Nella legge di bilancio 2020 la lotta all’evasione occupa un posto di rilevo, sia nelle intenzioni del governo che nei pubblici dibattiti. In campo ci sono da un lato gli interessi di coloro che – ovviamente – traggono vantaggio dall’incapacità dello Stato di colpire l’evasione, e dall’altro c’è il goffo tentativo della classe politica di adottare provvedimenti che da un lato possano apparire (dico bene: apparire) segno di una precisa volontà di trovare i giusti rimedi, ma che dall’altro denotano la insopprimibile ricerca del consenso. La risultante è un’azione del governo tesa a non scontentare chi grida più forte e a privilegiare i proclami a scapito della reale ricerca di una soluzione. Utile riflettere sul tema per capire quale direzione si sta intraprendendo.
Il contesto
Si parla dovunque dell’esigenza di ridurre l’uso del contante come mezzo di contrasto all’evasione. Si adducono pretesti e presunte cause ostative – proferite poi da coloro che ne avrebbero meno titolo e ragione – e passa in secondo piano la circostanza che l’80,7% dei redditi dichiarati nel nostro paese siano di lavoro dipendente e pensione[1], che vengono erogati esclusivamente mediante accredito su conti correnti bancari. Non è dato comprendere la ragione per cui sia più semplice prelevare il danaro in banca o alla posta[2] piuttosto che spenderlo nella stessa forma in cui è arrivato. Tra gli altri soggetti (meno del 20%) la maggior parte sono imprese, che quindi dovrebbero avere dimestichezza con le transazioni bancarie.
Dire che ad oggi la lotta all’evasione abbia raggiunto obiettivi significativi sarebbe una eresia. L’annunciato inasprimento dell’attuale sistema sanzionatorio non solo non rimuoverà le cause del fallimento che ad oggi si registrano, ma aumenterà la possibilità che le vittime siano i contribuenti onesti e i premiati siano gli evasori.
Lotta all’evasione, il ruolo della digitalizzazione
Digitalizzazione e esigenza di ridurre i costi dell’apparato pubblico: queste le parole d’ordine che caratterizzano il particolare e decisivo momento che stiamo attraversando. La fatturazione elettronica, pars minima di una più ampia ed auspicabile rivoluzione digitale, ha mosso i suoi passi tra la ostilità di coloro che avrebbero dovuto promuoverla a pieni voti. Ma ormai è realtà, ed i primi ad esserne soddisfatti sono gli imprenditori. Certo, occorrerebbe rivedere l’impianto sanzionatorio, progettato per il modo analogico. Attendiamo i prossimi passi, la digitalizzazione a metà fa perdere una grossa parte dei benefici che potrebbe generare, dobbiamo procedere a tappe forzate con la completa digitalizzazione dei processi aziendali, pagamenti elettronici, documenti di trasporto, e subito a seguire con la trasformazione normativa e concettuale dei libri e registri analogici in documenti nativamente informatici, ma le idee sono poche e confuse.
La esigenza di economie nella spesa pubblica sta producendo due effetti negativi. Il lento ma costante peggioramento della professionalità (latu sensu) nella PA e il proliferare di provvedimenti legislativi che cercano soluzioni facili e a buon mercato. Il primo fattore corre il rischio (anzi, già il rischio è attuale) di determinare attività accertative (analitiche) poco affidabili, in cui la “notizia” è molto più importante del risultato concreto, il secondo fattore sta spostando il baricentro dell’azione dell’Amministrazione Finanziaria verso strumenti di controllo (e, ahimè di accertamento) di massa, qualitativamente sempre più approssimativi e, per questo, più nocivi, anche psicologicamente, per l’economia nel suo complesso.
Gli ISA
Voglio spendere qualche parola sugli Indici Sintetici di Affidabilità, meglio conosciuti come ISA. Sfondiamo una porta aperta nel dire che sono stati avviati nel modo peggiore possibile, generando il panico tra i “beneficiari” delle norme e impedendo un corretto collaudo. Ma quello che mi sembra più grave e che sfugge ai più è la intrinseca negatività ed ostilità delle scelte adottate. Abbiamo attraversato un universo di nomenclature: parametri, studi di settore, congruità, coerenza, normalità, vocaboli tutti che, per quanto progressivamente più arditi e fantasiosi, non si sono spinti al punto di aver la pretesa di emettere un verdetto così “tranchant”: il giudizio di “affidabilità”. Forse qualcuno non ha considerato che chi non è affidabile, è inaffidabile.
