In ambito civile, l’introduzione delle tecnologie informatiche nel processo ha richiesto un lunghissimo periodo di progettazione e un altrettanto lungo periodo di sperimentazione (che, invéro, è proseguito anche quando, ai sensi di legge, il PCT era entrato a regime), per poi esitare in ciò che i civilisti ora ben conoscono e quotidianamente praticano.
Non che sia quella gran bellezza, intendiamoci: il PCT “funzionicchia”, ma potrebbe e dovrebbe essere altra cosa; un’attenuante può trovarsi nel fatto che la tecnologia informatica si è parecchio evoluta, nel tempo in cui il PCT è stato elaborato, cosicché quest’ultimo, al momento topico, si è trovato probabilmente già sorpassato prima ancora di mettersi in moto; d’altro canto, è giusto anche riconoscere che per sua stessa natura un sistema processuale è strutturalmente poco compatibile con un’evoluzione rapida e continua.
Ciò, tuttavia, non significa (non può significare) che ci si debba rassegnare a essere sempre uno o due (milioni di) passi indietro rispetto alla realtà “esterna”; sarebbe sciocco e folle peraltro buttare tutto quanto sin qui conseguito per lanciarsi in un’irrealistica e futile rincorsa degli ultimi avanzamenti della tecnologia.
Come spesso, se non sempre, in medio stat virtus: l’esistente, se minimamente funzionale, va conservato, per quel che si può ottimizzato, e utilizzato; nel frattempo, si potrebbe e dovrebbe progettare il prossimo venturo in una scala più ampia e ambiziosa, nella corretta interazione di mondo giuridico e mondo tecnologico, cosicché la costruzione dell’uno sia modellata secondo le possibilità compatibili dell’altro.
Se queste considerazioni avessero trovato cittadinanza nelle competenti sedi, il processo amministrativo telematico (PAT) sarebbe stato modellato sulla falsariga del PCT, con pochi e modesti adattamenti dell’infrastruttura già esistente; e anche il ben più futuribile processo penale telematico (PPT) potrebbe venir attuato con il riutilizzo adeguato di quanto già conseguito per il PCT.
In attesa, ribadiamo, di un processo telematico (PT) “2.0” che abbia fatto tesoro delle esperienze passate e venga dunque concepito con l’ambizione non già di essere “definitivo” ma quantomeno di proiettarsi con una certa stabilità in un arco temporale di almeno un ventennio.
Purtroppo, finora così non è stato e non si vedono all’orizzonte segnali in tale direzione; possiamo solo sperare di sbagliarci.
PPT: l’attualità
L’informatizzazione del procedimento e del processo penale, ora come ora, è davvero ben poca cosa.
Dal lato dell’amministrazione, il conseguimento di maggior rilievo è consistito nella migrazione dal primitivo Re.Ge. all’odierno SICP (Sistema Informativo della Cognizione Penale), ossia il passaggio da una pluralità di registri locali a un unico database centralizzato nazionale (analogamente a quanto avvenuto sul versante civile), nonché dall’introduzione dell’uso della posta elettronica certificata (PEC) per le notificazioni a persone diverse dall’imputato (in pratica, ai difensori, stante il generale e ormai risalente obbligo per gli avvocati di dotarsi di un proprio indirizzo PEC, da comunicare al proprio e Ordine e, per il tramite di questi, all’Amministrazione mediante inserimento nel ReGIndE).
È invece ancora sperimentale il “fascicolo penale elettronico”, noto (a pochi, invero) come TIAP (Trattamento Informatico degli Atti Penali): si tratta, peraltro, della mera digitalizzazione degli atti e documenti analogici (cartacei), consultabili tramite terminali presenti negli uffici giudiziari e accessibili agli avvocati; ha di buono, comunque, che l’avvocato può scaricarsi su chiavetta USB la copia del fascicolo direttamente dal terminale, risparmiandosi gli incombenti e soprattutto i tempi della richiesta di copia “tradizionale”; il TIAP, tuttavia, non sostituisce il fascicolo tradizionale, ma ne costituisce una semplice copia, neppure completa (ne rimangono fuori i supporti multimediali, per i quali occorre pur sempre rivolgersi alla segreteria e pagare i relativi, esorbitanti e scandalosi diritti).
