Vediamo tutto quello che c’è da sapere sull’istituto del reverse charge Iva, la sua evoluzione storica, la situazione in Italia, perché si parla di reverse charge “terapeutico”, le criticità del sistema che dovrebbero essere oggetto dell’intervento del legislatore.
Cos’è il reverse charge
L’istituto del reverse charge (o inversione contabile) rappresenta il rimedio per consentire la rappresentazione contabile di una deroga disposta dalla Legge ai principi di esigibilità e di detrazione dell’Iva. La regola generale su cui si fonda la legge sull’Iva è che chi attua una cessione di beni o una prestazione di servizi debba esporre l’Iva in fattura, di cui si rende debitore verso l’Erario indipendentemente dall’incasso, mentre chi riceve la fattura ha il diritto di esercitare la detrazione dell’Iva, diventando creditore dell’Erario indipendentemente dal pagamento.
Il meccanismo del reverse charge si pone come eccezione alla regola generale sopra indicata: chi effettua la cessione di beni o la prestazione di servizi, assoggettabili astrattamente ad imposta, non espone l’Iva in fattura, evitando dunque di rendersi debitore verso l’Erario, mentre chi riceve una fatture emessa in regime di reverse charge, deve integrarla calcolando l’Iva secondo l’aliquota corrispondente al bene o servizio e annotarla nel registro degli acquisti. Poiché l’articolo 19, comma 1, del DPR 633/1972, prevede che il diritto alla detrazione spetta relativamente alla “ … imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione”, ed in questo caso non si realizza alcuna delle due condizioni, il rimedio tecnico individuato per neutralizzare l’Iva di cui si è rilevato il credito è quello di annotare sul registro IVA Vendite una operazione identica, per far emerge un’IVA a debito. Così operando, l’operazione nel suo complesso è “a saldo zero”.
Reverse charge, la normativa in Italia
La storia del reverse charge si può distinguere in due ere. La più antica è quella in cui lo scopo del reverse charge era (ed è tuttora) quello di permettere l’ingresso nel nostro sistema contabile delle operazioni, rilevanti ai fini IVA in Italia, realizzate da imprese non residenti, carenti del requisito soggettivo per essere titolari di partita IVA domestica (reverse charge “esterno”). Alcuni esempi tra tutti: gli acquisti effettuati dagli operatori Italiani dalla repubblica di San Marino, gli acquisti intracomunitari, nel cui alveo sta acquisendo sempre maggiore rilevanza l’e-commerce[1]. Questa tipologia di reverse charge viene definita “esterna”.
La più recente è sorta come risposta dalla esigenza di contrasto all’evasione e alle frodi, e muove dalla considerazione che l’attribuzione incontrollata del diritto alla detrazione dell’Iva ha generato abusi, che sono stati perpetrati proprio perché alla detrazione spettante per legge all’acquirente che ha assolto l’imposta non ha corrisposto un simmetrico versamento dell’imposta da parte del venditore. Si può quindi parlare di un reverse charge “terapeutico”. Questa tipologia di reverse charge viene definita “interna”. Considerato che il reverse charge costituisce una deroga al principio generale dell’Iva di derivazione Europea, il suo ampliamento applicativo è soggetto alla preventiva autorizzazione della Commissione Europea.
Reverse charge, quando si applica
In ordine cronologico, la prima introduzione del reverse charge interno si è avuta con l’articolo 74, commi 7 e 8, DPR 633/1972, nel testo in vigore dal 20/12/1984 dopo le modifiche apportate dal D.L. 853 del 19/12/1984, rispettivamente per le cessioni di rottami, cascami e avanzi di metalli ferrosi e dei relativi lavori, di carta da macero, di stracci e di scarti di ossa, di pelli, di vetri, di gomma e plastica, nonché di bancali in legno (pallet), e per le cessioni di rottami, cascami e avanzi di metalli non ferrosi e dei relativi lavori, dei semilavorati di metalli non ferrosi. La scelta del legislatore è stata dettata dalla esigenza di “evitare particolari abusi che si verificavano nel settore” (Punto 2 Circolare Ministero delle Finanze 19 marzo 1985, n. 26).