Ditemi voi se è concepibile che una PA possa indurmi ad auto-emettere un giudizio di merito su dati la cui interpretazione non è, per sua intrinseca natura, univoca. Se i ricavi di una attività economica non sono in linea con parametri predefiniti, anche mediati e omogeneizzati in cluster, non vuol dire che il soggetto a cui si riferiscono sia inaffidabile; potrebbero ben scaturire da una non corretta organizzazione dei mezzi, del proprio tempo, da un pessimo carattere e, perché no, anche dalla capacità o inadeguatezza del titolare, fattore questo che è tanto più rilevante quanto sono piccole le attività. Certo, c’è anche la possibilità che i dati siano sballati perché nascondono evasione, ma questa è una delle possibilità, e tra l’altro penso che non sia neppure la più frequente.
Eppure abbiamo tutti abbiamo girato la testa dall’altro lato, come si suole dire, e ci siamo tuffati ad analizzare tutti i risvolti tecnici, senza però porci il problema della mortificazione inflitta ai contribuenti con la previsione normativa di un verdetto che sa di infamia, e a noi professionisti, che siamo costretti a dar conto e ragione ai clienti del perché della loro presunta “inaffidabilità”. Il bravo commercialista non è più quello che sa tenere le scritture contabili in maniera ineccepibile, ma colui che fa uscire indici affidabili. In sostanza: la incapacità della Pubblica Amministrazione di effettuare i controlli ha portato il legislatore a spostare progressivamente l’azione dall’accertamento della evasione alla “ipotesi di evasione”, allargando così in maniera drammatica la rosa dei pallini, colpendo un numero imprecisato di soggetti e rischiando di uccidere chi si trova casualmente al centro della linea di fuoco.
Contrastare l’evasione, non colpire il sospetto di evasione
Un accertamento mal fatto, quando sono superati i limiti per la rilevanza penale di cui al decreto legislativo 74/2000, viene trasmesso alla Procura della Repubblica, che è obbligata ad aprire un procedimento penale. Quante volte i procedimenti penali vengono avviati sulla base di ipotesi, congetture, o analisi affrettate? Quante volte si arriva, dopo una sfiancante via crucis, alla assoluzione perché il fatto non sussiste? Nel frattempo, quanti danni ha subito il nostro sistema economico ? ne esce sconfitto l’imprenditore ingiustamente accusato e l’apparato giudiziario, che è stato costretto, per dovere di ufficio, a trascurare attività ben più importanti e produttive.
Senza voler in questa sede redigere un trattato sulla evasione, si possono individuare – per le finalità che la presente analisi si prefigge – due macro tipologie di evasione. Quella che scaturisce dall’utilizzo distorto delle norme, che in gergo viene chiamato abuso del diritto, in cui il confine tra elusione ed evasione, tra lecito ed illecito, non è sempre ben definito, a causa anche di norme non puntuali ed adeguate. Il frutto di questa evasione non finisce immediatamente nelle tasche degli artefici, resta in ambito societario e talvolta arriva ai “beneficiari” sotto forma di compensi, sia pure formalmente corretti. Altre volte viene dirottato verso paesi che fanno della loro “opacità” una fattore strategico di attrazione. Diciamo che una parte dei vantaggi restano alle imprese, che talvolta individuano in ciò una ragione di localizzazione geografica. Questa evasione è di “alto profilo”, ha modalità attuative tecnicamente molto complesse, interessa una platea ristretta di soggetti (anche perché non tutti se la possono permettere) e quando è perpetrata con successo è estremamente produttiva per chi la attua e nociva per l’Erario.
Poi c’è l’evasione comune, che è trasversale e “popolare”: viene attuata dall’imprenditore che non batte lo scontrino, dal professionista che non emette parcella, dal dipendente che arrotonda lo stipendio con lezioni private e dal proprietario di casa che loca immobili senza dichiarare nulla o dichiarando una parte. In Sicilia si dice “biddizza e ricchizza nun si ponu ammucciari”. Traducendo “ammucciari”, che vuol dire nascondere, il resto è facilmente comprensibile. La evasione non è qualcosa che può essere facilmente occultata: deve trasformarsi in qualcosa di materiale, di concreto, che potrebbe essere un tenore di vita elevato (quindi, spese), accumulo di ricchezza, sia sotto forma di depositi bancari o investimenti comunque effettuati tramite il sistema creditizio, sia sotto forma di investimenti immobiliari. In qualunque caso, è una evasione che lascia traccia, perché il motivo per cui è perpetrata è direttamente ed intrinsecamente legato alla sua manifestazione. E’ quindi chiaro come la luce del sole che la limitazione dell’uso del contanti darebbe un colpo decisivo a questa forma di evasione: se dichiaro 100 e spendo 1.000 ci sarà qualcosa che non quadra.
