L’indagine

Meta, frode fiscale in Italia? Che significa per il business dei dati



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La Guardia di Finanza accusa Meta di omissione fiscale per 4 miliardi di euro. Il caso ruota attorno al “baratto” dei dati utenti in cambio di servizi, con implicazioni sull’IVA e su modelli di business digitali

Pubblicato il 16 dic 2024

Micael Zeller

recuperohd.it, cultura-digitale.com



meta (1)

Si è conclusa l’inchiesta del Nucleo di Polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza di Milano su Meta Platforms Ireland Limited, la divisione irlandese della società che controlla i social network Facebook e Instagram.

Vi viene contestata l’omessa dichiarazione di quasi 4 miliardi di euro fra il 2015 e il 2021, con conseguente evasione di IVA per più di 887 milioni. Senza entrare in una valutazione giuridica del caso è interessante decifrare la logica che ha guidato l’inchiesta.

La contestazione a Meta

La comunicazione della Procura della Repubblica ai due rappresentanti legali di Meta costituisce un’iniziativa potenzialmente dirompente per le conseguenze penali previste, e ancor più per le immaginabili ripercussioni sul business dei social, in Italia e in Europa. La Guardia di Finanza ha appurato come Meta «acquisisca e gestisca, per scopi commerciali, dati, informazioni personali e interazioni sulle piattaforme di ciascun iscritto» per consentire gratis l’utilizzo «del proprio software e dei correlati servizi digitali». In tal modo instaura un “rapporto sinallagmatico”, una “operazione permutativa”, in pratica un baratto: il servizio del social network in cambio dei dati che l’utente, utilizzando il servizio, fornisce anche involontariamente su sé stesso, i propri interessi, preferenze, relazioni.

Dunque uno scambio di valori, che però non viene fatturato, sfugge al fisco, con conseguente evasione di IVA. Le piattaforme che offrono servizi nella UE devono designare un rappresentante locale in uno degli Stati membri in cui operano, quindi sui responsabili graverebbero conseguenze che in questo caso sono penali.

Un baratto “in nero” tutto da valutare

Certamente i dati barattati dagli utenti sono preziosi. Lo scandalo Cambridge Analytica mise in luce l’importanza dell’opaco mercato dei dati, con tutte le sue implicazioni. Ma come si configura il valore di questo scambio merce? Si tratterebbe di un valore che si concreta solo nel momento in cui Meta vende agli inserzionisti non i profili ma lo spazio pubblicitario ritagliato su segmenti sempre più precisi di potenziali acquirenti, con conseguenti click-through, conversioni etc. Senza questa segmentazione gli inserti degraderebbero a spazi pubblicitari più generici e, come dicevano i direttori di marketing del secolo scorso: “So bene che metà dei soldi che spendo in pubblicità sono buttati fuori dalla finestra, ma non so quale metà!”. In realtà, oggi, senza profilazione i post sponsorizzati dispersi su un pubblico, anziché mirati, varrebbero certo meno della metà.

Visto così, il valore dei dati dell’utente è il solo vero valore aggiunto alla pubblicità venduta da Meta, sul quale calcolare il 22% di imposta. Anzi, poiché le reciproche “cessioni” non possono compensarsi fiscalmente tra loro, un domani perfino tutti i frequentatori dei social potrebbero essere accusati di evasione.

Dunque lo scopo del “baratto in nero” è solo di ottenere informazioni che permettono ai social network di somministrare all’utente una pubblicità più personalizzata? Ma questa può essere vista anche come un vantaggio per l’utente stesso: tutti sanno quanto risulti fastidiosa la pubblicità di generi che non sono di nostro interesse. Per contro, se mi soffermo a leggere o a guardare, se clicco, vuol dire che sono effettivamente interessato. Allora perché penalizzare il mezzo che attua una personalizzazione suscettibile di migliorare l’esperienza di navigazione?

Sarà interessante scoprire la linea di difesa del colosso americano. Finora risulta che abbia obiettato che non vi sarebbe un nesso diretto tra i dati forniti dagli utenti e l’accesso alle piattaforme; tesi che non sembra a prima vista un’arma vincente.

Le possibili conseguenze

Di certo un’accusa di questo genere è un’assoluta novità. Se fosse confermata da una sentenza aprirebbe la previsione distopica in cui anche solo mettere un like in un social comporterebbe di approvare la cessione di un importo virtuale (tutto da definire) e ricevere a compensazione il documento di vendita della piattaforma con corrispondenti versamenti di IVA salvo detrazioni… Difficile immaginare un tale terremoto in un mondo in cui in pochi anni i social sono diventati per molti un compagno costante, e che in Europa incassano più di 25 miliardi annui di pubblicità.

Non solo, ma lo sconvolgimento si allargherebbe anche alle AI, perché ogni utilizzo di una AI generativa gratuita come ChatGPT comporta l’immissione di un prompt o altri dati dell’utente, e questi vanno in qualche modo ad alimentare la sua base di addestramento. E’ noto che nei data base sfruttati dalle AI nessuno riesce a individuare esattamente l’origine di questo o quel materiale, figuriamoci come si potrebbe quantificarlo.

Infine, anche solo pensando alla semplice navigazione web, dovremmo dedurre che ogni volta che un utente accetta i cookies di profilazione approva un nuova “operazione permutativa”, soggetta a tassazione? O daremo l’addio ai cookies, e con essi alla maggioranza di giornali on line, servizi meteo e altri siti che campano di pubblicità, per non parlare dei servizi gratuiti a partire da quelli di Google?

Il quadro globale

C’è un non detto in tutto questo? Sicuramente. Innanzitutto il valore dei dati di profilazione va al di là del loro immediato utilizzo nella pubblicità, giacché è difficile tenere sotto controllo il loro ulteriore destino e uso. Questo può essere commerciale o politico, come nelle campagne orchestrate per esempio per creare un’atmosfera di scontento, o per orientare gli elettori. Basti pensare al caso dell’annullamento delle lezioni presidenziali in Romania di fine novembre per eccessive interferenze russe, con la sua implicita ammissione che le opinioni pubbliche degli Stati membri sono in balia dei social network, dei motori di ricerca e di chi li governa.

Inoltre, l’iniziativa della Procura si inserisce inevitabilmente nella fondamentale battaglia tra legislatore europeo e Big Tech: non siamo assolutamente preparati a contenere il potere conferito dal controllo dei social, oramai primario in pace e in guerra. Tanto meno siamo preparati a fare concorrenza a GAFAM e Big Data. In una sfida di un Davide europeo a un Golia americano, è verosimile che il gigante possa essere arrestato, come Al Capone, per evasione fiscale?

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