L’articolo 3 della Legge 17/1/2000 n.7 ha ampliato l’ambito di applicazione del reverse charge alle operazioni di cessioni di “di oro da investimento di cui all’articolo 10, numero 11), nonché per le cessioni di materiale d’oro e per quelle di prodotti semilavorati di purezza pari o superiore a 325 millesimi”. Però questa volta l’intervento normativo è stato realizzato mediante modifica dell’articolo 17 del DPR 633/1972. Questo intervento normativo è stato il primo di una serie che ha ampliato progressivamente il novero delle operazioni soggette al reverse charge, realizzato sempre rimpinguando l’articolo 17 DPR 633/1972, che attualmente riguarda le seguenti operazioni:
- a) le prestazioni di servizi (diversi da servizi di pulizia, di demolizione, di installazione di impianti e di completamento relative a edifici) compresa la prestazione di manodopera, rese nel settore edile da soggetti subappaltatori nei confronti delle imprese che svolgono l’attività di costruzione o ristrutturazione di immobili ovvero nei confronti dell’appaltatore principale o di un altro subappaltatore. La disposizione non si applica alle prestazioni di servizi rese nei confronti di un contraente generale a cui venga affidata dal committente la totalità dei lavori;
- a-bis) le cessioni di fabbricati o di porzioni di fabbricato di cui ai numeri 8-bis) e 8-ter) del primo comma dell’articolo 10 (DPR 633/1972) per le quali nel relativo atto il cedente abbia espressamente manifestato l’opzione per l’imposizione;
- a-ter) le prestazioni di servizi di pulizia, di demolizione, di installazione di impianti e di completamento relative a edifici;
- c) le cessioni di console da gioco, tablet PC e laptop, nonché alle cessioni di dispositivi a circuito integrato, quali microprocessori e unità centrali di elaborazione, effettuate prima della loro installazione in prodotti destinati al consumatore finale;
- d-bis) i trasferimenti di quote di emissioni di gas a effetto serra definite all’articolo 3 della direttiva 2003/87/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 ottobre 2003, e successive modificazioni, trasferibili ai sensi dell’articolo 12 della medesima direttiva 2003/87/CE, e successive modificazioni;
- d-ter) i trasferimenti di altre unità che possono essere utilizzate dai gestori per conformarsi alla citata direttiva 2003/87/CE e di certificati relativi al gas e all’energia elettrica;
- d-quater) le cessioni di gas e di energia elettrica a un soggetto passivo-rivenditore ai sensi dell’articolo 7-bis, comma 3, lettera a) (DPR 633/1972).
Le disposizioni di cui alle lettere b), c), d-bis), d-ter) e d-quater) sopra indicate si applicano alle operazioni effettuate fino al 31 dicembre 2018.
Reverse charge, novità 2020
A marzo 2020 l’Agenzia delle entrate ha previsto nuovi sottocodici per le operazioni svolte in reverse charge. Attualmente venivano indicate con il codice N6. I nuovi sottocodici saranno utilizzati da ottobre 2020.
Deroghe alla neutralità dell’Iva
L’ipotesi in cui la neutralità dell’Iva tra cedente e cessionario (rispetto alle casse Erariali) potrebbe subire una deroga è quella in cui il cessionario sia sottoposto ad un regime di detraibilità parziale, soggettiva o oggettiva, dell’Iva. Per esempio, nella ipotesi di acquisto da parte di un contribuente che, operando nel settore sanitario, ponga in essere esclusivamente operazioni esenti da Iva ai sensi dell’articolo 10, n.18, DPR 633/1972, l’Iva assolta sugli acquisti è integralmente indetraibile (c.d. pro-rata); ricevendo una fattura da un soggetto obbligato all’applicazione del reverse charge, deve annotarla nel registro IVA acquisti con IVA indetraibile, e nel registro delle vendite applicando l’Iva che, pertanto, sarebbe interamente dovuta. In questo caso l’obbligo di versamento dell’Iva si traferisce dal cedente (che non emette più fattura con IVA) al cessionario. Gli esempi di indetraibilità oggettiva sono disciplinati dall’articolo 19-bis1 del DPR 633/1972, e riguardano gli acquisti di aeromobili, beni di lusso, veicoli stradali a motore, carburanti e lubrificanti, alimenti e bevande, prestazioni di trasporto, etc., per i quali l’indetraibilità é assoluta o parziale, salvo che i predetti beni o servizi non formino oggetto dell’attività propria dell’impresa o, nel caso di beni strumentali, non siano utilizzati esclusivamente nell’esercizio dell’attività.
