«Ad ambiente umano inviariato non si può fare assolutamente nulla»: Valerio Tavormina, docente di diritto processuale civile all’Università Cattolica di Milano, non usa mezzi termini, il processo civile telematico non riesce a velocizzare i tempi della giustizia in Italia per motivi riconducibili al lavoro umano. Il problema non è l’efficacia dello strumento digitale, anzi. «Lo strumento è adeguato, perfetto, anche nella prassi funziona abbastanza bene», e «potrebbe velocizzare i tempi della giustizia in modo incredibile». Ma poi tutto il procedimento si intoppa, a diversi livelli: in cancelleria, e in aula, dove i giudici continuano a lavorare molto sul cartaceo. Tavormina è forse il più critico fra gli esperti che abbiamo consultato per analizzare il rapporto che c’è fra processo telematico e velocizzazione dei tempo della giustizia. Ma su alcuni punti, in realtà, i pareri sono abbastanza concordi: la digitalizzazione, da sola, non basta. Serve a ridurre una serie di tempi burocratici, non a velocizzare il rito processuale, che resta molto complesso, e questo è il vero nodo da sciogliere. Insieme ad altri due problemi tradizionali del sistema giudiziario italiano, collegati fra loro: la carenza di personale e gli arretrati. «I cancellieri sono in numero permanentemente al di sotto della media. Nei concorsi per magistrati, passano meno candidati dei posti che ci sono a disposizione. E’ uno dei pochi concorsi in Italia in cui succede una cosa del genere», sottolinea Andrea Rossetti, docente di informatica giuridica all’Università Milano-Bicocca. In parole semplici, l’organico della giustizia è ampiamente sottodimensionato. E questo comporta che ci siano costantemente arretrati (anche se il numero delle cause negli ultimi anni è diminuito, complice la crisi che scoraggia le persone dall’intraprendere costosi percorsi legali).
Un elemento che tutti sottolineano è rappresentato dal fatto che, quando la digitalizzazione è intervenuta su una pratica molto semplice e lineare, che coinvolge pochi attori, come quella dell’ingiunzione, i risultati si sono visti eccome. «Sui decreti ingiuntivi c’è stato un netto miglioramento – sottolinea Valentina Carollo, avvocato -, Dalla richiesta all’emissione prima passavano mesi, ora bastano una settimana – dieci giorni». Il risultato positivo ottenuto sulle ingiunzioni è sottolineato anche da Filippo Pappalardo, uno dei massimi esperti italiani sul processo civile telematico. Il punto, spiega, è che il processo telematico è un flusso che va a inserirsi sulla procedura» e l’ingiunzione è una procedura molto semplice, con una sola parte coinvolta che si rivolge al giudice. Quando tutto era cartaceo, aggiunge Rossetti, «le carte restavano molto tempo sui carrelli, la digitalizzazione fa risparmiare il tempo che un fascicolo ci mette a passare da una stanza all’altra». Sembra banale, ma il fatto è che «non c’è più la scusa che i fascicoli possano arenarsi in un luogo fisico, perché appena sono pronti sono subito disponibili per le parti».
Vediamo qualche dato preciso: i tempi di emissione dei decreti ingiuntivi telematici, in base ai dati del ministero della Giustizia nel report aggiornato a febbraio 2017, vanno dai 15 giorni di Ancona ai 39 di Catania. A Milano ci vogliono 32 giorni, a Napoli 30 giorni, a Roma 24. I depositi telematici di avvocati e professionisti nel maggio 2017 sono stati il 9% in più sull’anno precedente, anche i provvedimenti nativi digitali depositati dai magistrati sono cresciuti dell’8%.
