approfondimento

Meta, perché il fisco italiano l’accusa di aver evaso 887 milioni di euro



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Analizziamo dal punto di vista normativo e tributario i motivi delle accuse mosse a Meta dalle autorità italiane riguardo la presunta evasione al Fisco italiano da 887 milioni di euro

Pubblicato il 2 apr 2025

Salvatore De Benedictis

dottore commercialista



cybersicurezza in sanità Meta fisco italiano

Le autorità italiane contestano a Meta e ad altre società che gestiscono piattaforme social l’omessa dichiarazione al Fisco italiano di imponibili per quasi 4 miliardi di euro tra il 2015 e il 2021, con una presunta evasione dell’IVA (Imposta sul Valore Aggiunto in inglese VAT) pari a oltre 887 milioni di euro. L’accusa si basa sull’interpretazione secondo cui l’accesso gratuito alle piattaforme come Facebook e Instagram, in cambio dei dati personali degli utenti, costituisce una forma di permuta soggetta a tassazione IVA.


Meta e il Fisco italiano, il pregresso

Negli ultimi anni, Meta Platforms Inc. (precedentemente Facebook Inc.) è stata oggetto di svariate indagini tendenti ad accertare – tra l’altro – la natura della prestazione, erogata sotto forma di accesso ai social, in cambio dell’utilizzo dei dati degli utenti.

Le prime indagini sono state svolte al fine di accertare se l’utilizzo dei dati ottenuti come “merce di scambio” dei servizi erogati avvenisse sulla base di un’informativa privacy non trasparente e inadeguata nel rapporto con gli utenti, e se fosse lesivo del loro diritto a decisioni informate e strumenti di tutela efficaci.

Cosa dice il Garante della concorrenza italiano

Nel procedimento avviato il 28 Aprile 2023 e conclusosi con la delibera del 21 Maggio 2024, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha contestato a Meta Platforms Inc. e a Meta Platforms Ireland Ltd. l’esercizio di due “pratiche” scorrette. La prima, nei confronti degli utenti della piattaforma Instagram, per “non informare adeguatamente e immediatamente, cioè in fase di attivazione e prima registrazione dell’account Instagram, dell’attività di raccolta e utilizzo, per finalità commerciali, dei dati dell’utente, così da indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso (registrazione nella piattaforma Instagram per usufruire dell’omonimo servizio di social network)”; la seconda, nei confronti degli utenti già registrati alle piattaforme Facebook e Instagram, è per omettere di fornire ai singoli utenti

  • esaustiva motivazione sulla interruzione del servizio di social network di Facebook ed Instagram, limitando il contraddittorio sulle relative cause;
  • adeguata e piena assistenza per recuperare gli account cui gli utenti non riescano più ad accedere.

La base da cui si è mossa AGCM è che “il patrimonio informativo costituito dai dati degli utenti e la profilazione degli utenti medesimi a uso commerciale e per finalità di marketing (…) acquista proprio in ragione di tale uso, un valore economico idoneo (…) a configurare l’esistenza di un rapporto di consumo tra il Professionista e l’utente”[1] e che “i dati personali, le preferenze dei consumatori e altri contenuti generati dagli utenti hanno un valore economico de facto”[2]. Infatti, l’oggetto di indagine era rivolto ad accertare la chiarezza, immediatezza e completezza dell’informazione circa lo sfruttamento di tali dati ai fini commerciali nell’ambito di un “rapporto di consumo”. Tale rapporto – secondo AGCM – “si configura anche in assenza di un esborso monetario. Ciò in quanto, ad oggi, al patrimonio informativo costituito dai dati degli utenti è riconosciuto un valore economico”. Prosegue AGCM che “l’utente che rende disponibili i propri dati al fine di poter utilizzare gratuitamente i servizi offerti da IG “si trasforma tecnicamente in consumatore”: in quanto tale, egli ha diritto a che le relative pratiche commerciali siano poste in essere secondo i principi di buona fede, correttezza e lealtà”.

L’indagine di AGCM si è conclusa con la deliberazione secondo cui le pratiche commerciali di META sono scorrette, per cui ne è stata vietata la reiterazione e sono state comminate sanzioni amministrative pecuniarie per 3,5 milioni di Euro.

