Le logiche dell’economia digitale si basano sull’equilibrio tra domanda e offerta, il cui incontro risulta sempre più in crescita sulle piattaforme e-commerce. Osservando da vicino i dati, si nota come gli utenti rischino di essere quasi sopraffatti dalla moltitudine di prodotti analoghi o simili che emergono dalle ricerche, creando forte indecisione nella scelta nonché inevitabile confusione.
Le modalità di presentazione delle offerte online sono determinate da specifici algoritmi “disegnati” dalla piattaforma, i quali stabiliscono l’ordine di apparizione dei prodotti: ecco che una buona conoscenza del loro funzionamento può portare a comportamenti opportunistici da parte dei contraffattori nonché vanificare gli investimenti e i risultati ottenuti dalla lotta alla contraffazione. Più che mai in questo contesto si rende necessario un corretto utilizzo della pubblicità online ed un controllato funzionamento del keyword advertising, così da evitare la costante minaccia proveniente da pratiche scorrette.
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Contraffazione, il caso Amazon
Uno dei principali fattori che consente ad Amazon di ricoprire una posizione di spicco tra le diverse piattaforme di e-commerce è senza dubbio la vastità del catalogo offerto, con venditori che competono per far apparire i proprio prodotti tra i primi risultati delle ricerche degli utenti. A tutti sarà sicuramente capitato di voler procedere ad un acquisto e di trovarsi di fronte una serie di prodotti difficilmente distinguibili, finendo poi per scegliere – non senza difficoltà – il risultato “consigliato” o uno dei primi evidenziati. Da qui nasce l’interesse dei venditori a comprendere il funzionamento degli algoritmi che regolano la selezione delle ricerche di Amazon e i conseguenti tentativi di aggirare tali algoritmi, in modo da posizionare le proprie merci tra le prime offerte agli utenti.
Si pensi, ad esempio, alle molte imprese manifatturiere o ai venditori cinesi che, anziché commercializzare prodotti contraddistinti da marchi già registrati di terzi (e, quindi, anziché competere, in una battaglia a ribasso, con altri venditori che offrono lo stesso bene ad un prezzo leggermente inferiore), vendono beni generici (slegati da un brand specifico), riuscendo così a scalare le classifiche generali ovvero superare il posizionamento di altri venditori Amazon. Questo permette loro di posizionarsi tra i venditori selezionati “di default”, nonostante il prodotto offerto sia lo stesso – se non la versione contraffatta – di quello messo a disposizione dagli altri competitors.
Tali stratagemmi hanno, quindi, consentito il proliferare della circolazione di merce contraffatta o non corrispondente a standard di qualità minimi, che oggi impegna Amazon in importanti e dispendiose campagne di lotta alla contraffazione: la piattaforma stima di aver chiuso più di 50 mila account irregolari nella sola primavera-estate 2021. Purtroppo, la risposta a questa stretta su beni e account illeciti non si è fatta attendere. Al posto di commercializzare beni generici, le imprese sopra menzionate hanno iniziato a registrare “marchi”, giovandosi così dei vantaggi che Amazon mette a disposizione dei titolari e che, invece, sono preclusi ai venditori di prodotti generici. Queste domande di registrazione hanno spesso ad oggetto marchi formati da una stringa di lettere senza un particolare significato, il che permette di attribuire al segno carattere distintivo, senza che si rendano necessari eccessivi sforzi.
Dunque, i venditori dovrebbero prestare attenzione non solo ai singoli prodotti, ma altresì alle modalità con cui questi vengono presentati e pubblicizzati agli utenti. Occorre indagare sulle dinamiche di offerta online dei beni ed in particolar modo sulle caratteristiche di funzionamento degli algoritmi presenti all’interno delle varie piattaforme, capendo come le parole chiave utilizzate nelle ricerche dagli utenti incidano sui risultati proposti dalla piattaforme, che finiscono per dare precedenza – e quindi maggior visibilità – a determinati prodotti piuttosto che ad altri.
