla repertoriazione delle serie e alla fascicolatura dei documenti. Molti colleghi dirigenti sottovalutano la straordinaria potenza di questi strumenti, semplicemente perché non li conoscono oppure perché ne conoscono l’applicazione in maniera superficiale da parte dell’ultimo impiegato al quale è stata irrogata una sanzione disciplinare, con la pena accessoria di un trasferimento al protocollo.
Nella realtà, un dirigente può toccare con mano a cosa porta il disordine documentale, non solo in termini di perdita di tempo, ma anche di valutazioni improprie, in quanto non supportate da un’istruttoria ordinata, di censure giudiziali per un negato o mal articolato riscontro a una richiesta di accesso.
Certo è che Google vincerà sempre contro la classificazione e la fascicolatura qualora si cercasse un solo documento determinato e ben definito. Tuttavia, Google risulterebbe estremamente pericoloso e fuorviante nella ricerca di tutti i documenti di una determinata pratica. Inoltre, mentre la ricerca archivistica è neutra e non colleziona documenti in base alla volontà del ricercatore o alla sua posizione geo-referenziale, Google modifica i criteri in base a profilature di contesto. Infine, gli strumenti archivistici garantiscono nel tempo la persistenza giuridica e la certezza di azioni e di documenti, o meglio: di poter capire le ragioni di certe azioni o decisioni. Garantiscono, in una parola, la “memoria illuminata e affidabile”.
Google, di contro, fa il collezionista di informazioni sparse nella rete, ma prive di una visione organica di tipo procedimentale, prive del filo conduttore ineludibile del procedimento che le unisce. Insomma, l’esatto contrario di quello che serve a un cittadino per dialogare con un’amministrazione pubblica.
Mentre gli strumenti archivisti sedimentano la memoria con cura giuridica e amministrativa, conservando tutti i documenti prodotti di un procedimento determinato, Google è un raffazzonatore occasionale, inidoneo a garantire se esista o meno un documento determinato (magari privo di oggetto o con metadati sbagliati o incompleti, pur appartenendo a un fascicolo procedimentale).
L’art. 40-ter deve essere cassato
La proposta di novella vive su una visione semplicistica che certamente non è stata partorita dai giuristi che partecipano al Team digitale. Ed è bene che non veda la luce, nella certezza che la partogenesi deriva da una distorsione privatistica delle amministrazioni pubbliche come magazzini di dati. In realtà, fanno molto di più. Mantengono i documenti in maniera affidabile nel loro contesto di produzione procedimentale. Non sono soltanto oggetti digitali, ma fonte di prova in un Paese di civil law.
Due fattori ulteriori depongono a favore dell’eliminazione della proposta. Da un lato il comma così proposto costituirebbe un alibi per molti funzionari di non utilizzare i sistemi di gestione documentale, eludendo le regole tecniche contenute nei due DPCM 3 dicembre 2013, dal momento che… “tanto, i documenti si trovano comunque…”, come già accade in molte realtà piccole, medie e grandi. Dall’altro, il danno sarà percepibile solo nel medio termine, quando ci accorgeremo di avere non un archivio (insieme organico e ordinato), ma un’accozzaglia di documenti, cioè un accatastamento digitale flat, privo di ordine.
Ogni lettore può provare a sperimentare la differenza semplicemente togliendo tutti i file dalle cartelle/directory del proprio computer e spostandoli nel file system o in una cartella “Varie”. Ecco, questo è il mondo della PA oggi in molti casi: sono ricercabili, ma è assolutamente impossibile capirne il contesto senza classificazione, metadatazione e aggregazione in unità archivistiche. In buona sostanza, nessuno pretende che i funzionari pubblici abbiamo il senso dell’archivio come fonte storica (anche se riguarda loro stessi: ad es., il fascicolo di personale), ma non è ammessa l’ignoranza della norma, dal momento che devono obbligatoriamente conservare fonti con forza di prova in maniera affidabile.
L’accesso ai documenti, invece, non si esercita soltanto su uno di essi, ma sul loro complesso organico, cioè sul fascicolo. Lo prevede il DPR 184/2006 assieme a tutti i principi della trasparenza amministrativa, di cui tanta altisonanza si è fatta. Ma se il fascicolo non è stato istruito, se non si è curata la sua sedimentazione, il passo è breve verso l’eclissi delle memorie (come scriveva argutamente qualche decennio fa Tullio Gregory).
In questo senso, sarebbe opportuno modificare anche l’art. 41 del CAD vigente, laddove il fascicolo procedimentale è visto come una directory di rete condivisa o come uno spazio di lavoro in cloud. Nulla di più lontano da questo nella realtà giuridica e gestionale di questo strumento irrinunciabile.
Il MMMr visto lateralmente
Non tutto ciò che risulta informaticamente possibile può esserlo anche giuridicamente.
Ad esempio, non esiste una sola professionalità in grado di risolvere il problema del digitale, ma risulta necessaria l’interoperabilità intellettuale tra informatici, giuristi, diplomatisti, archivisti, scienziati dell’organizzazione. Per questi e per altri motivi, la logica del “Digital Champion” si è rivelata fallimentare. Serve un Insieme organico di professioni e di professionisti impegnati e disposti a interagire, a dialogare, a sbarazzarsi della logica verticale e a mettersi a pensare in orizzontale trasversale, rinunciando un po’ a sé stessi, alla propria personalità per accettare il punto di vista e la professionalità del collega. Non è solo una questione di competenze e conoscenze, ma serve, soprattutto, la voglia di mettersi in gioco, di fare squadra e di affrontare l’amministrazione digitale con spirito critico, ma anche con leggerezza: serve insomma umiltà ed entusiasmo, non sempre facili da trovare nel panorama spesso sottotono del dipendente pubblico.
In uno slogan, “serve il pensiero laterale nel digitale” e accorgersi che nell’art. 41 su fascicoli e procedimenti, vengono a mancare altre due tipologie di fascicolo: quello per “affare” e quello per “attività”. L’azione amministrativa sotto forma di procedimento, infatti, rappresenta soltanto il 30/35% di quanto ogni amministrazione pubblica produce ogni giorno. Ciò implica inevitabili riflessi sulla gestione documentale. Ma su questo interverremo un’altra volta.