Il punto, spiega Pappalardo, è che il PCT «elimina i temi morti, e su questo fronte ha migliorato moltissimo la situazione, ma non è decisivo per ridurre i tempi della giustizia». Per raggiungere questo obiettivo, la digitalizzazione dovrebbe essere accompagnata da riti più veloci. Come dicono molti magistrati, i tempo di decisione rimangono immutati. Non è che se il giudice ha tutto a ruolo, con la causa disponibile anche in brevissimo tempo, ci mette meno tempo a organizzare le udienze, valutare gli elementi, scrivere la sentenza». Anche qui, Tavormina è molto diretto: «sul fronte dei giudici non è cambiato niente, non guardano gli atti in via telematica. Spesso chiedono le cosiddette copie cartacee di cortesia. In pratica, fanno esattamente come prima. E’ vero che oggi tutti i documenti sono depositati nel fascicolo telematico, quindi si potrebbero visionare, ma i giudici non li visionano. La quantità di lavoro che fanno o non fanno è identica a prima, quindi i processi durano come prima».
Rossetti e spezza una lancia a favore dei magistrati: «gli avvocati, anche grazie al digitale che velocizza i tempi, producono memorie più lunghe rispetto a prima. E la fase di lettura del giudice ne risente, la compressione dei tempi non ci può essere. Si potrà efficientare ancora un po’ il sistema, con lo snellimento delle fasi di inserimento dati ad esempio, però il grosso resta la parte in cui il giudice giudica, si legge il materiale, fa le udienze. E qui il digitale non può snellire nulla, ci vogliono riforme su procedure». Sulla stessa linea Pappalardo: «non è agevole leggere su un video una sentenza di 80 pagine». Ci sono protocolli per migliorare questi aspetti, «accordi fra uffici giudiziari e avvocati per scrivere gli atti in modo schematica, rendendoli più fruibili dal punto di vista telematico».
Le soluzioni? Pappalardo punta alla semplificazione dei riti: «se le parti devono mandare almeno due memorie dopo l’atto introduttivo, poi ci sono le conclusione, i tempi più o meno rimangono quelli». Bisogna poi trovare il modo, dal punto di vista normativo, di fare un duplicato informatico unico, perché la formula esecutiva può essere utilizzata solo una volta, ci deve essere un originale unico. Ci sono stati dei tentativi, come il glifo, una firma digitale che rende unico il documento informatico. Ma si tratta di un punto su cui bisogna ancora fare un po’ di strada. In generale, bisogna «riformare i riti e rendere le procedure più semplici, e in questo modo si riuscirebbe a valorizzare lo strumento telematico». Anche Rossetti spinge sulle procedure: «negli Usa, ad esempio, oltre il 50% delle decisioni sono extragiudiziali, ovvero nel civile le parti si accordano prima di arrivare dal giudice. Da noi ci sono tentativi di introdurre i cosiddetti adr, quindi forme di conciliazione differente, ma non decollano». E comunque, c’è un problema di sottodimensionamento degli organici. Valentina Carollo è la più positiva: il processo civile telematico sta dando buoni frutti anche sui riti ordinari, «e c’è uno storico più fruibile rispetto a prima. Oggi il fascicolo non si può più perdere».
Però, la digitalizzazione della giustizia è anche «un processo culturale, che richiede i suoi tempi. Stiamo parlando di novità tutto sommato recenti. E’ vero che di processo telematico si parla dal 2014, però la vera rivoluzione c’è stata dal 2016, con l’introduzione in corte d’appello. E per cambiamenti culturali di questa portata, ci vogliono dai 3 ai 10 anni. Oggi ci sono ancora cause iniziate in cartaceo, per cui anche se finiscono in telematico, c’è un fascicolo ibrido». Però, il PCT è uno strumento molto valido, «ce lo copiano tutti. Anche la PEC è stata molto criticata, poi con il regolamento Eidas hanno introdotto un equivalente». E in corso di sono sperimentazione che promettono nuovi passi avanti, come il portale delle vendite telematiche, destinato a portare notevoli risparmi e più appeal per l’acquisto di immobili e beni mobili. Si troveranno tutti i dati su un unico sito, quindi le persone interessate avranno più facilità a seguire le aste. Oggi il creditore decide come pubblicizzare una procedura di asta, mentre avere un portale unico significa che, per fare un esempio, se io cerco casa in provincia di Roma avrò tutte le opzioni a disposizione in modo molto semplice.