La prima categoria di evasione si può individuare solo con metodologie raffinate e con personale altamente qualificato. Vola così in alto da sfuggire a qualunque ISA o parametro statistico. La seconda categoria deve essere perseguita con metodologie diverse. Innanzitutto mediante indagini sul “frutto della evasione”, magari aiutando il legislatore a introdurre norme che possano rendere trasparenti la maggior parte delle transazioni commerciali, ma soprattutto restituendo agli indici ed ai parametri il loro ruolo eventualmente selettivo, non accertativo, e tenendo presente che comunque l’accertamento deve fondarsi su elementi reali e riscontrabili, non su ipotesi e congetture. La classe politica dovrebbe rendersi conto che negli ultimi decenni c’è stata la progressiva demolizione della “tenuta” delle scritture contabili e il perversare delle presunzioni, eppure la evasione è cresciuta. Se poi mettiamo insieme l’annunciato inasprimento delle sanzioni penali e il crescente sistema di presunzioni posto a base degli accertamenti, ci rendiamo immediatamente come si stia alimentando una miscela esplosiva che mieterà vittime innocenti e provocherà la fuga dal nostro Paese.
I rischi
Queste misure, che definire inadeguate sarebbe riduttivo, non solo non sortiscono gli effetti sperati, ma producono un danno all’economia. Gli imprenditori non hanno alcuna certezza di non essere colpiti dalla scure del fisco se, per esempio, decidessero di mantenere in attività una impresa poco produttiva, magari solo perché dà lavoro ai suoi dipendenti e procura anche da vivere alla famiglia dell’imprenditore: dovrebbero giustificarsi nei confronti dell’Ufficio accertatore, con buona probabilità di non essere creduti ed essere costretti ad adire la giustizia tributaria, con costi non indifferenti e con risultati tutt’altro che scontati. Senza considerare che, nell’attuale sistema di presunzioni, un contribuente che, forse per apparire più solido nei confronti del sistema bancario, avesse sopravvalutato le rimanenze, tentando disperatamente (e illegittimamente, sia ben chiaro) di postergare la emersione della crisi d’impresa, sarebbe esposto ad un accertamento tributario nei confronti del quale, in virtù delle presunzioni di cessione e di acquisto portate dal Regolamento approvato con DPR 441/1997, avrebbe scarse possibilità di difesa. Questa situazione paradossale porta molti imprenditori – complice il sistema creditizio – non ad evadere, ma a dichiarare redditi non effettivamente conseguiti o ad occultare perdite effettivamente sostenute. In caso di accertamento, questo imprenditore avrebbe, oltre il danno, anche la beffa.
I professionisti corrono il serio rischio di vedere intaccata la loro autorevolezza, considerato che la loro capacità è stata compromessa dalla perdita di valore della contabilità. Se un contribuente si vede notificare un accertamento basato sugli studi di settore, non sempre riesce a comprendere che il professionista non c’entra nulla e che la contabilità, probabilmente, à stata tenuta in modo ineccepibile. Ciò li porta inevitabilmente a porre sempre meno attenzione all’impianto contabile che, quando non è sorretto da ragioni amministrative contingenti, viene sacrificato sull’altare delle necessarie economie. Questo rappresenta un danno e un enorme passo indietro.
L’intervento delle categorie professionali
Quando le categorie professionali sono chiamate a dire la loro, o tacciono, oppure si dolgono delle “restrizione della libertà” che potrebbe scaturire dalla limitazione dell’uso del contanti, mi sembra che vadano contro i loro interessi. Come se in un paese in cui vi fosse un proliferare di sequestri di persona i cittadini si ribellassero alla presenza dei posti di blocco, perché lesivi della libertà. Non capisco se certe esternazioni siano frutto di complicità o di opportunismo politico. Ovviamente dovremmo anche discutere sui costi delle transazioni bancarie, sulla sicurezza dei dati, ma io penso che sia giunto il momento di rimettere la palla al centro per affermare che:
- Le scritture contabili sono sacre e, quando non lo fossero, per ragioni di evidente trascuratezza, dolosa o colposa, dovrebbero essere disattese in maniera scientifica, non più induttiva[3]. Il famoso articolo 39 del DPR 600/1973, che aveva ben motivo di esistere mezzo secolo fa, adesso ha perso il suo diritto di cittadinanza, posto che la possibilità di reperimento “…dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti e di avvalersi anche di presunzioni…” è molto più semplice, posto che la moltitudine di comunicazioni e la auspicata trasparenza delle transazioni finanziarie ha già ristretto enormemente lo spazio per presunzioni di qualunque genere, essendo sostituite dalle informazioni, ricavabili dalle infinite banche dati in possesso dell’Amministrazione Finanziaria.
- Le categorie sociali devono essere disposte a “sacrificare” un pezzo di libertà per averne in cambio certezze e, nel tempo, di una riduzione della pressione fiscale. Per esempio, nell’ambito delle attività economiche, di impresa o professionali, l’utilizzo del denaro contante, prima che essere “bandito” normativamente, lo dovrebbe essere per ragioni organizzative, considerato che la gestione contabile ne troverebbe giovamento e tutte le operazioni sarebbero tracciate e, quindi, “parlanti”. Ed anche nella ipotesi di attività che hanno rapporti col pubblico, in cui si incassa danaro contanti, gli imprenditori dovrebbero depositarlo in banca, non trattenerlo per ragioni estranee all’impresa: solo così possono avere il “polso” dell’impresa e non correre il rischio di prelevare somme eccedenti ciò che la impresa produce.