PPT: una modesta proposta (per l’immediato)
La funzione del processo telematico (in qualunque settore esso sia declinato) consiste nell’ottimizzare il flusso delle informazioni fra i soggetti che nel processo tout court operano: nella pratica, nel semplificare e velocizzare la registrazione delle attività svolte e l’accesso agli atti che queste hanno prodotto.
Il processo “analogico” richiede grandi spazi fisici per stivare gli enormi volumi di carta in cui sono trasfuse le verbalizzazioni delle attività svolte, nonché le prove documentali, nonché le altre prove materiali e i corpi di reato; tali spazi richiedono poi adeguata sorveglianza e manutenzione per evitare deterioramenti e sottrazioni, in una parola: la dispersione di atti e prove; ciò si traduce anche nella necessità di disporre di personale da adibire a tali mansioni (inclusa la movimentazione dei materiali).
Se quanto viene adesso messo su carta venisse memorizzato su supporti digitali, si ridurrebbe esponenzialmente il bisogno di spazi e personale (quantomeno, quest’ultimo potrebbe essere dirottato su altre attività), come pure diminuirebbero il tempo necessario agli spostamenti fisici (di cose e persone) e il rischio di dispersione.
Ciò tuttavia richiede che già la fase delle indagini preliminari sia adeguatamente “digitalizzata”, ma poiché già ora le strutture della polizia giudiziaria sono — sia pur all’essenziale — dotate di strumenti informatici, quello che davvero necessita è il passaggio a una (leggermente, ma significativamente) diversa modalità di lavoro: per fare un esempio concreto, il verbale di una notizia di reato viene redatto dalla P.G. utilizzando il personal computer e un word processor, dopodiché ora viene stampato in più copie, timbrato, firmato quindi trasmesso (magari anticipandolo via fax!) materialmente alla Procura competente, dove viene protocollato, ritimbrato, fascicolato e passato al magistrato di turno e così via; si potrebbe, invece di stamparlo etc., esportarlo in PDF, firmarlo digitalmente e trasmetterlo via internet (magari utilizzando un software sulla falsariga del redattore per gli avvocati, così da automatizzarne anche l’indicizzazione nel database della procura e la conseguente assegnazione al magistrato, e così via).
Facendola breve: la digitalizzazione del fascicolo d’indagine dovrebbe essere nativa, limitando all’analogico lo stretto indispensabile. Certo, la digitalizzazione non è la panacea universale, da sola non è sufficiente, però sarebbe un discreto passo in avanti. Non si dovrebbe neppure creare un’infrastruttura ex novo, poiché molti concetti sono comuni a quella del processo civile.
Le ricadute positive sull’avvocatura non sarebbero di poco momento: il difensore potrebbe avere accesso immediato alle informazioni di sua pertinenza, e a una frazione del costo attuale (che, poi, finisce col ricadere sull’imputato, cioè sul cittadino); come pure anche l’interazione con gli uffici potrebbe avvenire analogamente a quanto già accade per il contenzioso civile.
La cattiva notizia è che per realizzare tutto questo occorre investire risorse, che per la giustizia paiono sempre latitare; ma se si intervenisse su quanto viene sprecato (un esempio su tutti: i famosi “braccialetti elettronici” per il controllo a distanza della detenzione domiciliare), forse allora le risorse non sarebbero così scarse. E ancora: l’investimento non può risolversi nell’affidare simili incarichi a strutture private; forse che la pubblica sicurezza viene data in outsourcing? Un’agenzia nazionale dedicata allo studio e allo sviluppo di sistemi informatici per la pubblica amministrazione, che includa tecnici e programmatori, non sarebbe l’ennesimo ente inutile, tutt’altro.
Rumours colti in rete lascerebbero temere che, invece, si voglia andare proprio nella direzione dell’affidamento esterno, anche per la gestione di quelli che sono dati sensibilissimi. Speriamo non sia vero.
Abbiamo già perso una buona occasione col PAT; ma se errare humanum est, perseverare in questo caso sarebbe ben più che diabolicum…