Molto si è scritto su ciò che il PNRR avrebbe dovuto fare e molto si scriverà ancora. Come noto, i sogni superano sempre la realtà e spesso ci piace ignorare i vincoli, le forzature necessarie, i compromessi inevitabili che ogni squadra di governo deve affrontare nel redigere proposte organiche. La mia riflessione prova ad affrontare il tema da un differente angolatura, spero utile. Vuole cioè partire dai punti di vista sull’origine del problema del digitale in Italia, sulle cause dell’arretratezza della cultura digitale delle imprese che sembra quasi consustanziale al tessuto produttivo del nostro Paese e che impedisce il loro rafforzamento competitivo. Due i grandi problemi: connettività non all’altezza delle necessità e mancanza di alfabetizzazione digitale.
Le ipotesi dietro il PNRR
Quali sono le ipotesi implicite dietro la formulazione del PNRR? Quali sono le ricette considerate vincenti per rilanciare il digitale in Italia – soprattutto fra le piccole e medie imprese? I policy maker – e il mondo dei fornitori ICT che ne ha sempre orientato la propositività – non hanno mai avuto dubbi sul cosa fare. Il dibattito si è sempre sviluppato sul come farlo, sui problemi attuativi che ne hanno ostacolato la piena articolazione.
Il cuore dell’argomentazione è il seguente. Il digitale è sempre una straordinaria opportunità – ovunque si applichi – ma la sua piena diffusione è ostacolata da due grandi fattori. Innanzitutto la connettività che non è mai all’altezza del compito richiesto. In secondo luogo la comprensione del digitale da parte delle imprese è largamente insoddisfacente e richiede iniziative massive di “alfabetizzazione digitale”, di addestramento di base alla tecnologia. Infine una diffusa scarsa volontà – che spesso si trasforma in mancanza di coraggio – di intraprendere percorsi di innovazione.
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Alcuni bias cognitivi
Questa interpretazione della realtà poggia e viene alimentata da alcune bias cognitive che ci restituiscono una realtà parziale e che – per la loro parzialità – possono compromettere l’efficacia delle azioni di Governo.
Innanzitutto si tende a privilegiare quegli interventi che sono più facili da cantierare e da monitorare – come per esempio la copertura di connettività. “Non tutto ciò che conta può essere contato” amava dire Albert Einstein e l’errore di privilegiare il “contabile”, il facilmente misurabile rispetto al veramente necessario si è già visto nella formazione, dove il focus sulle hard competence, sull’ossessione della misurazione dell’impatto degli interventi formativi ha nei fatti trascurato le soft skills, difficili da maneggiare ma sempre più importanti.
In secondo luogo il seguire pedissequamente, senza un sano scetticismo, le indicazione degli esperti – nei fatti i fornitori di soluzioni ICT – non sempre scevri da conflitti di interessi. Questo continuo inseguimento dell’ultima versione – che rende spietatamente obsolete tutto ciò che è semplicemente precedente – sta creando notevoli problemi di adozione. Vi sono aziende che utilizzano applicazioni avanzate e non posseggono nemmeno un controllo di gestione; oppure aziende che cercano nuovi clienti sulla rete senza neanche valorizzare quelli che già possiedono e dove basterebbe un “banale” CRM.
Infine il puntare a tutti i costi alla trasformazione digitale delle imprese senza verificare che vi siano in essere le condizioni perché ciò accada. Mentre il miglioramento procedurale o l’automazione di processi noti è un’attività perimetrabile e delegabile agli “esperti”, la trasformazione digitale no. L’imprenditore deve comprendere le implicazioni trasformative per il proprio business, i propri clienti e il proprio modus operandi; e non sempre la sua azienda, i suoi clienti, i suoi fornitori sono pronti a trasformazioni profonde e da cui è difficile tornare indietro.
Il caso di Italia a 1 Giga
Il riflesso di queste ipotesi progettuali è evidente nelle proposte governative. Prendiamo una misura importante: “Italia a 1 Giga”. Come noto l’obiettivo è di fornire 1 Gbit/s in download e 200 Mbit/s in upload in aree di mercato NGA grigie e nere a circa 8,5 milioni di famiglie, includendo anche 450.000 famiglie che abitano case sparse (a fallimento di mercato). Siamo sicuri che le imprese abbiano bisogno di questa connettività per essere competitive? Siamo sicuri che non vi siano altre cose da fare prima? E come mai dove già c’è una buona connettività, moltissime piccole e medie imprese continuano a non usarla? Non è che l’ossessione per la larga banda non dipenda, in ultima istanza, dall’esigenza dei Telco di diventare content provider televisivi – applicazione che effettivamente richiede larga banda – per contrastare la compressione dei loro margini?
Attenzione inadeguata alla rivoluzione dei dati
C’è inoltre un aspetto della rivoluzione digitale che non sta avendo il giusto peso: la rivoluzione dati. I dati – di business, di mercato, di reputation – sono fondamentali, soprattutto in una società che si trasforma in profondità; e il tesoro dei dati non deve essere il retaggio esclusivo delle grandi aziende. Chiunque ne ha bisogno.
