la guida penale-tributaria

La stabile organizzazione al tempo del digitale: ecco le regole



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Vediamo come gestire con cautela gli aspetti fiscali, tributari e penali dell’istituto della stabile organizzazione, data la complessità della materia e l’indeterminatezza di alcuni parametri di valutazione

Pubblicato il 28 apr 2025

Francesca Berti

Associate di Puccio Penalisti Associati

Andrea Puccio

Founding partner Puccio Penalisti Associati



gruppi d’impresa (1) stabile organizzazione

La stabile organizzazione rappresenta uno degli istituti più complessi e dinamici del diritto tributario internazionale, caratterizzato da una continua evoluzione interpretativa, tanto in ambito dottrinale quanto giurisprudenziale. Questo istituto giuridico, tipico della normativa fiscale, stabilisce una soglia minima di radicamento delle attività imprenditoriali di un’impresa non residente nel territorio di uno Stato, mediante la quale quest’ultimo può attrarre ad imposizione eventuali redditi prodotti dalla suddetta impresa per l’attività ivi esercitata.

Tradizionalmente concepita come una “sede fissa di affari”, oggi la nozione di stabile organizzazione è chiamata ad affrontare nuovi orizzonti, confrontandosi con un’economia sempre più digitalizzata, nella quale il valore è generato attraverso algoritmi, piattaforme digitali e infrastrutture immateriali.

La stabile organizzazione costituisce, dunque, il presupposto e/o il collegamento necessario affinché uno Stato possa sottoporre a imposizione fiscale i redditi prodotti nel proprio territorio da un’impresa che non ha la sede principale in tale Stato. Le implicazioni di tale concetto giuridico, tuttavia, non si limitano alla materia tributaria: esso, infatti, ha delle rilevanti ripercussioni anche sotto il profilo strettamente penalistico, comportando precisi vincoli comportamentali in capo alle imprese non residenti che operano nel territorio di uno Stato estero.

La disciplina e i requisiti normativi della stabile organizzazione

L’ordinamento giuridico italiano disciplina il concetto di c.d. permanent establishment nell’articolo 162 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (in sigla TUIR), recependone la definizione dalla normativa sovranazionale e, in particolare, dall’articolo 5 del Modello di Convenzione OCSE. Secondo tale definizione, la stabile organizzazione si configura come una sede fissa di affari attraverso cui un’impresa non residente esercita, totalmente o parzialmente, la propria attività economica nel territorio di un altro Stato, generando operazioni rilevanti sia ai fini delle imposte dirette che dell’IVA.

Più nel dettaglio, al fine di assumere rilevanza fiscale, la presenza di un’impresa nel territorio dello Stato deve caratterizzarsi per tre requisiti fondamentali:

  • materialità, intesa come esistenza di un’installazione d’affari, la quale può consistere, come specificato dall’OCSE nel Commentario di accompagnamento al Modello di Convenzione, in qualsiasi tipo di edificio, struttura o installazione che venga utilizzato per lo svolgimento anche non esclusivo dell’attività;
  • stabilità, da intendersi alternativamente come c.d. fissità spaziale idonea a determinare un solido legame tra l’impresa e il luogo materiale in cui è situata, ovvero come c.d. stabilità temporale, consistente in una permanenza di natura non meramente temporanea sul territorio;
  • produttività, ossia idoneità della struttura a generare reddito, requisito che impone la sussistenza di un rapporto di connessione tra la stabile organizzazione e l’attività di impresa svolta dalla società non residente.

Accanto a questa configurazione materiale dell’istituto in discussione, il legislatore ha delineato altresì la cosiddetta stabile organizzazione personale. Questa fattispecie alternativa si fonda sul presupposto per cui un’impresa possa svolgere la propria attività all’estero in modo indiretto, ovverosia avvalendosi di un rappresentante e, dunque, prescindendo dall’esistenza di un’installazione fisica. Tale declinazione dell’istituto, in particolare, si perfeziona allorquando un soggetto opera nel territorio dello Stato per conto di un’impresa non residente, disponendo abitualmente del potere di concludere contratti a nome della medesima[1].

Le implicazioni penali- tributarie della stabile organizzazione

Una volta accertato che un’impresa con residenza all’estero svolge la propria attività in Italia mediante una stabile organizzazione, essa è assoggettata agli stessi obblighi fiscali previsti per i soggetti residenti e alla pretesa impositiva dello Stato italiano sui redditi prodotti nel territorio nazionale[2]. Tale assoggettamento, tra l’altro, comporta altresì l’onere in capo alla medesima impresa di tenere le scritture contabili, oltre a fare e presentare le dichiarazioni dei redditi, fatturare le operazioni attive e registrare le fatture passive, nonché versare le imposte dovute.

Sul versante del diritto penal-tributario, gli obblighi fiscali che ricadono in capo alla stabile organizzazione determinano la possibile integrazione, da parte delle imprese non residenti, di alcuni reati tributari previsti dal D.lgs. n. 74/2000: infatti, le implicazioni derivanti dalla presenza di una stabile organizzazione non dichiarata e/o occulta vanno ben oltre il semplice recupero fiscale, estendendosi al piano penale, con conseguenze potenzialmente molto gravi per l’impresa e i suoi amministratori.

