I termini “dematerializzazione” e “digitalizzazione”sono troppo spesso utilizzati in alternativa l’uno all’altro, ma occorre evidenziarne le differenze.
La PA, che estrinseca la propria azione attraverso i documenti, ha prodotto fino ad ora materiali sostanzialmente analogici, tattili, cartacei. La documentazione conservata, giunta fino a noi perché nel tempo è stata valutata come testimonianza storica, o anche quella recente nata però su carta, può essere trasformata in modalità digitale, fermo restando che nasce analogica, cartacea. Tecnicamente cambia il “supporto”: da carta a file, da “cosa tattile” a “cosa informatica”. Questa è la dematerializzazione: trasformare in non-materiale qualcosa che nasce materiale.
La digitalizzazione, invece, si riferisce alla produzione nativa dei documenti in ambiente digitale; quindi gli originali, sebbene il concetto di originale e di copia divenga evanescente in ambiente digitale, nascono in ambiente digitale, sono documenti che non possiamo toccare e che se tocchiamo (la stampa di un biglietto aereo digitale) lo facciamo per antico retaggio culturale, non con consapevolezza giuridica. Il documento, infatti, nasce digitale e come tale deve essere conservato.
Cos’è la “conservazione dei documenti”
Molti conservatori parlano di documento da conservare. Ora pensiamo alla mole di documenti che una PA produce e immaginiamo di versarli in conservazione. Pensiamo a quello che potremmo visualizzare in un qualsiasi “contenitore” anche in cloud: file che sono in ordine di versamento e non anche secondo il tempo di produzione; oppure nel manuale di conservazione spesso troviamo la conservazione di una “serie archivistica”. Ma cos’è una serie? Sono documenti uguali per forma (deliberazioni, decreti, contratti, etc.) diversi per contenuto. Siamo sicuri che questo sia corretto? Manteniamo la correttezza della tipologia di produzione, ciò a dire l’ordine cronologico, ma perdiamo il contesto. Non bisogna, infatti, dimenticare che ogni provvedimento si riferisce ad un determinato procedimento amministrativo, affare, attività, etc., e che, soprattutto in ambiente digitale, dobbiamo necessariamente conservare il contesto.
Ogni tipologia di procedimento costituisce, di norma, un “fascicolo”. Ed è questo, come tante volte detto, l’aspetto cruciale del problema, l’organizzazione del lavoro: si deve prevedere una lungimirante e avveduta organizzazione dei documenti in fascicoli (o in serie). È un’opera di “progettazione” a monte, d’intesa tra il responsabile della gestione dei flussi documentali, i responsabili dei procedimenti amministrativi e la dirigenza dell’Ente: in quali serie si vogliono sedimentare i documenti? Quali sono i fascicoli di affare? Quali i procedimenti che si snodano nella prassi quotidiana dell’Ente?
E, venendo al documento digitale, oramai realtà di una PA, come si formano i fascicoli digitali? Cosa si renderà necessario mandare in conservazione?
La vera digitalizzazione deve prevedere la formazione del fascicolo informatico, costituito da documenti ricevuti, prodotti, interni etc., originariamente in formato digitale. Ciò a dire, e lo vogliamo dire forte, che quando si crea un documento digitale, si deve già conoscere il procedimento di riferimento, quindi il fascicolo e il tempo di conservazione. È dall’archivio corrente che si deve sapere come e cosa si conserverà. All’interno del sistema di gestione documentale ci dovrebbe essere la tabella di procedimenti, affari e attività e ad ogni documento associato il tempo di conservazione con riferimento alla propria unità archivistica.
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Motivare al cambiamento dipendenti pubblici e cittadini
Sappiamo bene che non tutti i cittadini sono “digitali” per cui la PA dovrà non solo formare i propri dipendenti per la informatizzazione, ma anche facilitare l’approccio al cittadino verso la PA in questa fase, che ormai dura da oltre un decennio (sembra di non essere mai pronti…). Del resto, lo prevede anche la norma sul digital divide. Le regole tecniche sui formati del documento amministrativo sono arrivate nel 2013 col DPCM, il CAD ha subito diverse modifiche (troppe per essere un codice) ma nonostante tutto ci si arrangia, si fatica a formare i documenti nei formati stabiliti dalla normativa vigente, non tutte le PA hanno gli strumenti adeguati per creare un file PDF/A accessibile, figuriamoci il cittadino.
Si assiste a uno scambio promiscuo di file attraverso i mezzi di comunicazione informatici (PEC, e-mail, siti web, etc.) e l’attenzione è concentrata sull’invio e sulla ricezione di uno o più file, non tanto sul formato. E, nel frattempo, si sta incrementando il fascicolo informatico della PA nel quale si sedimentano i documenti digitali ricevuti e prodotti.
C’è ancora una certa resistenza al cambiamento da parte di tutti, cittadini e dipendenti pubblici. O, meglio, tutti desideriamo la semplificazione. Il cittadino si aspetta un approccio fluido sburocratizzato veloce, il dipendente pubblico vuole lavorare meglio, ma continua a stampare il documento informatico.
Nella (in-)formazione del dipendente pubblico è necessario insistere non solo sui formati digitali dei documenti, ma soprattutto su una cultura del digitale, la scrivania di legno con sopra le cartelline di carta è sostituita dalla scrivania digitale rappresentata dal sistema di gestione documentale che ogni giorno deve essere aperto per essere consultato. Ci son voluti anni per diffondere la sensibilizzazione verso il protocollo informatico e ci sono voluti diversi interventi di autorevole giurisprudenza per svilupparne la consapevolezza.
Tuttavia, grazie ad una rete informatica di diverse professionalità, la PA, o meglio, molti dipendenti di università e di enti di ricerca dimostrano resilienza di fronte agli ostacoli della vera digitalizzazione. Lo “svecchiamento” culturale della PA o l’apertura della PA al digitale deve essere un processo condiviso dai dipendenti, accompagnati in questo nuovo percorso dai manager pubblici. Ed i manager pubblici devono essere pronti a rimettersi in gioco e a ripensare il lavoro dei propri collaboratori: la motivazione al cambiamento deve essere la chiave di volta per poter fornire un servizio pubblico vicino al cittadino.
La vision che serve per una corretta conservazione
Tutto ciò il CAD non lo dice, forse lo sottende.
In conclusione, la corretta conservazione documentale necessita di uno sguardo di insieme; bisogna sapere dove si vuol arrivare sin dall’inizio del cammino: adeguamento di software, processi e procedimenti devono mirare a un’organizzazione consapevole dei documenti digitali.
Ora, è necessario insistere sulla (in-)formazione del fascicolo informatico perché solo se tutti i documenti che lo compongono restano uniti dal “vincolo archivistico” è garantita una conservazione sensata e un’accessibilità a prova di contenzioso, anche e soprattutto in ambiente digitale, in quel cloud del conservatore, sia in house sia in outsourcing.
Si può pensare a una corretta conservazione solo se si crea un archivio corrente organizzato prima ancora di essere prodotto.