Per dare corpo alla rivoluzione dei dati servono piattaforme che aggreghino, correlino e visualizzino dati, formazione sulla cultura del dato e la mentalità indiziaria e delle chiare policy sull’accesso ai dati pubblici e sulla privacy che aiuti le imprese alla necessaria comprensione del mercato senza cadere nei rischi – sempre in agguato – di violazioni legate all’accesso di dati sensibili.
La priorità per le piccole imprese
Credo in particolare che la priorità – prima delle infrastrutture – sia la crescita della cultura digitale e imprenditoriale delle piccole imprese. È chiaro che senza tecnologie e infrastrutture non si può far nulla, ma per comprendere le potenzialità del digitale è sufficiente anche una connettività “normale” e le applicazioni già in commercio da molto tempo. Non servono gli effetti “wow”, non serve l’ultima novità di grido. Talvolta “l’attesa” della nuova versione che promette di fare cose meravigliose diventa più un inibitore al cambiamento e un alibi al non fare – una sorta di versione tecnologica di “Aspettando Godot” –che non una concreta opzione di innovazione radicale. Anche perché il padroneggiare una applicazione digitale necessita di tempo e pratica e richiede soprattutto di sottrarsi dal flusso dell’innovazione continua.
Oltretutto, con le attuali tecnologie, si possono fare cose straordinarie; basta vedere il business di Amazon, di Google, di facebook. Il loro successo non dipende dalla connettività stellare ma richiede una profonda conoscenza del digitale, dei suoi meccanismi trasformativi, delle sue potenzialità e delle sue fragilità. Anche perché se si vogliono raggiungere il maggior numero di utenti digitali ci si deve confrontare con i meno esperti, i meno equipaggiati. E per costruire un sito di eCommerce di successo o un CRM che valorizza con efficacia il parco clienti esistente, la iper-connettività e le soluzioni 4.0 non sono vitali.
Perché adottare un approccio di sano scetticismo
Va dunque contrastata la fiducia cieca nell’innovazione tecnologia a qualsiasi costo. Negli ultimi anni stanno infatti emergendo con sempre maggiore evidenza i costi (spesso nascosti) dell’innovazione – i lati oscuri del digitale. La casistica è ampia e in crescita: si va dai consumi energetici stratosferici del sistema blockchain e, più in generale, la carbon footprint del digitale ai problemi cognitivi creati dai motori di ricerca e dal diluvio elle eMail, dalla pandemia delle fake news alla sempre minore trasparenza degli algoritmi AI-based, dai sempre più complessi impatti occupazionali alla deflagrazione della cyber-security … e la lista potrebbe continuare.
Nonostante la loro rilevanza queste dimensioni problematiche sono sistematicamente ignorate nel conto economico della digitalizzazione. E allora il pensiero critico, quello che Jack Welch – il leggendario CEO della General Electric chiamava il sano scetticismo – deve svilupparsi anche nelle decisioni sul digitale, siano essere aziendali o pubbliche. La fiducia cieca nel progresso tecnologico rischia di trasformarsi in fondamentalismo digitale e drenare tutte le risorse disponibili non solo finanziare ma anche che progettuali.
L’importanza dell’educazione al digitale
Bisogna allora puntare con maggiore forza ed efficacia sull’educazione al digitale – non solo sulla formazione ma anche sul supporto sul campo per facilitare la trasformazione digitale soprattutto delle aziende meno esperte in materia. Ma la cultura digitale non si sviluppa con l’elearning e con TED, servono la co-progettazione, serve la mentorship, serve che i formatori di piattaforme e soluzioni non conoscano solo il digitale, ma anche il business, la comunicazione, la psicologia, il pensiero critico. Sono proprio le soft skills le competenze più importanti e più carenti oggi, soprattutto nell’ambito del digitale. Senza di esse si rimane schiacciati sull’alfabetizzazione digitale – utile per formare utenti ma non decisori.
La necessità di formatori efficaci
Tutto ciò è facile a dirsi e molto difficile a farsi. La vera carenza oggi sono formatori/educatori efficaci per orientare e supportare gli imprenditori nella trasformazione digitale, che è molto di più di un “fatto tecnico”. Steve Jobs comprese la centralità di queste competenze quando creò la figura dell’evangelist. Non un supertecnico o super commerciale ma una figura capace di parlare il linguaggio dell’utente e dotata di quell’empatia necessaria per farlo ragionare senza pregiudizi e prevenire i suoi dubbi e le sue preoccupazioni. Una figura che conosce i meccanismi dell’apprendimento, le barriere cognitive alimentate dal timore di essere inadeguati all’ondata di modernità, ed è in grado di alternare stimoli e rassicurazioni, argomentazioni convincenti e ascolto attivo.
Senza queste figure di mediazione, la semplice messa a disposizione di infrastrutture e piattaforme tecnologiche non si trasforma automaticamente in nuove opportunità di business. Senza soft power anche la tecnologia più potente rimane in potenza e non si trasforma in atto. Questo io credo è il più grande rischio che il PNNR correrà.