Gli NFT sono già usciti dal segmento dell’arte e delle opere dell’ingegno per contagiare settori del mercato tradizionalmente caratterizzati da una forte fisicità, oggi invece protesi verso trasformazioni rivoluzionare, come in particolare il mondo della moda. Una situazione che pone questioni anche sul piano del diritto.
Da ricordare che uno dei primi passi verso la contaminazione fra la moda ed il digitale fu fatto da Prada nel 2012, quando la casa di moda ha utilizzato come “modelli” per la propria collezione i personaggi del videogioco “Final Fantasy”. E non è l’unico esempio.
Come ci si veste nel Metaverso: l’impatto di NFT e universo parallelo sul mondo della moda
Moda e digital, casi pratici
Nel 2019, il direttore creativo di Louis Vuitton Nicola Ghesquière ha lanciato una collaborazione strutturata con Riot, il produttore del videogioco “League of Legends”, ove il baule che conteneva la coppa consegnata ai vincitori era firmato dalla nota casa di moda. La stessa ha realizzato anche una serie di indumenti digitali (o digital skin) per i giocatori del videogioco, che si potevano acquisire tramite gettoni e vincite di partite, e contemporaneamente ha presentato una linea di capi reali interamente ispirata al videogioco “League of Legends”.
Gli esempi da allora si sono moltiplicati, dal game “B bounce” di “Burberry” alle “skin” di Moschino per “The Sims”, o di Valentino per “Animal Crossing”, fino al videogame “Afterworld” pensato da Balenciaga per presentare i propri capi.
L’asta di Dolce & Gabbana
Nell’agosto/settembre 2021 Dolce & Gabbana ha proposto una sfilata di pezzi unici reali e contemporaneamente un’asta virtuale sulla piattaforma specializzata Unxd per l’acquisto NFT di indumenti digitali, realizzati partendo dalla commistione di grafiche di tessuti ed elementi reali e grafiche interamente virtuali. L’asta ha realizzato in breve tempo oltre 6 milioni di dollari.
Fashion e metaverso
Da qui si è arrivati infine al “Metaverso”, in cui gli “avatar” possono acquistare nel Metaverso diversi oggetti virtuali, fra cui anche accessori e capi griffati, in un contesto che si presenta particolarmente accattivante per gli utenti e per le aziende, perché da un lato l’offerta è potenzialmente infinita, dall’altro lato mentre l’avatar ed i capi digitali non soffrono degli inconvenienti del mondo reale (manca la taglia giusta, il capo indossato dall’acquirente non sembra più così bello come quello indossato dalla modella, etc.).
In alcuni casi il costo dei prodotti griffati è minore rispetto a quello del mondo reale, il che consente ad un numero maggiore di consumatori l’acquisto del bene-status symbol; benché si possa già constatare una crescente propensione anche in ambito digitale alla crescita dei prezzi, che si genera attraverso l’induzione di una loro scarsità artificiale: alcune “skin” sono infatti particolarmente costose in quanto rare e per questo più ricercate. In questo contesto alcuni produttori di moda hanno già disegnato una strategia di protezione dei loro asset nel mondo digitale, in particolare registrando i loro marchi anche per le categorie di prodotti e servizi del mondo online, come ad esempio i “downloadable virtual goods” ed i servizi connessi per la vendita al dettaglio e per l’entertainment. Fra i primi ad agire in questo senso Nike, che ha effettuato queste nuove registrazioni con riferimento ad abbigliamento sportivo, scarpe, occhiali, borse, e così via.
Gli aspetti legali
Lecito tuttavia chiedersi se nel contesto attuale della normativa la registrazione di marchi per oggetti virtuali sia sempre sufficiente a garantire una tutela adeguata, e se invece non ci si possa trovare di fronte a potenziali conflitti, ancora difficili da sciogliere, fra mondi diversi, quali quelli del marchio da una parte e del diritto d’autore dall’altra parte. Un esempio emblematico si ricava dalla controversia recentemente insorta fra l’artista digitale Rothschild e la casa di monda Hermes, relativamente agli NFT che Rothschild ha realizzato e venduto, aventi ad oggetto versioni digitali rielaborate della famosa borsa Birkin di Hermes (le opere sono infatti state denominate da Rothschild “Metabirkin”).
Secondo Hermes si tratta di semplice violazione del marchio: gli NFT sarebbero dei falsi, che inducono i consumatori in confusione e che danneggiano l’immagine della casa di moda. Secondo Rothschild, invece, si tratta di opere d’arte che realizzano una parodia del marchio Birkin e come tali devono essere considerate lecite, in quanto forme di libera espressione artistica garantite da tutti gli ordinamenti (negli Stati Uniti d’America dal primo emendamento, in Italia la Costituzione, in Europa la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea).
I diritti in gioco
Il tema sottende una partita fondamentale, che è quella per la protezione e la monopolizzazione del lusso nel mondo digitale (da un lato) e la tutela della libertà di espressione artistica di ciascun cittadino (dall’altro lato), tenendo presente che nell’un caso di parla di marchi, per i quali è prevista una tutela potenzialmente infinita (a condizione che la registrazione sia rinnovata e/o l’uso continuato), e nell’altro caso di diritto d’autore, ove la protezione, per quanto lunga, termina settant’anni dopo la morte dell’autore, e comunque sono previste una serie di eccezioni che consentono l’utilizzazione dell’opera anche in assenza di consenso da parte del titolare dei diritti.