Algoritmi e keyword advertising
Solitamente le ricerche di prodotti (su piattaforme come Amazon, ma anche più in generale su Google) vengono effettuate per mezzo di parole chiave (keywords) che consentono agli algoritmi di selezionare i risultati più attinenti, i cc.dd. “risultati naturali”, da mostrare agli utenti. In aggiunta, a seconda dei casi, possono poi essere visualizzate ulteriori pagine, quali inserzioni pubblicitarie o prodotti di soggetti terzi che si servono delle stesse parole chiave come meta-tag al fine di comparire accanto ai “risultati naturali”, se non addirittura in posizione preminente.
Questo viene reso possibile da specifici servizi di posizionamento, i quali, dietro corrispettivo, offrono a qualsiasi operatore economico/inserzionista la possibilità di scegliere una serie di keywords che, laddove corrispondenti a quelle digitate dall’utente durante la sua ricerca, consentono agli algoritmi di far apparire il prodotto/servizio/link dell’inserzionista in primo piano.
L’ordine degli annunci
Qualora la stessa parola chiave venga scelta da più operatori economici, sarà il titolare del servizio di posizionamento a decidere l’ordine di apparizione degli annunci, solitamente ricorrendo a procedure d’asta determinate dal c.d. “prezzo massimo per click”, ovvero il prezzo che l’inserzionista ha dichiarato di essere disposto a pagare al momento della stipula del contratto con il servizio di posizionamento. Questo sistema viene impiegato sia da Google Ads che, in maniera simile, da Amazon, il quale tramite Amazon PPC (Pay-Per-Click) assegna un ordine preferenziale alle schede-prodotto dei venditori che hanno vinto l’asta, mostrandole agli utenti come “prodotti sponsorizzati”, dunque, in una posizione di rilievo rispetto agli altri prodotti. In questo caso, gli inserzionisti sono tenuti a corrispondere il prezzo di offerta solo qualora il loro annuncio relativo al prodotto sponsorizzato venga effettivamente cliccato.
Resta da capire in che misura l’utilizzo dei meta-tag coincidenti, ad esempio, con un marchio registrato altrui, integrino pratiche scorrette e censurabili. Secondo il più recente (ma consolidato) indirizzo della giurisprudenza sulla questione, l’uso di un marchio altrui come keyword o meta-tag da parte di un soggetto non autorizzato può costituire contraffazione nel caso in cui tale uso rischi di compromettere una delle funzioni caratteristiche del marchio, ovvero la tutela dell’origine dei prodotti, dell’investimento del titolare e della pubblicità. Nello specifico, l’attività di keyword advertising dovrà essere censurata qualora si ritenga che l’utente – normalmente informato e attento – possa rischiare di non accorgersi se i prodotti o i servizi cui l’annuncio si riferisce provengano o meno dal titolare del marchio, da un’impresa ad esso collegata o da un terzo.
La responsabilità
Al contrario, nel caso in cui l’offerta non contenga elementi in grado di generare confusione nell’utente, ma si ponga a quest’ultimo quale alternativa rispetto all’annuncio del titolare del marchio (rimanendo dunque conforme ai principi della concorrenza del mercato), non potrà che considerarsi in linea con il dettato normativo. Vale infine la pena precisare che il responsabile per le derive scorrette di tali pratiche è l’inserzionista, mentre al gestore del servizio di posizionamento non può essere mossa alcuna contestazione in ottica di contraffazione, in quanto quest’ultimo non fa un “uso” commerciale diretto del marchio. Tuttavia, il gestore ben potrebbe incorrere in responsabilità qualora, una volta avvertito dell’attività contestata, rimanga inerte e non provveda tempestivamente a limitare la diffusione dei contenuti in contraffazione.
Conclusione
Le pratiche illecite online possano assumere svariate forme, alcune, come nel caso del keyword advertising, anche di non immediata lettura. Pertanto, gli utenti sono ancora una volta chiamati a prestare la massima attenzione durante la navigazione, ovvero a tenere sempre presenti tutti gli strumenti a loro disposizione al fine non solo di prevenire tali fenomeni, ma anche al fine di di riconoscere tali fenomeni e segnalarli alle piattaforme ed alle autorità preposte.