Le contraddizioni del sistema sanzionatorio
Ma anche il sistema sanzionatorio nel suo complesso è contraddittorio. Se oggi mi fermano alla dogana con 200.000 euro in contanti il quadro sanzionatorio è il seguente:
- il sequestro amministrativo nel limite del 40% dell’importo eccedente il limite fissato
- l’applicazione di una sanzione amministrativa, fino al 40% dell’importo eccedente il limite fissato, con un minimo di 300 euro
- l’importo sequestrato, nell’eventuale misura eccedente le sanzioni applicate dal ministero dell’Economia e delle Finanze, è restituito agli aventi diritto che ne facciano richiesta entro cinque anni dalla data del sequestro.
- In caso di non fruizione del medesimo beneficio nei 365 giorni precedenti, il trasgressore può richiedere di essere ammesso all’estinzione della violazione, mediante pagamento immediato in misura ridotta di una somma pari al 5%, con un minimo di 200 euro, dell’importo eccedente il limite fissato, direttamente presso l’ufficio doganale. Il pagamento può avvenire entro 10 giorni dalla violazione a favore del ministero dell’Economia e delle Finanze. In caso di pagamento contestuale alla violazione non si procede al sequestro.
- Se invece mi dichiaro debitore verso l’Erario di IVA superiore a 250.000 euro o di ritenute superiori a 150.000 euro in ragione di anno, commetto un reato[4] che non è temperato neppure dalle difficoltà in cui potrebbe trovarsi l’impresa. Con l’aggravante che se avessi versato l’IVA e le ritenute e poi fossi dichiarato fallito, potrei essere anche imputato di “bancarotta preferenziale” se non avessi pagato i dipendenti, posto quanto sancito dall’art.216 legge fallimentare: “È punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti…” e dall’art. 322 del nuovo codice della crisi d’impresa: “È punito con la reclusione da uno a cinque anni l’imprenditore in liquidazione giudiziale che, prima o durante la procedura, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti…”. Ovvio che nel caso sopra citato difetterebbe l’elemento intenzionale (… a scopo di favorire …) o, meglio, lo scopo di favorire me lo avrebbe fornito il legislatore.
Dopo le riflessioni, le azioni
Qualsiasi misura solleverà un coro di critiche, perché si toccheranno interessi economici rilevanti. Tutti aspiriamo alla libertà, ma dobbiamo riconoscere che oggi non siamo liberi: siamo prigionieri di un sistema burocratico ipertrofico, che pone alle imprese obblighi che forse solo le Pubbliche Amministrazioni potrebbero permettersi e di cui dovrebbero dotarsi (e non sempre lo fanno), e per di più fa correre seri rischi di compromissione della libertà personale a chi potrebbe non essere un evasore.
Prendiamo atto di questo e voltiamo pagina. Diamo fiducia a chi ha la responsabilità e il coraggio di condurre una attività economica, tranquillizzandolo che pagherà, anche con la restrizione della libertà personale, solo in caso di prova concreta della evasione, non in base a base di sospetti o a presunzioni. Restituiamo all’impianto contabile delle imprese la giusta dignità, che servirà a qualificare la professionalità di chi svolge questo lavoro e a proteggere le imprese. Chiediamo alla Pubblica Amministrazione di realizzare controlli finalizzati a porre un limite allo strapotere delle imprese più grandi, che utilizzano la leva finanziaria per risolvere i propri problemi a danno dei più piccoli, dando luogo ad una agonia che spesso le conduce al dissesto, momento in cui saranno sostituite da un altro disperato più disperato di loro che offre condizioni economiche o finanziarie ancora più vantaggiose.
Ma soprattutto anteponiamo agli interessi egoistici i principi di etica e di moralità che sono stati il fondamento della nostra Repubblica, oggi trascurati e barattati con uno scampolo di libertà (o, quanto meno, presunta tale) che ci fa apparire molto più simili al cane della favola di Fedro che non al lupo. Se non siamo disposti a rinunciare a qualcosa per un futuro migliore, non abbiamo futuro.
Note
- Fonte: Ministero delle finanze, dati relativi all’anno 2015 ↑
- Con i connessi rischi di scippi, rapine, e con perdite di tempo non indifferenti ↑
- Anche perché di induttivo gli accertamenti hanno sempre meno, e l’accertamento induttivo è utilizzato come una sanzione impropria ↑
- Ex artt. 10-bis e 10-ter Decreto legislativo 74/2000 ↑