Problemi per enti e imprese

La tutela degli archivi privati nell’era del GDPR: le norme da conoscere

Alcune norme del GDPR rischiano di creare problemi a enti privati e imprese che dispongano di un patrimonio archivistico, con possibili ripercussioni sulla ricerca storica e scientifica. In particolare, è rilevante la norma sul diritto all’oblio che solleva dibattiti sul significato di pubblico interesse

Pubblicato il 25 Feb 2019

Mariella Guercio

Università Sapienza di Roma, Anai

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Un’applicazione rigida del GDPR può creare problemi agli archivi privati, con conseguenze negative sulla ricerca storica e scientifica.

E’ questo il rischio che corriamo ora. Infatti, mentre la conservazione dei documenti e dei dati personali prodotti o acquisiti dalle PA e dei patrimoni documentari identificati dal Ministero per i beni e le attività culturali per la loro rilevanza culturale è in larga misura al sicuro, ben più rischiose sono le condizioni in cui si trovano gli archivi conservati a vario titolo dagli enti privati, incluso il caso di istituzioni che acquisiscono, mantengono e trattano i dati per finalità culturali o per la difesa dei diritti all’informazione nelle azioni di contrasto alla criminalità da parte, ad esempio, delle associazioni delle vittime di mafia e terrorismo.

Per entrare nel merito della questione, a gennaio è stato organizzato un incontro tra la Direzione generale degli archivi, l’Istituto centrale degli archivi e l’Associazione nazionale archivistica italiana con il Garante della privacy.

Il diritto all’oblio e il pubblico interesse

Il tema è naturalmente molto complesso, come del resto ben sanno coloro che negli ultimi anni hanno dovuto occuparsi per responsabilità diretta o per ragioni professionali del problema. Al centro dell’analisi, in questo caso, è l’articolo 5 del GDPR relativo ai principi applicabili al trattamento dei dati personali, con particolare riferimento alla lettera e) in base alla quale «i dati personali possono essere conservati per periodi più lunghi [rispetto al divieto della loro tenuta “in una forma che consenta l’identificazione degli interessati per un arco di tempo non superiore al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati” a condizione che siano trattati esclusivamente a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici», fatta salva l’attuazione di misure tecniche e organizzative adeguate a tutela dei diritti e delle libertà dell’interessato.

Anche il diritto alla cancellazione prevista dall’articolo 17 (il cosiddetto diritto all’oblio) trova un limite importante nel caso di archiviazione per fini di pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici. Il nodo riguarda, in particolare, il significato dell’espressione pubblico interesse, la cui interpretazione presenta per il nostro Paese un elemento ulteriore di complessità in ragione di un errore di traduzione compiuto nel momento in cui è stata predisposta la versione italiana del regolamento. Mentre il legislatore europeo nel testo del considerando 158 fa esplicito riferimento agli archivi, quello italiano, traducendo erroneamente records (documenti archivistici o archivi) con registri, rende il considerando medesimo del tutto incomprensibile:

«Le autorità pubbliche o gli organismi pubblici o privati che tengono registri di interesse pubblico dovrebbero essere servizi che, in virtù del diritto dell’Unione o degli Stati membri, hanno l’obbligo legale di acquisire, conservare, valutare, organizzare, descrivere, comunicare, promuovere, diffondere e fornire accesso a registri con un valore a lungo termine per l’interesse pubblico generale[1]».

In attesa che l’errore venga corretto, è comunque opportuno riflettere sul significato di questa condizione (peraltro richiamata in parte anche nei considerando 156 e 160) e sull’ampiezza del suo utilizzo in ambito pubblico e soprattutto privato. L’interrogativo principale riguarda il significato da dare all’obbligo legale di acquisire, conservare, valutare, organizzare, descrivere, comunicare, promuovere, diffondere e fornire accesso agli archivi e i limiti della sua applicazione. Si tratta di un obbligo che il Garante italiano in varie sedi ha ritenuto non riconducibile alla sola natura del titolare dei dati e degli archivi (la pubblica amministrazione), bensì legato a una valutazione più ampia del contesto e della funzione documentaria di riferimento, includendo quindi nelle deroghe previste gli archivi per i quali sia intervenuta, ai sensi del Codice dei beni culturali, la dichiarazione di riconoscimento dell’interesse culturale con il conseguente obbligo legale di conservarli, inventariarli e permetterne la consultazione.

I problemi per le istituzioni private e le imprese

Non mancano invece dubbi e preoccupazioni quando si esamina la situazione degli archivi privati per i quali il riconoscimento di importante interesse culturale non sia avvenuto o abbia riguardato solo una parte della documentazione conservata, ad esempio perché quella più recente non era ancora disponibile e non poteva essere inclusa nel provvedimento di tutela. La questione appare, peraltro, rilevante non solo per le numerose istituzioni private che conservano e gestiscono dati e documenti personali a fini culturali, ma interessa anche il mondo delle imprese e delle associazioni private che si trovano a dover gestire i propri importanti patrimoni documentari e informativi in un clima di crescente incertezza.

