Nell’ultimo periodo si è acceso un vivo dibattito intorno ad un’ordinanza del Tribunale di Catania, sezione lavoro, emessa ai sensi dell’art. 1, comma 47 e ss., legge 28 giugno 2012, n. 92, con la quale si è giudicato legittimo il recesso da un rapporto di lavoro intimato a mezzo “Whatsapp”.
La parte della motivazione che interessa esaminare in questa sede e che attiene agli aspetti del diritto dell’informatica risiede nell’affermazione del principio secondo cui “il recesso intimato mezzo a Whatsapp appare assolvere all’onere della forma scritta, trattandosi di documento informatico che parte ricorrente ha con certezza imputato al datore di lavoro, tanto da provvedere a formulare tempestiva impugnazione stragiudiziale in data 23.4.2015”.
Prima di addentrarci nel vivo della questione, vanno preliminarmente considerati sia gli aspetti fattuali quali emergono dal contenuto del provvedimento e, segnatamente, quelli relativi al comportamento del lavoratore, che ha impugnato la comunicazione dimostrando così implicitamente di averla regolarmente ricevuta e di considerarla rilevante da un punto di vista giuridico, sia il contenuto delle difese svolte dalle parti, che hanno visto il lavoratore neppure ipotizzare eventuali profili di nullità del recesso così intimato.
Il profilo di un eventuale vizio di inesistenza dell’atto è stato invece esaminato dal Tribunale, tenutovi ex officio: al riguardo, come ricordato, l’ordinanza puntualizza che il messaggio inviato attraverso la nota applicazione social costituisce a tutti gli effetti documento informatico.
L’assunto è certamente corretto alla luce di quanto dispone l’art. 1, lett. P), del CAD, il quale definisce il documento informatico come “il documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”.
Alla luce di tale definizione, frutto peraltro della revisione ed adeguamento del Codice alle norme dettate dal regolamento eIDAS, è facile aderire alla tesi del Tribunale dal momento che il messaggio in questione:
- è certamente documento elettronico;
- contiene sicuramente una rappresentazione informatica di atto giuridicamente rilevante (e per di più, si aggiunge, neppure la controparte sembra aver eccepito nulla).
Né pare potersi far questione su eventuali limiti della forma elettronica della comunicazione in esame, avuto riguardo al principio di non discriminazione sancito dall’art. 46 del Reg. 2014/910, secondo il quale «ad un documento elettronico non sono negati gli effetti giuridici e l’ammissibilità come prova in procedimenti giudiziali per il solo motivo della sua forma elettronica», anche nella sua declinazione relativa alle firme elettroniche, di cui all’art. 25 eIDAS («A una firma elettronica non possono essere negati gli effetti giuridici e l’ammissibilità come prova in procedimenti giudiziali per il solo motivo della sua forma elettronica o perché non soddisfa i requisiti per firme elettroniche qualificate»).
Proprio con riferimento alla sottoscrizione della comunicazione di recesso, nell’ordinanza in esame offre lo spunto per ulteriori interessanti considerazioni.
Il Giudice ha rilevato infatti che la comunicazione non era stata sottoscritta dal datore di lavoro ma da un soggetto terzo (il direttore tecnico) e ha applicato alla fattispecie i principi in materia di ratifica ex art. 1399 c.c. Peraltro, dalla lettura dell’ordinanza pare desumersi che nel caso di specie sia stata considerata come “sottoscrizione” la mera digitazione di nome e cognome in chiusura del messaggio, ancorché il messaggio fosse stato inviato da smartphone in uso a persona diversa dal titolare dell’azienda.
In realtà, le valutazioni da farsi sarebbero state ben altre.
