Inutile nasconderlo: la giustizia civile italiana è un servizio inefficiente. Tempi eccessivi, costi alti, difficoltà burocratiche e scarsa qualità rendono tale servizio gravemente insufficiente per i cittadini e le imprese.
E questo malgrado le numerose riforme susseguitesi negli ultimi anni e sbandierate da alcuni pifferai magici come la soluzione al problema: termini sempre più brevi, adempimenti processuali (e pre-processuali) sempre più complicati e stringenti per le parti, tanto auspicati dalla magistratura come soluzione, si sono dimostrati forieri soltanto di decadenze pregiudizievoli e del tutto inutili ai fini del miglioramento del servizio giustizia (anzi, stanno dando origine ad un nuovo contenzioso, da parte del cliente nei confronti del difensore che sia incappato in una di tali decadenze).
Lo stesso dicasi, purtroppo, per l’attuale PCT, che, sebbene abbia segnato un importante cambio di marcia, un’innovazione (imprimendo una decisa spinta verso un uso finalmente adeguato delle tecnologie da parte del settore giustizia ed eliminando – purtroppo solo in parte – la necessità di adempiere fisicamente ad alcuni incombenti prettamente burocratici, creandone però altri), è purtroppo concepito in modo “vecchio” e concettualmente sbagliato (oltre a presentare difficoltà tecniche e giuridiche di non poco conto) e comunque non può minimamente influire sulla velocità e sull’efficienza del processo.
Il discorso sarebbe diverso se si adottasse un “buon PCT”: certo, non risolverebbe tutti i problemi della giustizia civile, ma renderebbe quantomeno più fruibile e più “giusto” questo servizio (perché tale bisogna ricominciare a considerarlo) per i soggetti che vi ricorrono.
Il “buon PCT” non dovrebbe, in primis, essere una mera duplicazione, in formato digitale, dell’attuale processo civile analogico, fatto necessariamente (in quanto analogico) di documenti e forme.
Il “buon PCT” deve invece essere un “processo”, nel senso più tecnico del termine: cioè una procedura per far acquisire al giudice i dati in base ai quali possa decidere (le parti, il Tribunale adito, la determinazione del petitum, l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, le relative conclusioni, le prove, ecc.).
Col digitale, bisogna andare oltre al concetto di atto/documento, ragionare in termini di “de-documentalizzazione”.
Se fino a ieri l’unico modo di fornire dati era inserirli in un contenitore (il documento cartaceo, a sua volta nel fascicolo cartaceo) e portare al giudice il contenitore (depositare il documento), oggi è tecnicamente possibile fornire gli stessi dati anche senza contenitore (il documento) e direttamente al giudice (non più con un “deposito”, ma con un c.d. “upload”, cioè il caricamento dei dati in una piattaforma digitale), superando così i limiti che le suddette forme necessariamente comportano (la necessità di copie, dell’opera di archiviazione manuale, ecc.).
I dati verrebbero caricati “al loro posto” (ad esempio in un “form”: la determinazione del “petitum”, nel relativo “campo”; l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda in un altro “campo”, così come per le conclusioni; in un campo ancora si potrebbe dare spazio per ulteriori considerazioni; ecc.).
Lo stesso dicasi per la firma.
Il documento cartaceo veniva firmato (solo in calce all’ultima pagina) non certo per verificare con assoluta certezza l’identità del firmatario (nessun cancelliere ha mai effettuato alcuna perizia calligrafica sulla firma e molti atti sono stati sottoscritti… dalle segretarie), ma solo perché era il sistema più semplice e sufficientemente efficace per attribuire la paternità dell’atto; tantomeno la firma garantiva l’immodificabilità futura del contenuto del documento, assicurata invece esclusivamente (e sufficientemente) dalla conservazione effettuata dall’ufficio pubblico (la Cancelleria del Tribunale).
Lo scopo della sottoscrizione dell’atto processuale era quindi del tutto diverso da quello che, oggi, il legislatore vuole inspiegabilmente – e a tutti i costi – attribuire all’apposizione della c.d. “firma digitale” agli atti inviati telematicamente.
Fortunatamente, il regolamento EU N. 910/2014 (c.d. “eIDAS”) permette di superare, andare oltre al concetto “documento elettronico = duplicazione del documento analogico”.
Per eIDAS, il fulcro del documento elettronico diventa il contenuto, non più il contenitore.
Si passa da: “la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti” (definizione del vecchio C.A.D.) a “qualsiasi contenuto conservato in forma elettronica” (laddove “conservato” è solo la cattiva traduzione di “stored”, da intendersi più correttamente “memorizzato”, “archiviato”).
I “dati” sono documento elettronico indipendentemente dal supporto e/o dal formato dello stesso: sostanzialmente, i dati sono “documento” ex se, per cui viene a cadere l’assioma: “documento informatico” = “il file” legato a un formato predefinito (.pdf o .doc), addirittura da formattare.
Questa premessa si rende necessaria per poter comprendere che, per avere un “buon PCT”, non serve affatto che i dati siano contenuti in un file a formato vincolato (per cui sicuramente destinato all’obsolescenza), che si limiti a rappresentare la digitalizzazione di un foglio protocollo, con tutti i conseguenti limiti, a cominciare dall’impossibilità di sfruttare tutti i vantaggi del digitale.
Tantomeno è più necessario che i dati siano “firmati”: essi debbono essere inseriti nel processo previa autenticazione dell’utente nel sistema (con un metodo sicuro quanto si voglia) – tutti i dati inseriti dopo l’autenticazione non possono infatti che provenire da quell’utente, per cui non serve più una firma, né complicati surrogati della stessa – in modo che il sistema li elabori il più possibile da solo.
I dati, quindi, devono essere:
1) non più “depositati” (meno che mai “spediti”, come invece avviene assurdamente ora, con un sistema tanto inutile, quanto complicato e costoso), bensì “caricati”, “inseriti”;
2) caricati in modo (il più possibile) intelligibile dal sistema, autonomamente e oggettivamente;
3) (il più possibile) fruibili, senza vincoli portati dal “documento/contenitore” o da altri tipi di formalità (fortunatamente non più necessarie);
4) inseriti/caricati (=acquisiti al processo) nel modo più semplice possibile, con suggerimenti e “guide” del sistema (ad esempio, il procedimento non permette di proseguire, se non sono stati inseriti tutti i dati necessari e nel modo corretto), in modo da eliminare errori formali/procedurali, omissioni o decadenze, che portano solo a pregiudizi sostanziali per le parti (=ingiustizia) e fornire al giudice il quadro il più possibile completo e corretto, così da ottenere una decisione il più possibile esatta (=giustizia).
5) conservati con sicurezza dal fornitore del servizio, cioè il Tribunale.
Tutto questo permetterebbe finalmente di parlare di PCT, cioè di un processo nuovo rispetto a quello analogico, con la tecnologia che semplifica e aiuta davvero a fornire un migliore servizio giustizia (senza contare che semplificare il lavoro dell’avvocato – ora terribilmente burocratizzato – si tradurrebbe in costi inferiori per il cittadino).
E’ ovviamente solo l’inizio: a breve potremo introdurre nel processo – se appunto organizzato come gestione/organizzazione/elaborazione di flussi di dati – prove e procedure digitali che da un lato daranno certezze inoppugnabili dei fatti in contestazione (grazie anche all’IoT), dall’altro potranno essere “comprese” automaticamente dal sistema, alleggerendo di molto il lavoro del giudice civile, o addirittura rendendo non necessario il suo intervento in alcune questioni.
Ma di questo, parleremo nelle prossime puntate: per ora, limitiamoci a realizzare un “buon PCT”.