Il caso giudiziario in UK

Nel dicembre 2024, la Procura di Milano ha notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari nei confronti dei rappresentanti legali di Meta Platforms Ireland Limited, evidenziando la mancata presentazione delle dichiarazioni IVA per il periodo in questione.

Nel Regno Unito Meta ha risolto una causa legale storica, accettando di smettere di inviare pubblicità personalizzate. La causa è stata intentata da Tanya O’Carroll evidenziando l’importanza crescente di gestire la propria identità digitale e conoscere i propri diritti in materia di protezione dei dati; in particolare, META è stata accusata di aver violato le leggi britanniche sulla protezione dei dati non rispettando il suo diritto di opporsi alla raccolta e al trattamento dei suoi dati per fini pubblicitari.

L’Information Commissioner’s Office (l’autorità britannica per la protezione dei dati) ha supportato la posizione di Tanya O’Carrol, sottolineando che ogni individuo ha il diritto di opporsi all’uso dei propri dati personali per marketing diretto. Non si tratta solo di una vittoria per Tanya, ma di una vittoria per tutti gli utenti dei social nel Regno Unito — e potenzialmente anche a livello globale. Meta ha accettato di non usare i dati di O’Carroll per la pubblicità personalizzata, aprendo la strada ad altri utenti che vogliono esercitare lo stesso diritto.

Il riflesso tributario delle accuse mosse a META

L’importanza del caso non è sfuggita all’Agenzia delle Entrate, che ha avviato una indagine tesa, appunto, a verificare la esistenza di violazioni in materia di IVA. Un importante elemento – ad avviso dello scrivente- è stato fornito dalla stessa META, che nei format di adesione al servizio aveva palesemente (e forse anche senza una adeguata ponderazione giuridica) pubblicato il seguente format:

In particolare, l’affermazione di META “noi finanziamo i nostri servizi usando i tuoi dati personali” sembra dimostrare il sinallagma, la controprestazione, che hanno indotto l’Amministrazione Finanziaria Italiana a disporre indagini da parte della Guardia di Finanza e dell’Agenzia delle Entrate, focalizzate principalmente sul trattamento fiscale relativo all’uso dei dati personali degli utenti.

Nel marzo 2025, l’Agenzia delle Entrate ha formalizzato la richiesta di pagamento dell’IVA non versata, notificando a Meta un avviso di accertamento[3] per 887,6 milioni di euro per gli anni 2015-2016. Analoghe richieste sono state avanzate nei confronti di altre piattaforme, come X (ex Twitter) e LinkedIn, per importi rispettivamente di 12,5 milioni di euro e circa 140 milioni di euro.

Meta e i problemi col Fisco italiano, l’inquadramento normativo

La fattispecie (probabilmente) configurata dalla Agenzia delle Entrate è la esistenza di una prestazione di servizi (l’accesso ai servizi social) a fronte della quale il corrispettivo sia stato corrisposto “in natura” con la messa a disposizione da parte di ciascun utente dei suoi dati personali, che costituiscono un patrimonio commercialmente importante per i colossi della comunicazione e del commercio on line.

Cosa prevede la normativa UE (direttiva 2006/112/CE)

Col working paper del 30/10/2018, n. 958[4] , avente per oggetto l’analisi delle “Condizioni per l’esistenza di un’operazione imponibile quando i servizi Internet sono forniti in cambio dei dati degli utenti”, la Commissione Europea, si è pronunciata sulla portata interpretativa dell’articolo 2, comma 1, lettera c)[5] della direttiva UE nei termini che seguono.

L’articolo 73 della Direttiva IVA stabilisce che la base imponibile comprende tutto ciò che costituisce corrispettivo ottenuto o da ottenere dal fornitore, in cambio della prestazione, da parte del cliente o di un terzo. Secondo la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE), tale corrispettivo rappresenta un valore soggettivo, cioè il valore effettivamente ricevuto, e non un valore stimato secondo criteri oggettivi. Inoltre, il corrispettivo deve poter essere espresso in termini monetari.

