L'analisi

Italia 4.0, un bisogno estremo di competenze: a privati e PA serve colmare lo skill gap

L’Italia ha uno skill need elevato nei settori tecnologici strategici di Industria 4.0, ma il tema è rimasto ai margini complici le urgenze da gestire nel periodo di pandemia: ecco la situazione per privati e PA e le prospettive

Pubblicato il 04 Ott 2021

Giacomo Bandini

Competere

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Con l’epidemia di Covid-19 il dibattito intorno alla digitalizzazione ha avuto diverse fasi. In un primo momento si è pensato che le aziende avrebbero subito pesantemente, da un punto di vista di riorganizzazione dei processi, le restrizioni. Successivamente, si è assistito all’incensamento dello smart working come soluzione di tutti i mali e si è fatta notare la differenza tra chi aveva da tempo predisposto una riorganizzazione degli spazi e degli orari di lavoro e chi invece ancora non aveva effettuato investimenti in questo senso.

Infine, il dibattito si è focalizzato sulle carenze di materie prime e di semiconduttori senza i quali gran parte della produzione industriale rischia di subire gravi shock dell’offerta. Uno dei temi che è rimasto ai margini è quello delle competenze per i settori più tecnologici dove sono applicati i paradigmi dell’Industria 4.0 che si avvia verso la sua fase 5.0 (come riporta un policy brief della Commissione Europea), dell’intelligenza artificiale, del machine learning. L’Italia ha ancora uno skill need elevato in alcuni di questi settori. Quale direzione e quali policy intraprendere? Il problema è certamente annoso.

Il problema delle competenze

Anche nel periodo miracoloso del dopoguerra, quando i tassi di crescita e di produttività viaggiavano a cifre elevate, l’Italia scontava generiche carenze nella preparazione della sua forza lavoro. Tuttavia, riuscì a sopperire grazie a diversi fattori (alcuni positivi, altri negativi) alle carenze tecniche necessarie per integrare, migliorare e creare nuove soluzioni per la produzione industriale e non solo. Il problema oggi invece è figlio sia del passato sia della complessità che si prospetta nel futuro. L’emergere, a tassi assai più veloci che negli anni Sessanta, di nuove tecnologie richiede un costante adattamento non solo da parte delle aziende. La società stessa è stretta in mezzo a questa tensione ed è spinta da più parti verso il cambiamento.

Transizione digitale, come spingere la ripresa: le priorità dalle competenze al 4.0

Senza basi solide, però, è ancor più difficile stare al passo con il cambiamento.  Se si analizzano i dati a disposizione si noterà come dal primo piano Industria 4.0 poco è migliorato sotto il piano delle competenze 4.0 che continuano ad essere uno dei freni alla crescita della produttività. Il Competitiveness Index 2020 del World Economic Forum lo evidenzia chiaramente. Tra il 2016 e il 2020 il tasso di variazione delle skill nella popolazione italiana (soggetti con istruzione universitaria e secondaria) è inferiore al 2%.

Questo è indice di una generale stagnazione che coinvolge inevitabilmente anche l’universo del digitale. Contemporaneamente tra il 2013 e il 2017 il rapporto tra studenti di materie scientifiche sul totale è andato decrescendo invece che aumentare, come auspicato sull’onda della digitalizzazione, passando dal 25% al 23%.  Entrando nello specifico del fabbisogno di competenze dell’Industria 4.0, questo gap secondo il World Manufacturing Forum potrebbe costare ogni anno all’Italia lo 0,6% del PIL e, considerando il peso crescente dell’Intelligenza Artificiale e delle tecnologie che evolveranno insieme ad essa, potrebbe anche aumentare.

Le skill che mancano nell’ICT

Le carenze più marcare, secondo gli indicatori OECD, si verificano soprattutto nel settore ICT dove spiccano problem solving e competenze base di processo. Per quanto riguarda il settore manifatturiero, invece, l’Italia mostra di avere un capitale umano con buona preparazione tecnica. Allo stesso tempo le capacità di problem solving e le competenze di processo sembrano essere meno sviluppate con i dati peggiori che si riferiscono al critical thinking, active learning e monitoring, mentre installation, equipment selection e maintainance sono le skill di cui c’è meno necessità. Ciò conferma la grande capacità storica della forza lavoro italiana sotto il punto di vista tecnico e le maggiori carenze sotto il profilo soft skill.

Peccato che l’Industria 4.0 preveda che i due set di competenze vadano di pari passo.  Il problema è stato ampiamente riconosciuto negli anni, fino ad arrivare al PNRR in cui si esplicita la carenza generica di competenze digitali e sono inserite una serie di azioni che fanno parte di una “più ampia Strategia Nazionale per le Competenze Digitali volta a promuovere un diffuso miglioramento delle competenze della forza lavoro esistente e futura su temi digitali e tecnologici”. Queste attività sono suddivise in due canali principali: la scuola e l’impresa.

La situazione della PA

Anche la PA è coinvolta, ma si tratta di un discorso a parte. Per quanto concerne il sistema educativo il piano del governo è quello di rafforzare l’istruzione professionale, in particolare il sistema di formazione professionale terziaria (ITS) e l’istruzione STEM. Inoltre è previsto un rafforzamento dei collegamento tra ricerca e impresa. Sul lato dell’impresa, il pilastro rimane sempre il Piano Transizione 4.0 con l’obiettivo di migliorare il tasso d’innovazione del tessuto industriale e imprenditoriale del Paese e incentivare gli investimenti in tecnologie all’avanguardia, nonché investire nella formazione delle competenze digitali e manageriali.  Forse il problema è proprio questo. Per anni i governi che si sono succeduti hanno puntato eccessivamente su un solo strumento di policy nel disperato tentativo di venire incontro alla domanda delle imprese per nuove competenze 4.0.

Puntualmente, la situazione non è cambiata. Perché? Perché è il sistema stesso ad essere in deficit di competenze e storicamente debole sotto il punto di vista della formazione connessa alla tecnologia, alle soft skill e oggi alla digitalizzazione. Non è certo con le mezze riforme degli ITS e dell’educazione che è possibile colmare questo gap. Tantomeno puntando solamente sulla lungimiranza delle imprese che con il credito d’imposta saranno portate a sopperire alle carenze formative della forza lavoro.  Il PNRR non è che uno scheletro sul quale lavorare. È necessario però che ci sia uno sforzo complessivo verso gli obiettivi individuati. E non deve essere un taboo anche la questione immigrazione, laddove l’Italia deve puntare ad attrarre talenti dall’estero e non solamente a lasciarsi scappare ricercatori e individui formati ad alto livello. Cooperare è la parola d’ordine. Il governo Draghi ha le potenzialità per iniziare l’applicazione di questo concetto. Chi verrà dopo dovrà continuarla.

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