Le istituzioni, cui spetta fornire indicazioni e tutelare la qualità e la coerenza dei processi di accumulazione, trattamento e conservazione delle informazioni, si sono fortunatamente dimostrate attente e disposte alla collaborazione. In particolare, il Garante ha avviato una analisi accurata degli strumenti regolamentari a disposizione del legislatore nazionale per meglio salvaguardare, d’intesa con il Ministero per i beni e le attività culturali, i trattamenti riconducibili a finalità archivistiche nel pubblico interesse con specifico riferimento al regime di deroghe che l’articolo 89 paragrafo 2 del GDPR subordina a scelte nazionali e a misure adeguate di garanzia.

Tali scelte, definite per l’Italia anche nelle regole deontologiche, consentono di disegnare nel contesto nazionale le basi giuridiche per la liceità del trattamento di archiviazione (intesa alla luce dei considerando 158 e 160 del GDPR) e di includere, oltre al caso in cui il titolare dei dati abbia ottenuto il consenso valido dell’interessato, anche il legittimo interesse del soggetto titolare stesso, da definire applicando il criterio generale dell’accountability previo bilanciamento con diritti e interessi della persona interessata.

Le nuove regole deontologiche

Questo quanto emerge dalle nuove regole deontologiche per il trattamento a fini di archiviazione nel pubblico interesse o per scopi di ricerca storica pubblicate ai sensi dell’art. 20, comma 4, del d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101 – 19 dicembre 2018 che il Garante ha approvato con provvedimento 513 del dicembre 2018. Il provvedimento – in linea peraltro con quanto già previsto nella normativa precedente – stabilisce alcune importanti garanzie e misure in materia di archiviazione. In particolare, prevede che il trattamento ulteriore in forma identificativa degli interessati sia comunque consentito per finalità di ricerca storica e (ai sensi dell’articolo 1 comma 4 delle citate regole) consente anche agli enti titolari di archivi privati non riconosciuti di importante interesse di richiedere alla competente sovrintendenza archivistica l’applicazione delle medesime regole deontologiche applicate nel regime previsto per gli archivi dichiarati.

Si tratta di un regime di grande portata innovativa, che richiede tuttavia una attenta valutazione da parte dei titolari che intendano aderirvi. Se è vero, infatti, che permette la conservazione prolungata «ex lege» dei dati personali e riconosce deroghe per l’esercizio dei diritti degli interessati, potrebbe tuttavia implicare anche obblighi in termini di libera fruibilità o, comunque, di accesso ai dati in questione. Non vi è dubbio che si tratti di una prospettiva destinata a essere accolta con grande favore da parte degli enti culturali che non hanno alcun problema a contemperare gli obblighi di un accesso allargato, peraltro già assicurato ai ricercatori interessati, con la possibilità di continuare a gestire, senza nuovi rischi, i servizi di conservazione che sono all’origine della loro stessa ragion d’essere. Più impegnativa è la valutazione che dovrà essere affrontata da altri settori, tra cui ad esempio le imprese, che pur accumulando grandi quantità di dati e documenti, non hanno quasi mai testimoniato nei decenni passati un grado sufficiente di riconoscimento per la qualità e il valore di questi patrimoni.

Merita rilevare che, in ogni caso, l’attuazione delle deroghe citate richiederà il supporto dei professionisti di settore per l’elaborazione di strumenti archivistici adeguati (tra cui piani dettagliati di selezione e conservazione destinati a sostenere i necessari processi di distruzione e tenuta dei dati e dei documenti), sia per facilitarne e garantirne la corretta gestione sia per ridurre o eliminare del tutto, da un lato, i pericoli di un trattamento eccessivamente prolungato, dall’altro quelli, non meno costosi, di una precipitosa azione di distruzione destinata a impoverire il soggetto titolare di informazioni preziose per il suo operato.

Note

  1. Il testo inglese così recita: “(…) public authorities or public or private bodies that hold records of public interest should be services which, pursuant to Union or Member State law, have a legal obligation to acquire, preserve, appraise, arrange, describe, communicate, promote, disseminate and provide access to records of enduring value for general public interest”. Ancora più esplicita è la versione in lingua francese: “Les autorités publiques ou les organismes publics ou privés qui conservent des archives dans l’intérêt public devraient être des services qui, en vertu du droit de l’Union ou du droit d’un État membre, ont l’obligation légale de collecter, de conserver, d’évaluer, d’organiser, de décrire, de communiquer, de mettre en valeur, de diffuser des archives qui sont à conserver à titre définitif dans l’intérêt public général et d’y donner accès”.

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