La pronuncia della Corte di Giustizia UE

La CGUE ha inoltre chiarito che:

“Quando tale valore non è una somma di denaro concordata tra le parti, esso deve, per essere soggettivo, corrispondere al valore che il destinatario dei servizi, che costituiscono il corrispettivo per la cessione di beni, attribuisce ai servizi che desidera ottenere e deve corrispondere all’importo che è disposto a spendere a tal fine. Quando, come nel caso in questione, è coinvolta la cessione di beni, tale valore può essere solamente il prezzo pagato dal fornitore per l’articolo ceduto gratuitamente in cambio dei servizi in oggetto” (Sentenza del 19 dicembre 2012, Orfey Balgaria, C-549/11, par. 44). In base a ciò, la base imponibile corrisponderebbe al valore che il fornitore del servizio informatico attribuisce ai dati ricevuti, e questo valore deve riflettere l’importo che il fornitore è disposto a spendere per ottenere tali dati. Nel caso specifico, ciò equivale al costo di fornitura del servizio gratuitamente all’utente. Pertanto, il fornitore del servizio informatico dovrebbe determinare il costo della prestazione resa a ciascun utente, e tale importo costituirebbe la base imponibile.

In relazione alle superiori premesse, la CGEU ha concluso affermando che quando un individuo desidera utilizzare un servizio informatico offerto senza corrispettivo monetario, è tenuto ad accettare i termini e condizioni del fornitore, che includono il consenso all’utilizzo dei propri dati personali. Tale consenso rientra nell’ambito della gestione della proprietà privata dell’individuo. L’utente non ha l’intenzione di esercitare un’attività economica, né impiega mezzi che ne siano tipici. Per questo motivo, la cessione di dati personali da parte dell’utente, in cambio dell’uso di un servizio informatico gratuito, non costituisce un’attività economica, e non si configura come una prestazione di servizi imponibile ai fini IVA.

Con tutto il rispetto per l’autorità emanante, tale conclusione non pare centri il problema dell’assoggettamento ad IVA dell’operazione, posto che il focus non è stabilire se l’utente abbia o meno intenzione di “esercitare un’attività economica”, ma se a fronte del servizio ricevuto sia stato pagato un corrispettivo (in questo caso la disponibilità dei dati), ferme restando tutte le difficoltà connesse alla individuazione di una base imponibile.

Cosa prevede la normativa Italiana (DPR 633/1972)

L’articolo 7-sexies, comma 1, lettera f, del DPR 633/1972 prevede che si considerano effettuate nel territorio dello Stato se rese a committenti non soggetti passivi le prestazioni di servizi rese tramite mezzi elettronici, quando il committente è domiciliato nel territorio dello Stato o ivi residente senza domicilio all’estero. Quindi nel caso di prestazioni effettuate nei confronti di privati consumatori italiani, la territorialità dell’IVA ricadrebbe sul territorio italiano.

Il nodo della determinazione della base imponibile

Per quanto riguarda la determinazione della base imponibile

  • l’articolo 13 del DPR 633/1972 prevede che la base imponibile delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi é costituita dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore
  • l’articolo 11 del DPR 633/1972 che per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate in corrispettivo di altre cessioni di beni o prestazioni di servizi, la base imponibile sia costituita dal “valore normale”[6] dei beni e dei servizi che formano oggetto di ciascuna di esse.

Quindi sembrerebbe che la questione si sposti sul piano del quantum, ossia delle spese sostenute dal soggetto passivo per l’esecuzione dei servizi, non dell’an.

Ci troviamo quindi di fronte ad un dilemma. La normativa Italiana è difforme da quella Europea o no? E se è difforme, è legittima, vista la prevalenza gerarchica della direttiva Europea su quella Italiana ?

Penso che in questo caso non vi sia difformità normativa, e, in ogni caso, ove ci fosse, ci sarebbe da considerare che l’articolo 26, comma 2, della Direttiva 2006/112/CE, che disciplina le prestazioni di servizi a titolo non oneroso, prevede che “Gli Stati membri possono derogare alle disposizioni del paragrafo 1[7] a condizione che tale deroga non dia luogo a distorsioni della concorrenza”. Il cuore del problema sta molto probabilmente nella individuazione della corretta base imponibile, e ritengo che questo sia un aspetto rilevante per cui META e le altre società interessate potrebbero – in caso di accettazione del merito dei rilevi – concordare una adesione.