Stabile organizzazione occulta, i reati previsti

Più nello specifico, la mancata dichiarazione di una stabile organizzazione sul territorio italiano può integrare diverse fattispecie di reato tributario, tra le quali assume una posizione di rilievo il delitto di omessa dichiarazione, ex art. 5 D.lgs. 74/2000, potenzialmente ascrivibile all’impresa che, pur avendo una stabile organizzazione nel territorio italiano, non abbia ivi provveduto alla presentazione della dichiarazione dei redditi[3]. La giurisprudenza di legittimità ha ravvisato, altresì, gli estremi del delitto di dichiarazione infedele, di cui all’art. 4 D.lgs. 74/2000, nell’ipotesi in cui la dichiarazione dei redditi presentata da una società residente in Italia non abbia incluso i redditi prodotti dalla propria stabile organizzazione in uno Stato estero. Da ultimo, nei casi caratterizzati da particolare insidiosità della condotta, come l’utilizzo di documenti falsi o altri mezzi fraudolenti, può configurarsi il più grave delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 D.lgs. 74/2000).

In tale contesto, preme sottolineare il significativo ruolo svolto dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha progressivamente delineato i confini della rilevanza penale delle condotte integrabili da parte delle stabili organizzazioni. Tra gli esiti di tale attività ermeneutica, un approdo di notevole rilevanza coincide con la creazione della categoria delle c.d. stabili organizzazioni occulte, rispetto alla quale è stata chiarita la necessità, al fine di vagliarne l’effettiva esistenza, di effettuare verifiche basate su elementi fattuali concreti e non meramente giuridico-formali. Più specificamente, la Corte di Cassazione ha affermato che, al fine di accertare la sussistenza degli elementi costitutivi di una stabile organizzazione, è possibile ricorrere ad elementi di carattere indiziario, quali l’identità delle persone fisiche che agiscono per l’impresa straniera e per quella nazionale, ovvero la partecipazione a trattative o la stipulazione di contratti, prescindendo addirittura dal conferimento dei poteri di rappresentanza[4].

Normativa della stabile organizzazione nell’economia digitale

Il quadro normativo nazionale in materia ha subito una significativa evoluzione con la Legge di Bilancio del 2018, attraverso la quale il legislatore ha recepito le indicazioni elaborate in seno al c.d. progetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting) dell’OCSE.  Quest’ultimo progetto mira principalmente ad ampliare i confini dell’istituto, adeguandolo alle esigenze dell’economia globalizzata e, in particolare, alle peculiarità dell’economia digitale, caratterizzata da modelli di business che permettono una significativa presenza economica, senza una corrispondente presenza fisica secondo i parametri tradizionali.

La digitalizzazione dell’economia e lo sviluppo tecnologico hanno, infatti, posto sfide significative alla concezione tradizionale di stabile organizzazione, fondata essenzialmente sulla presenza fisica di strutture riconducibili all’impresa: ciò, in particolare, impediva di sottoporre a tassazione diretta i profitti delle imprese digitali, capaci di generare valore significativo in un territorio, senza necessariamente disporre di una presenza materiale rilevante. Questo fenomeno ha, quindi, reso necessaria una rivisitazione dei classici modelli impositivi.

L’action plan dell’Ocse contro l’erosione della base imponibile

In seno all’OCSE, è stato sviluppato un Action Plan composto da 15 azioni di contrasto al fenomeno di c.d. erosione della base imponibile: tra essi, l’Action n. 1 attiene proprio all’economia digitale e propone di rivisitare il concetto di stabile organizzazione, introducendo un nuovo criterio di collegamento territoriale dell’impresa fondato sulla significant economic presence, da identificare secondo gli indicatori predisposti da parte del medesimo OCSE[5].

Sulla scia dell’attività di aggiornamento perseguita dall’OCSE, anche l’Unione Europea si è mobilitata in tal senso, pubblicando due proposte di direttive comunitarie: la Direttiva CCTB (Common Corporate Tax Base), volta a integrare il concetto di stabile organizzazione virtuale fondato sulla presenza digitale significativa[6] e la Direttiva CCCTB (Common Corporate Consolidated Tax Base), che ha istituito un’imposta con aliquota 3% sui ricavi di specifiche tipologie di servizi digitali.  

Stabile organizzazione in Italia

Il legislatore italiano, al fine di allinearsi alle novità normative introdotte a livello comunitario e internazionale, è dunque intervenuto con la legge di bilancio del 2018 in senso emendativo sull’art. 162 del TUIR, introducendo l’inedita lett. f-bis), che disciplina la configurazione di una stabile organizzazione nel caso di “significativa e continuativa presenza economica nel Territorio dello Stato costruita in modo tale da non far risultare una sua consistenza fisica nel territorio dello stesso”. Con tale modifica, dunque, si è provveduto, a livello nazionale, a svincolare l’accertamento della situazione concreta dalla presenza di una struttura materiale direttamente riferibile all’impresa non residente. Va, tuttavia, evidenziato che la formula utilizzata dal legislatore nazionale appare piuttosto ampia e in grado di ricomprendere varie tipologie di attività.

