Meno sacrifici per il triennio 2022-2024, grazie alla ripresa del 2021, ma nessuna buona notizia per i professionisti. Mai una Nadef è stata così tanto attesa: di solito, la Nota aggiuntiva al documento di economia e finanza non costituisce un evento particolarmente interessante, perché serve soltanto a perfezionare sensibilmente gli obiettivi di governo già approvati (in questo caso, ad aprile) con il Documento di economia e finanza, il quale di anno in anno stabilisce il quadro programmatico tendenziale e triennale nel quale si muove la politica economica nazionale.
Riguardo però al mondo delle professioni, questo non trae soddisfazioni dalla nuova Nadef. Poco (quasi nulla) se ne parla e, forse, l’aspetto di maggior importanza è rappresentato dai richiami a quella riforma fiscale che dovrebbe affacciarsi a breve con l’approvazione di un decreto dedicato.
Nadef e professionisti, gli interventi attesi
Nello specifico, non si è ancora chiusa la partita sul superamento dell’IRAP, con l’abolizione dell’imposta per gli autonomi esclusi dall’IRES. Un provvedimento che interesserebbe soprattutto il nostro mondo che è fatto più di professionisti che operano come piccoli imprenditori, partita iva come autonomi, piccole organizzazioni in ogni caso. Anche se la bozza della Legge di Bilancio 2022 conferma come l’orientamento del governo continui a privilegiare, nell’ambito di una manovra di circa 23 miliardi, dei quali 8 finalizzati al taglio delle tasse, la riduzione delle tasse sul lavoro dipendente (il cosiddetto “cuneo fiscale”) e la riforma dell’imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF).
Sembra si fatichi a comprendere che il mondo delle professioni a prescindere da come queste siano organizzate è una delle realtà fondamentali su cui si regge il paese. Le professioni sono un asset strategico dell’economica nazionale, ma malgrado i tentativi, non si riesce ad abbattere il muro della indifferenza che il legislatore, troppo spesso, ha nei confronti di questi milioni di persone, organizzazioni, lavoratori, Pil.
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Liberi professionisti in Italia, i dati
L’Italia con il suo milione e oltre di addetti è fra i paesi Europei a maggiore presenza delle libere professioni, equivalente a circa il 20% dell’intera distribuzione europea. Nel nostro caso, quelle rappresentate dall’inquadramento giuridico della Legge 4/2013 sono rappresentante da oltre 300mila professionisti. Peraltro l’Italia supera il muro del milione già a partire dal 2012, mentre negli anni precedenti, fra il 2009 e il 2011. Solo nel nostro settore sono oltre diecimila le imprese che operano sul territorio nazionale e occupano migliaia di persone.
È perciò sconcertante che con numeri di questa portata non vi sia una chiara strategia di valorizzazione e sostegno dei professionisti o imprese che operano in questo ecosistema complesso. Già i cosiddetti Decreti Sostegni dell’emergenza pandemica, approvati dal governo Conte II, non erano sufficientemente all’altezza delle legittime aspettative di questo mondo, pensiamo ai famosi 600 euro, poi mille, che non sono stati assegnati ad esempio agli amministratori di piccole organizzazioni. Una vera discriminazione, ma tant’è.
Le priorità per i professionisti
Ora, con il governo Draghi, l’attenzione destinata sul fronte fiscale all’IRAP non è la stessa riservata al lavoro dipendente e all’IRPEF. La ripresa del paese passa anche dal lavoro di tanti professionisti e partite IVA e micro imprese/studi, impegnati non solo nelle realtà produttive ma anche in tutte quelle attività accessorie, come i procedimenti amministrativi, come nel nostro caso, necessari a dare gambe ai diversi progetti in cui si articolerà lo sviluppo del prossimo futuro, a partire dalle linee di intervento previsti dal Recovery Plan. Per questo, riteniamo indispensabile che nei prossimi mesi il governo si prodighi anche a favore di un mondo che apparentemente può sembrare invisibile, ma che per dare il suo indispensabile contributo necessita di un’attenzione maggiore di quella che gli è stata riservata finora. Tra l’altro siamo sicuri che in molte occasioni non è cattiva volontà quella del legislatore, ma solo mancata conoscenza di un fenomeno, più importante e presente di quanto si pensi.
Lo scenario della ripresa
L’Italia ha realizzato una crescita significativamente superiore alle attese. Un dato importante, che però non deve indurre facili ottimismi, poiché se si guardano le ultime stime Ocse si comprende chiaramente come in un mondo in cui i paesi industrializzati rispetto al PIL pre-Covid 2019 a fine 2022 saranno cresciuti mediamente del 6,8%, con gli Stati Uniti a farla da padrone con +6,5% e l’Unione Europea complessivamente attestata a +3,4%, l’Italia – nonostante la buona performance di questi mesi – non dovrebbe superare l’1,1%. Del resto, il nostro paese prima dell’emergenza pandemica non era ancora riuscito a recuperare i valori pre crisi economica del 2008, e persiste una grande difficoltà nella crescita occupazionale, aggravata dalla crisi Covid.
