Accanto alla certezza che i dati abbiano un impatto sull’economia globale persistono numerose perplessità su cosa possa intendersi quando si parla di “valore” dei dati e, quindi, di ciò che a tutti gli effetti è presupposto e fine del commercio dei medesimi. Utile, allora, cercare di fissare alcuni punti fermi.
Innanzitutto, per esempio, ci si chiede come si misura il valore di un dato. Approfondiamo il tema.
Valore dei dati, il metodo degli investimenti di settore
Per capire come stabilire il valore di un dato, può aiutare una nota al Going Digital Toolkit OCSE del 2021 (Going Digital Toolkit Note: Measuring the economic value of data, n. 20, OECD Publishing, Paris, 2022). Secondo il Report, alcuni recenti lavori (Ker – Mazzini, 2020)[1] evidenziano la possibilità di far ricorso a differenti “metodologie di calcolo” del valore di un dato.
Una prima ipotesi potrebbe consistere nell’adottare un metodo basato sugli investimenti di settore, sull’assunto per cui un determinato operatore economico è generalmente disposto a “pagare” una certa cifra per un dato solo se potrà poi ricavarne un ritorno (economico o non) almeno pari a quanto precedentemente speso (si stima che negli USA, nel 2017, tali investimenti siano stati pari a circa 36 miliardi di dollari). Potrebbe altrimenti guardarsi alle revenues registrate dalle Compagnie che hanno ad oggetto la creazione di valore a partire dai dati (circa 60 miliardi di dollari negli USA, nel 2017). Un terzo sistema potrebbe guardare all’influenza esercitata dal possesso e dalla capacità di analisi dei dati sul valore dell’azienda, considerato in termini di capitalizzazione di mercato (per una capitalizzazione USA di circa 5 trilioni nel 2020). Potrebbe invece farsi riferimento alle dimensioni del commercio di prodotti digitali, o – ancora – alla relazione tra le stime commerciali dei flussi di dati globali da un lato e il capitale organizzativo delle “Big Tech” dall’altro (rappresentato dalle vendite e dalle spese)[2].
La difficoltà di quantificare il valore dei dati
Ciò che è certo, in estrema sintesi, è che il carattere impalpabile del dato rende difficoltosa, o quantomeno estremamente variabile, una sua quantificazione economica. La questione, poi, diviene più complessa distinguendo non solo in base al tipo di metodo di calcolo, ma – ad esempio – in base all’approccio che decida di adottarsi: lo illustrano bene Diane Coyle e Annabel Manley nel loro What is the Value of Data? (Cambridge, 2022), ove – riassumendo – si ricorda come sia possibile adottare un approccio market-based, oppure cost-based o ancora income-based.
Ognuno ha le proprie zone d’ombra, le proprie criticità e i propri punti di maggior forza (e non sembrano aiutare, in tal senso, i data marketplaces, alle cui potenzialità fa attualmente da contraltare una realtà dei fatti – secondo gli Autori, che citano l’esempio di Microsoft Azure DataMarket – ancora embrionale). Addirittura, il tema aumenta di complessità allorché si pretenda di poter distinguere in base al tipo di dato oggetto di valutazione, o al settore di riferimento: secondo un recente report di Fortune, il mercato del big data analytics – valutato 240,6 miliardi di dollari nel 2021 – crescerà nei prossimi sette anni del 13,4%, passando da un market value di 271,83 miliardi nel 2022 ad una capitalizzazione monstre di 655,53 miliardi nel 2029 (in gran parte, come intuibile, grazie ai futuri sviluppi dell’AI e dell’IoT: per l’IDC – International Data Corporation – nel 2025 oltre 55 miliardi di dispositivi saranno connessi all’IoT); mentre il settore rappresentato dalla big data technology – 41,33 miliardi di dollari nel 2019 – raggiungerà entro il 2027 un valore di 116,07 miliardi.
La valenza economica
Se, dunque, è difficile effettuare una quantificazione aritmetica del “prezzo” di un dato, dall’altro lato non vi sono dubbi sulla valenza economica degli stessi: come d’altronde sembra evincersi, ad esempio, dal riformato Codice del consumo (che all’art. 135-octies, comma quarto, espressamente si riferisce a contratti in cui “il consumatore fornisce o si obbliga a fornire dati personali al professionista”), e come ha da ultimo ricordato – esemplificativamente – la sentenza n. 2631/2021 del Consiglio di Stato, scrivendo espressamente di una patrimonializzazione del dato personale, frutto di un “rilevante valore economico” per l’operatore di servizi internet – dei quali, infatti, non può pubblicizzarsi la gratuità. Sentenza che, come naturale, ha aperto la strada a numerose e tutto fuorché banali domande. Così Guido Scorza, componente del Garante, si chiedeva se un sinallagma contrattuale possa basarsi sul commercio di dati – che Facebook nella vicenda indicava invece come “bene extra commercium” – e, anche e soprattutto, quale sarebbe l’Autorità competente in materia: il Garante medesimo, l’Antitrust, o l’Agcom?