Cosa aspettarci

La questione è molto complessa sia perché coinvolge aspetti interpretativi di non immediata soluzione, sia perché le società interessate potrebbero eccepire non solo la loro perfetta buona fede[8], ma anche la correttezza del loro operato, avallato anche dal citato orientamento espresso col Working paper 958/2018.

C’è da considerare che in caso di accertamento IVA, l’articolo 60 del DPR 633/1972 (Pagamento delle imposte accertate) prevede che “Il contribuente ha diritto di rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta relativa ad avvisi di accertamento o rettifica nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi soltanto a seguito del pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, delle sanzioni e degli interessi. In tal caso, il cessionario o il committente può esercitare il diritto alla detrazione, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui ha corrisposto l’imposta o la maggiore imposta addebitata in via di rivalsa ed alle condizioni esistenti al momento di effettuazione della originaria operazione”. Tuttavia, mentre nel caso di operazioni effettuate nei confronti di soggetti passivi il recupero dell’imposta sarebbe neutro per il cessionario, che da un lato pagherebbe la maggiore IVA e dall’altro beneficerebbe della detrazione, nel caso di operazioni con una molteplicità di utenti privati, di cui tra l’altro le società coinvolte potrebbero non essere neppure in possesso delle generalità, la rivalsa dell’IVA sarebbe ovviamente impossibile.

Se dovessi azzardare un pronostico, ritengo che la questione ha tutte le caratteristiche per essere definita in adesione, considerando tuttavia che una ammissione anche parziale di colpa potrebbe indurre gli altri paesi europei, tenendo conto dei termini di decadenza, a cogliere al volo l’occasione per insinuarsi nel “dibattito”.

Note


[1] Tar Lazio, 10 gennaio 2020, nn. 260, 261, PS11112 – Facebook, poi confermata da Consiglio di Stato. La pronuncia è poi ripresa nei medesimi termini da Tar Lazio, 18 novembre 2022, n. 15326, PS11147 – Google.

[2] Commissione europea, “Orientamenti per l’attuazione/applicazione della Direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali”, SWD (2016) /0163, pag. 28.

[3] La stampa specializzata parla di avviso di accertamento, ma potrebbe anche trattarsi dello “schema d’atto” previsto dall’articolo 6-bis del decreto legislativo 212/2000, propedeutico alla fase del contraddittorio che deve precedere l’emissione dell’atto definitivo.

[4] Emesso dalla EUROPEAN COMMISSION DIRECTORATE-GENERAL TAXATION AND CUSTOMS UNION

[5] le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale.

[6] Per valore normale si intende l’intero importo che il cessionario o il committente, al medesimo stadio di commercializzazione di quello in cui avviene la cessione di beni o la prestazione di servizi, dovrebbe pagare, in condizioni di libera concorrenza, ad un cedente o prestatore indipendente per ottenere i beni o servizi in questione nel tempo e nel luogo di tale cessione o prestazione.

Qualora non siano accertabili cessioni di beni o prestazioni di servizi analoghe, per valore normale si intende:
…….

b) per le prestazioni di servizi, le spese sostenute dal soggetto passivo per l’esecuzione dei servizi medesimi.

[7] Sono assimilate a prestazioni di servizi a titolo oneroso le operazioni seguenti:

a) l’utilizzazione di un bene destinato all’impresa per l’uso privato del soggetto passivo o per l’uso del suo personale o, più generalmente, per fini estranei alla sua impresa, qualora detto bene abbia dato diritto ad una detrazione totale o parziale dell’IVA;

b) la prestazione di servizi a titolo gratuito effettuata dal soggetto passivo per il proprio uso privato o per l’uso del suo personale o, più generalmente, per fini estranei alla sua impresa.

[8] E ciò potrebbe avere particolare rilevanza in sede penale, vista la rilevanza degli importi in questione

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