L’immagine è chiara: un professionista seduto su un forziere chiuso. Dentro, grandi quantità di dati, informazioni frutto di anni di lavoro. Che fare oltre alla conservazione prevista per legge? Pochi, pochissimi studi hanno oggi la consapevolezza che nel forziere c’è un tesoro e che questo tesoro può essere valorizzato, creando nuove opportunità di conoscenza sia per lo studio, sia per i clienti, ai quali si possono proporre nuovi servizi. I dati della contabilità, dei cedolini paga, dei bilanci, degli atti immobiliari non sono, forse, fonte di conoscenza se escono da una dimensione individuale e, una volta organizzati, consentono di avere nuove visioni della realtà? Offrire un confronto ragionato su alcune specifiche categorie di dati, non può rendere consapevole il cliente del proprio andamento rispetto alla concorrenza? Le società immobiliari non possono essere destinatarie di informazioni aggregate sugli andamenti immobiliari di un territorio? E perché non anche le banche sulle aste immobiliari? Come poter orientare il cliente verso politiche retributive più efficaci, risparmiando denaro ma elevando la soddisfazione del personale?
Qualcuno si sta attrezzando usando strumenti di business intelligence per fornire visioni aggregate in grado di consegnare ai clienti dei benchmark su cui riflettere. I grossi studi americani stanno investendo nell’intelligenza artificiale per velocizzare le attività di istruttoria, capire meglio i comportamenti delle controparti ed elaborare strategie adeguate nei dibattimenti. Fa paura tutto ciò? Può darsi. Il rifiuto spesso nasconde il timore verso la novità. Ci si ferma all’immediato, trascurando di traguardare il pensiero solo un po’ più avanti. I rischi? Proviamo a esaminarne alcuni: perdita di occupazione per il personale più giovane negli studi e impoverimento della professione. Certo, se ci limitiamo a guardare la maggiore produttività dovuta alla crescente automazione, non possiamo che arrivare a questa conclusione. Ma se ampliamo la visione, ci accorgiamo che nelle professioni possono svilupparsi nuove competenze sempre di matrice giuridica ma con nuove capacità. La professione, inoltre, non potrebbe avere più tempo da dedicare alle attività più critiche e di maggior valore? La contaminazione e la multidisciplinarietà subiscono, grazie a nuove visioni, un’accelerazione. Il timore è che il mondo degli smart data – così li abbiamo battezzati al Politecnico di Milano nell’Osservatorio Professionisti e Innovazione digitale – sia sottoposto a giudizio utilizzando parametri validi per un altro tipo di realtà. La realtà digitale va esaminata con criteri validi per un contesto che sta cambiando, dove il sistema delle relazioni sta subendo importanti modiche nella gestione delle stesse. Perché non vedere che, attraverso la valorizzazione dei dati, è possibile per i Professionisti fornire alla clientela visioni arricchite dei loro accadimenti aziendali, in grado di impattare in modo più diretto sul conto economico? Come trascurare il fatto che è assolutamente diversa l’utilità di un dato finalizzato a un adempimento da quella di un dato che, per esempio, consente di confrontare la nostra gestione con quella di un concorrente? Perché, allora, non cambiare la prospettiva? Dal dato law driven al dato market oriented.
Sfatiamo, inoltre, due falsi miti: il primo fondato sull’idea che questi approcci siano accessibili solamente agli studi a partire da una certa dimensione, il secondo che per gli smart data si parli di investimenti proibitivi. In entrambe le circostanze l’esperienza viene in aiuto. Con l’Osservatorio abbiamo già intercettato alcuni studi – piccoli, ma vispi dal punto di vista culturale – che hanno elaborato nuovi servizi partendo proprio dall’uso dei dati che transitano all’interno dello studio. Dirò di più. Ora stanno proponendo l’idea ad altri colleghi che trovano la soluzione bell’e pronta ma che hanno individuato nuovi bisogni per i clienti. I riflessi? Positivi, anche se non sempre i clienti sono abituati a trovare queste risposte dai loro Professionisti. Meglio, direi io, è ora di farsi percepire sempre più come un supporto alle decisioni, come generatori di valore in termini di incidenza sulla riduzione dei costi o sull’incremento dei ricavi. Ma non è tutto.
Le nuove visioni che possono scaturire dall’uso smart dei dati – ho volutamente capovolto i termini della locuzione (da smart data a uso smart dei dati) – aprono il mondo professionale a nuove forme di collaborazione: studi che effettuano investimenti congiunti con altri colleghi per condividere tecnologie e servizi, studi che investono in proprio ma che erogano alcuni servizi – tra cui quelli smart data based – non solo ai clienti ma anche ad altri studi, diventando a tutti gli effetti dei fornitori/partner, integrando più catene del valore. Non è uno scenario sufficientemente ampio e positivo? Aggiungerei che queste nuove visioni, inoltre, stimolano la creazione di nuove competenze, di nuove figure professionali che aumentano la multidisciplinarietà professionale, spingono alla collaborazione e alla trasversalità.
Qualche suggerimento? Ci sono quattro passi fondamentali, utili soprattutto quando si affrontano nuove sfide:
- sviluppare una visione, dedicando tempo al destinatario del nuovo servizio. Il destinatario è lo studio stesso? Allora occorre chiedersi quali informazioni in più vorrei avere per capire con più regolarità come sta andando lo studio. Il destinatario è un’azienda cliente? Esaminiamo la sua realtà, i suoi processi decisionali, i ‘buchi’ informativi che non gli consentono di prendere decisioni con un adeguato supporto informativo e cerchiamo di riempirli;
- esaminare la propria base dati e valutarla in termini quali-quantitativi: come classificarli? quali strumenti impiegare per ottenere dei risultati coerenti con la visione elaborata? Quali investimenti effettuare? Meglio da soli o con qualcun altro?
- test: proporre la nostra idea a qualche cliente per valutarne le reazioni e raccogliere ulteriori suggerimenti per migliorarla;
- rilascio del servizio e suo monitoraggio.
Se si pensa che il problema sia la mancanza di tempo, digitalizzare alcune attività dello studio può aiutare a trovarlo. Se il problema sono le ridotte dimensioni dello studio o l’entità dell’investimento si può decidere di trovare dei compagni di viaggio. Se il problema sono i nostri collaboratori, coinvolgiamoli in un progetto di cambiamento in cui possono recitare un ruolo da attori protagonisti, aumentando la loro professionalità con nuove conoscenze che li arricchiscono. Non tutto è facile da realizzare, ma riporto un concetto condiviso all’interno di un recente focus group organizzato dall’Osservatorio a cui hanno partecipato avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro, notai e vendor tecnologici: “Gli studi devono sviluppare maggiore collaborazione tra loro per condividere investimenti e dati. I professionisti che, prima di altri, percepiranno il valore intrinseco dei dati, acquisiranno un vantaggio competitivo”.