In questo quadro, che può ragionevolmente indurre a un moderato (e consapevole) ottimismo, occorre anzitutto ricordare che il nostro paese, già con il Documento di Economia e Finanza (DEF) approvato dal governo Draghi il 15 aprile scorso, si era impegnato con Bruxelles a perseguire una politica economica fortemente restrittiva che avrebbe dovuto condurci a breve, ossia entro la fine del 2022, a dimezzare il rapporto stimato fra deficit e PIL, portandolo dalla previsione dell’11,8% dell’aprile scorso (quando ancora eravamo in preda alla seconda ondata della pandemia) al 5,9% atteso per la fine del prossimo anno. Un vero e proprio salasso di 120 miliardi (equivalenti a minori spese o maggiori entrate fiscali) per cittadini e imprese, che grazie al cielo ci verrà risparmiato per la forte crescita, quasi del tutto insperata, di questi ultimi mesi. Un risultato dovuto alla straordinaria determinazione e voglia di rinascere messa in campo dal nostro paese (in tutti gli ambiti, a cominciare dalle competizioni sportive che tante soddisfazioni ci hanno dato in questi ultimi mesi). Condizione ci ha permesso di conquistare un immediato miglioramento nei conti pubblici, rispetto al quale la Nadef indica chiaramente in che modo verrà capitalizzato.
L’impatto della campagna vaccinale
Anzitutto, occorre dire che il differenziale positivo di un punto percentuale rispetto alla crescita attesa (si prevedeva fosse del 4,5% invece è del 6%) ha avuto come conseguenza diretta una sensibile riduzione del rapporto fra debito e PIL, che entro la fine dell’anno dovrebbe attestarsi al 153,5%, ossia sei punti percentuali in meno della previsione contenuta nel DEF di aprile. In secondo luogo, e qui interviene la decisione politica del governo, il vantaggio che in questo modo si configura a seguito delle minori spese sostenute nell’ultimo semestre, una mano l’hanno data anche i primi fondi del Recovery Fund sui quali però sarebbe opportuno non assestarsi totalmente, dovremmo riuscire nel futuro a resistere con le nostre forze e abbiamo caratteristiche tali che lo consentono. In gran parte poi grazie agli effetti positivi della campagna vaccinale, non verranno sfruttati per finanziare ulteriori investimenti finalizzati a sostenere la crescita, ma bensì per anticipare già a quest’anno i sacrifici previsti per il 2022. In questo modo, quindi, il miglioramento dei conti pubblici degli ultimi mesi andrà a finanziare la riduzione del deficit e del debito, invece di potenziare ulteriormente la ripresa.
Stiamo attenti a un fatto: se l’evoluzione dell’emergenza sanitaria fosse andata diversamente questo risparmio sui conti pubblici non si sarebbe verificato. Avremmo assistito a ulteriori uscite, vuoi per i sostegni alle attività produttive vuoi per puntellare l’offerta sanitaria. Perciò esso può in buona sostanza considerarsi come una mancata spesa, che a fronte della straordinaria esposizione che contraddistingue il paese dal punto di vista del debito pubblico, viene utilizzata per rendere meno pesante la situazione debitoria esistente. Dal punto di vista dei numeri, nella NADEF la stima dell’indebitamento atteso viene perciò ridotta, attestandosi al 9,4% rispetto alla previsione di aprile dell’11,8%. Di ciò, ovviamente, ha risentito anche la previsione di crescita, che per il 2022 a questo punto è stata stimata pari all’incirca al 3,8%, un punto percentuale in meno di quanto si diceva nel DEF.
L’analisi della situazione
Rispetto a questa strategia del governo, ci sono almeno due osservazioni importanti da fare: una positiva e una negativa. Quella positiva riguarda il fatto che la scelta di impegnare il risparmio di spesa nella riduzione del livello di indebitamento potrà essere il miglior viatico per un recupero di credibilità del paese a Bruxelles, che in questa occasione non dovrà fare affidamento esclusivamente sulla reputazione personale del Premier che seppur forte non può e non deve durare in eterno. Un Paese che ha bisogno di basare la propria credibilità su una o più persone è un Paese debole e su questo la politica ci ha abituato a scarsa credibilità negli ultimi decenni. Credibilità a cui concorre l’intera società di un Paese e su questo tutti abbiamo da fare un mea culpa.
Quella negativa concerne il fatto che diversamente il governo avrebbe potuto comunque confermare il rapporto fra deficit e PIL all’11,8% (secondo la stima DEF) e giocarsi la carta di una politica di minor rigore, magari anche rispetto all’impegno di rientrare nei limiti del 3% entro il 2024 (sarebbe stato certamente più realistico e meno oneroso un 4-5%), a fronte di un maggior potenziale di crescita che in questo momento l’Italia può vantare al confronto di altri stati membri UE. Si trattava di una scelta fra due opzioni strategiche parimenti plausibili e fra le due ha prevalso il rigore. Forse avrebbe potuto prevalere il coraggio, lo stesso che ha mostrato il nostro paese nei mesi dell’emergenza sanitaria e nella prima fase di ripresa dopo la seconda ondata. Forse il governo avrebbe potuto fare più premio sul fatto che in questo momento la crescita italiana, con il suo 2,7% (dato dell’ultimo trimestre), si distingue per essere fra le più alte in Europa, insieme alla Spagna (2,8%), con una media continentale che si ferma rispettivamente al 2,2% nell’area Euro e al 2,1% nell’UE. Un dato che può apparire eccezionale ma che abbiamo potenzialità che dovrebbero spingerci ad agire per rendere strutturali tali numeri.