Il Tribunale avrebbe infatti dovuto considerare che, ai sensi dell’art. 21, I comma, CAD, «il documento informatico, cui è apposta una firma elettronica, soddisfa il requisito della forma scritta e sul piano probatorio è liberamente valutabile in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità», ed avrebbe potuto affermare che il servizio di messaggistica in questione richiede un procedimento di autenticazione (nello specifico, attraverso il numero telefonico) che è equiparabile in tutto e per tutto alla firma elettronica semplice e beneficia dunque degli effetti di cui al suddetto art. 21 CAD. In tal modo si sarebbe dunque potuto affermare che, per il messaggio oggetto di causa, la forma scritta sussisteva ex lege.
Va peraltro sottolineato che la “forma scritta” in un simile messaggio elettronico non può ritenersi in alcun modo legata al fatto che esso sia necessariamente costituito da una serie di parole digitate sulla tastiera dell’apparato elettronico mittente: si ricorda infatti che proprio la definizione contenuta nel ricordato art. 21 CAD consente di affermare che qualsivoglia contenuto elettronico (e quindi anche una fonoregistrazione vocale trasmessa via Whatsapp) va considerato documento scritto purché munito di una qualsiasi firma elettronica: e si è detto, appunto, che le credenziali di accesso del noto social messenger sono riconducibili ad una firma elettronica, non discriminabile ex art. 25 eIDAS.
Altre questioni sarebbero sorte laddove fosse stata contestata la regolare ricezione del messaggio.
L’argomento riveste, in prospettiva futura, notevoli profili di interesse pratico e di concreta applicazione nelle aule di giustizia, sicché ne pare opportuna una breve trattazione.
Come noto il regolamento eIDAS ha introdotto il concetto di “servizio elettronico di recapito certificato” e ha previsto all’art. 43 (altra declinazione del principio di non discriminazione) che:
- “ai dati inviati e ricevuti mediante un servizio elettronico di recapito certificato non sono negati gli effetti giuridici e l’ammissibilità come prova in procedimenti giudiziali per il solo motivo della loro forma elettronica o perché non soddisfano i requisiti del servizio elettronico di recapito certificato qualificato” (primo comma);
- “i dati inviati e ricevuti mediante servizio elettronico di recapito certificato qualificato godono della presunzione di integrità dei dati, dell’invio di tali dati da parte del mittente identificato, della loro ricezione da parte del destinatario identificato e di accuratezza della data e dell’ora dell’invio e della ricezione indicate dal servizio elettronico di recapito certificato qualificato” (secondo comma).
A seguito dell’entrata in vigore di tale normativa il CAD riformato ha poi previsto che “ove la legge consente l’utilizzo della posta elettronica certificata è ammesso anche l’utilizzo di altro servizio elettronico di recapito certificato” (art. 1, comma I ter, CAD).
In sostanza, con il nuovo assetto normativo interno ed europeo la PEC non è più l’unico strumento utilizzabile per l’invio di “messaggistica certificata”, sicché occorre domandarsi se anche un servizio come Whatsapp (o altri similari) possa assurgere al ruolo di servizio elettronico certificato e dunque possa essere addirittura utilizzato in sostituzione della PEC.
L’interrogativo si è peraltro già posto in dottrina (si veda ad esempio A. Caccia) e ha ricevuto risposte parzialmente adesive sia in termini di effettiva svalutazione della PEC (che, lo ricordiamo, non può assurgere [ancora] al ruolo di servizio di recapito certificato qualificato) sia in termini di utilizzabilità dei servizi in questione.
In effetti sarà sufficiente dimostrare che quel dato servizio rispetti i requisiti dell’art. 43 eIDAS per ottenerne la piena equiparazione alla PEC; poiché un messaggio inviato tramite Whatsapp:
- è protetto da crittografia “end to end” (o “nel tragitto dal mittente al destinatario”;
- consente di desumere ora dell’invio;
- ove non disabilitata dall’utente, consente di stabilire l’effettiva ricezione del messaggio (comprensiva di data e ora)
possiamo affermare di non essere molto distanti da quanto richiede la normativa comunitaria.
L’ordinanza del Tribunale di Catania, lo ribadiamo, non tratta l’argomento ma offre un buono spunto per iniziare a discutere su di un tema che certamente è destinato a riproporsi in dottrina e in giurisprudenza.