L’esempio di Andy Warhol
Il conflitto è stato tradizionalmente risolto nel mondo cd. “analogico” a favore di una distinzione piuttosto netta fra marchi e diritto d’autore, ove si è ritenuto che il marchio servisse eminentemente a distinguere un prodotto sul mercato, indicandone l’origine, mentre il diritto d’autore fosse finalizzato al godimento ed alla decorazione estetica. Per questa ragione è noto che l’uso di marchi in opere dell’ingegno è stato considerato lecito, quando in gioco ci fosse la necessità di garantire la libertà di espressione degli autori e degli artisti: si pensi al famoso caso dell’uso del marchio delle zuppe Campbell da parte di Andy Warhol in alcune sue tele negli anni Sessanta del secolo scorso, che è stato considerato consentito – benché a scopo economico – in quanto “un’interpretazione estremista della portata dei diritti del titolare del marchio avrebbe potuto privare l’arte contemporanea di dipinti tanto espressivi, eccezionale esempio della pop art” (in questo senso si è espresso l’avvocato generale presso la Corte di giustizia UE nelle sue conclusioni del 13 giugno 2002 nella causa C-206/01, Arsenal Football Club plc. C. Matthew Reed).
Sempre nel senso di una chiara separazione fra funzione del marchio e funzione del diritto d’autore vanno ricordate le decisioni statunitensi ed italiane (Fleischer Studios, Inc. v. A.V.E.L.A., Inc., No. CV 06-6229 (C.D. Cal. Nov. 14, 2012); Trib. Bari 22/6/2016; contro la decisione del 25 febbraio 2014 della High Court of Justice di Londa) nel caso “Betty Boop”, noto personaggio cartoon che un editore aveva registrato come marchio, pur senza esserne l’autore, e di cui lamentava l’utilizzazione da parte di un terzo, che commercializzava magliette e borse riproducenti il personaggio come decorazione.
In quei casi le corti hanno sottolineato che poiché il personaggio in realtà veniva utilizzato in modo decorativo, non si potesse ravvisare una violazione del marchio, ma piuttosto di diritto d’autore, che tuttavia non poteva essere fatta valere dall’editore in quanto il personaggio era caduto in pubblico dominio. Se la tutela fosse stata concessa, si sarebbe realizzata una sorta di commistione fra la funzione del marchio e la funzione del diritto d’autore, e di fatto si sarebbe impedito che il personaggio cadesse in pubblico dominio, come invece previsto dalle norme in materia di diritti d’autore.
Murakami e Louis Vuitton
Nel frattempo, tuttavia, al marchio sono state progressivamente riconosciute funzioni diverse oltre quella distintiva, ed in particolare la funzione attrattiva, che sostanzialmente si identifica in una funzione di comunicazione, ove il marchio veicola l’immagine dell’azienda proprietaria e ne costituisce espressione. Una volta riconosciuta al marchio questa valenza espressiva, è diventata evidente la potenziale interferenza – perlomeno in talune circostanze – fra il marchio stesso e l’opera dell’ingegno: basti pensare ai marchi che sono diventati essi stessi elementi decorativi, come nel caso dei loghi utilizzati quali stampa di tessuti, e così via. Qui addirittura è frequente che si realizzino cooperazioni fra artisti e griffe famose, come è avvenuto in passato per esempio nel caso dei design realizzati dal noto artista Takashi Murakami per Louis Vuitton, che hanno dato luogo a borse uniche – ormai oggetti di vintage di culto – in cui la decorazione era costituita dal marchio della griffe declinato in diversi colori e modalità.
L’interferenza fra i due diritti in campo è portata ai suoi estremi risultati nel mondo digitale, ove in effetti le differenze fra il marchio e l’opera dell’ingegno possono sembrare ancora più labili che negli esempi ora fatti. Come distinguere infatti l’immagine digitale di una borsa Louis Vuitton/Murakami realizzata e commercializzata dalla casa di moda e quella realizzata da un terzo, magari anche un artista digitale, che la rielabori in modo personale ed originale? Il diritto di marchio di Louis Vuitton può paralizzare le attività dell’artista digitale o queste debbono essere consentite? Chi può realizzare gli NFT e quali contenuto questi possono/debbono avere?
E ancora, la durata dei diritti eventualmente riconosciuti a Louis Vuitton deve essere tendenzialmente infinita, come quella del marchio, ovvero è soggetta a decadenza dopo 70 anni dalla morte dell’autore, come avviene nel diritto d’autore? Va data importanza alla finalità dell’iniziativa, che quando è prettamente commerciale non dovrebbe essere consentita al terzo, mentre avrebbe spazi maggiori di liceità se diretta a scopi prevalentemente anche se non esclusivamente culturali? Si tratta di domande molto difficili a cui la giurisprudenza, la dottrina e probabilmente il legislatore, non solo nazionale, dovranno presto dare una risposta.