Cosa dicono le norme
Non sembra venire in aiuto la disciplina normativa: a puro titolo esemplificativo, la fonte relativa al riparto – tra le autorità amministrative indipendenti – delle competenze sanzionatorie in materia di pratiche commerciali scorrette – Direttiva 2005/29/CE, recentemente modificata dalla Direttiva (UE) 2019/2161 – ha infatti per certi versi visto svilupparsi una giurisprudenza interna al Consiglio di Stato che ne ha svuotato le competenze sulla base di un’applicazione estensiva del principio di specialità in favore delle autorità di settore, cui ha però fatto seguito, da ultima, CGUE 13 settembre 2018, Cause riunite C-54/17 e C-55/17; ma sono comunque da farsi salve le situazioni in cui la disciplina di settore regoli “aspetti specifici” (Cons. Stato n. 6596/2021) e – soprattutto – ci si deve chiedere se tali ipotesi possano essere ascritte tout court alle pratiche commerciali scorrette (che implicherebbero un rapporto fornitore-consumatore, come forse potrebbe non esservi dal lato dello scambio di dati. Sul punto, è noto come l’EDPB e l’EDPS abbiano più volte precisato come i dati non possano essere trattati alla stregua di una qualsiasi merce passibile di divenire oggetto di scambio, “tradeable commodity” – ex multis si può rimandare allo Statement 05/2021 on the Data Governance Act in light of the legislative developments).
Tali interrogativi, insomma, ben evidenziano non solo l’estrema rilevanza e attualità del tema, ma anche – e soprattutto – la sua trasversalità, forte a tal punto da renderne difficoltoso l’inquadramento, rendendolo un tema che si pone a cavaliere tra tutele individuali e quella tendenza al “disconoscimento di ogni ragione non economica” tipica del tempo presente: motivo in più – se già non ve ne fossero a sufficienza – per auspicare una collaborazione tra Autorità (come anzitempo fatto dallo stesso Garante), prestando particolare cura all’attività dell’Autorità Garante per la protezione dei dati.
Gli esempi dei social
Non mancano le prime conferme – reali e “tangibili” – dell’impatto che simili questioni possono avere nella quotidianità. Era il 2019 quando sempre Facebook annunciava l’app Study, al preciso (e dichiarato) fine di ricompensare – in denaro – chi avesse deciso di condividere con Menlo Park alcune informazioni (come “le applicazioni installate sul telefono di un partecipante; la quantità di tempo trascorsa utilizzando tali applicazioni; Paese, dispositivo e tipo di rete del partecipante; nomi delle attività delle app, che possono mostrarci i nomi delle funzioni delle app che i partecipanti stanno utilizzando”): la “ricompensa” ammonterebbe a 10-20 dollari/mese (oggi l’app è presente solo sul Google Play Store).
Recentemente si è quotato a Parigi – su Euronext Growth – TaTaTu, social network (italiano) che ricompensa i propri utenti per il tempo e l’attività impiegati sulla piattaforma (“Crediamo fermamente che gli utenti dei social media debbano essere ricompensati per il valore che contribuiscono a generare trascorrendo il loro tempo online” si legge nella vision aziendale): la ricompensa è in token, ma il principio ispiratore è chiaro ed evidente.
Conclusione
Pur se provocatoriamente, potrebbe dunque chiedersi se sia questo il valore dei dati personali: un valore (10-20 dollari; token) che se certamente stride con le quantificazioni/risultati ottenibili applicando i metodi di calcolo citati in apertura, tuttavia – allo stesso tempo – obbliga ad una ulteriore considerazione. Spesso – nella quasi totalità dei casi – quei dati (nome, cognome, preferenze e abitudini, anche non solo di consumo), che sono per le Big Tech fonte di elevatissimi ricavi, non rappresentano invece un “valore” per il soggetto cui si riferiscono (l’interessato, ndr); quantomeno non immediatamente economicamente apprezzabile: è la grande contraddizione dei dati, l’oro nero del XXI secolo.
La questione è aperta, ma la strada sembra tracciata (del 6 dicembre scorso la notizia – inizialmente leakata dal Wall Street Journal – secondo cui per l’EDPB “Meta non dovrebbe richiedere agli utenti di accettare annunci personalizzati basati sulla loro attività online” – Alessandro Longo, ilSole24Ore, 7 dicembre 2022). Probabilmente, ciò di cui abbiamo bisogno – e di cui possiamo ragionevolmente auspicare la concretizzazione in un futuro prossimo – è una collaborazione attiva tra soggetti regolatori e Big Tech, che assuma l’equo bilanciamento degli interessi coinvolti al ruolo di mezzo per il più ampio fine della tutela individuale (e collettiva), per la quale già da tempo è attivo il Garante italiano.
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Note
- Ker, D. and E. Mazzini (2020), “Perspectives on the value of data and data flows”, OECD Digital Economy Papers, No. 299, OECD Publishing, Paris. ↑
- Li, W. and P. Chi (2021), Online platforms’ creative “disruption” in organizational capital – The cumulated information of the firm, OECD Publishing, Paris, per i quali (come sempre ricordato nel Report OCSE 2021) ad un aumento di cinque volte dei flussi di dati corrisponderebbe un raddoppio del capitale organizzativo delle Big Tech. ↑