Il legislatore, pur avendo introdotto modifiche significative al TUIR, non ha ancora definito con sufficiente precisione tutti gli indici di “presenza economica significativa”, limitandosi a un’enunciazione generale che, se da un lato amplia il perimetro applicativo della norma, dall’altro genera inevitabilmente una serie di incertezze interpretative.

Conseguentemente, gli operatori economici e i professionisti del settore sono tenuti ad adottare le dovute cautele nell’interpretazione e nell’applicazione della normativa così riformulata, avvalendosi dei principi e dei criteri sviluppati in seno all’OCSE e all’Unione Europea, nonché degli esiti delle prime emblematiche vicende che stanno interessando il panorama giudiziale nazionale e internazionale. Difatti, negli ultimi anni, sono emerse talune interessanti contestazioni che hanno coinvolto i più grandi colossi a livello mondiale, tra cui, per citarne alcuni, Netflix, Google e Airbnb: tali casi dimostrano perfettamente come il progresso tecnologico sia riuscito a far emergere situazioni che sfuggono ai tradizionali parametri incentrati sull’accertamento di una presenza fisica dell’impresa, creando un’insidiosa zona grigia tra lecita pianificazione fiscale e condotte penalmente rilevanti.

Cosa significa presenza economica rilevante

L’indeterminatezza dei parametri che definiscono la “presenza economica rilevante”, come dimostrato dagli esempi sopra citati, può facilmente tradursi in vere e proprie contestazioni di natura penale, trasformando quella che, fino a ieri, poteva essere considerata una legittima strategia di business in una condotta penalmente rilevante. A ben vedere, dunque, sarà necessario un approccio di cautela assoluta da parte degli operatori del diritto, i quali, alla luce delle rilevanti implicazioni derivanti dallo sviluppo dell’economia digitale, sono chiamati a svolgere un fondamentale ruolo preventivo di compliance, affiancando costantemente le imprese nella valutazione dei profili di rischio connessi alle proprie attività transfrontaliere.

Note


[1] Si veda, sul punto, Cass., n. 20678/2012, sentenza nella quale i Giudici di legittimità hanno affermato che, anche in assenza di locali riconducibili all’impresa estera, si configura una stabile organizzazione laddove nel territorio straniero è presente una struttura cui la società non residente ha affidato, anche solo di fatto, la cura dei propri affari.

[2] Sul punto, si segnala che, secondo l’orientamento maggioritario di dottrina e giurisprudenza, la stabile organizzazione non deve essere considerata come soggetto passivo della tassazione, ovverosia come soggetto contribuente residente. Infatti, ai fini dell’imposizione fiscale, i Paesi OCSE individuano quale soggetto passivo la Casa Madre avente residenza all’estero, considerandola come contribuente non residente, in capo al quale esiste, nello Stato della fonte, un obbligo fiscale per gli utili conseguiti dalla stabile organizzazione. Sul punto, in modo conforme a tale orientamento, Cass., Sez. Trib., n. 7682/2002; in senso difforme, invece, Cass., n. 16106/2011.

[3] La giurisprudenza di legittimità avalla tale tesi, sostenendo che “l’obbligo di presentazione delle dichiarazioni annuale dei redditi da parte di società avente residenza fiscale all’estero, la cui omissione integra il reato previsto dal D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 5, sussiste se l’impresa abbia stabile organizzazione in Italia, il che si verifica quando si svolgano nel territorio nazionale la gestione amministrativa, le decisioni strategiche, industriali e finanziaria, nonché la programmazione di tutti gli atti necessari affinché sia raggiunto il fine sociale, non rilevando il luogo dell’adempimento degli obblighi contrattuali e dell’espletamento dei servizi” (ex multis, Cass. n. 10098/2020; Cass. n. 20856/2018; Cass. n. 32091/2013).

[4] Cfr. Cass., n. 17206/2006.

[5] Nello specifico, il criterio di collegamento tra la giurisdizione tributaria e la digital economy, cioè il concetto di presenza economica significativa, deve essere individuato sulla base di indici quali i ricavi dell’attività e il numero di utenti di servizi digitali presenti nei Paesi in cui l’attività è svolta.

[6] La Commissione, peraltro, ha individuato alcuni criteri necessari al collegamento dei redditi prodotti dall’impresa e, quindi, alla configurazione della stabile organizzazione virtuale: in particolare, devono essere considerati alcuni indici di attività economica, i quali si configurano quando in un determinato Stato, una piattaforma digitale in un anno realizza ricavi per oltre 7 milioni di euro, o abbia oltre 100.000 utilizzatori, ovvero stipuli oltre 3.000 contratti in transazioni business to business.

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