Ma anche in presenza di IVA indetraibile il problema non risiederebbe nell’errore di applicazione del regime, considerato che l’acquirente dovrebbe restare comunque inciso dall’Iva, o perché pagata al fornitore (se ha emesso fattura con IVA) o perché pagata all’Erario (se il fornitore ha emesso la fattura in reverse charge). L’Agenzia Entrate, con la circolare 17/E dell’11/5/2017, ha commentato la riforma del sistema sanzionatorio, attuata “al fine di meglio correlare, nel rispetto del principio di proporzionalità, le sanzioni all’effettiva gravità dei comportamenti; la possibilità di ridurre le sanzioni per le fattispecie meno gravi o di applicare sanzioni amministrative anziché penali, tenuto anche conto di adeguate soglie di punibilità”. Ma, come esamineremo nel prosieguo, non sembra che le sanzioni oggi previste dalla Legge rispondono a tali requisiti.
Reverse charge, le sanzioni
La violazione delle norme applicative del reverse charge interno non comportano, in linea di massima, un danno erariale, proprio per il principio di neutralità che caratterizza l’Iva nei rapporti B2B. Tuttavia, il legislatore Italiano aveva inizialmente previsto una sanzione compresa tra il 100 e il 200 per cento dell’imposta, con un minimo di 258 Euro, a carico o del cessionario o committente (quindi, del soggetto che riceve la fattura) che si fosse sottratto all’applicazione del reverse charge, ovvero del cedente o prestatore che avesse irregolarmente addebitato l’imposta in fattura omettendone il versamento. Nella ipotesi in cui per un’operazione soggetta al reverse charge il soggetto attivo avesse emesso una fattura con la applicazione dell’Iva, fermo restando il diritto alla detrazione per il destinatario della fattura, era prevista una sanzione del 3% dell’imposta, con un minimo di 258 Euro e un massimo di 10.000 per i primi tre anni di applicazione della normativa.
Il predetto sistema sanzionatorio è rimasto in vigore sino al 31/12/2015, ed è stato riformato per adeguare il nostro ordinamento all’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia della UE, chiamata a pronunciarsi a seguito di un rinvio disposto da un’ordinanza della Corte di Cassazione (n. 25035/2013), in un contesto giurisprudenziale in cui altre sezioni della medesima Corte i Cassazione aveva addirittura escluso l’esistenza del diritto alla detrazione IVA su una fattura di acquisto in cui il destinatario avesse omesso la procedura di inversione contabile. La Corte di Giustizia, nella causa C-590/13 (sentenza “Idexx Laboratories Italia Srl”)[2], ha risolto la questione posta enunciando i seguenti principi:
- L’obbligo di inversione contabile ha carattere formale e non sostanziale;
- La sua inosservanza non ha come conseguenza il mancato pagamento dell’Iva, perché questa è regolarizzata nell’ambito del meccanismo di inversione contabile.
Molto probabilmente il superiore orientamento ha indotto il legislatore italiano a rivedere il sistema sanzionatorio, sia per uniformarlo al principio della prevalenza della sostanza sulla forma, sia anche per evitare che la previsione di sanzioni elevate, anche in presenza del riconoscimento del diritto alla detrazione, potesse costituire un modo surrettizio per rendere di fatto l’imposta non detraibile[3].
Omissioni in materia di reverse charge
Di seguito tutti i casi di possibili sanzioni per omissioni in materia di reverse charge.
Errata applicazione dell’imposta nel modo ordinario anziché mediante il sistema dell’inversione contabile (articolo 6, comma 9-bis.1, Decreto Legislativo 471/1997)
La norma prevede una differenziazione a seconda che il documento di cui sia stata omesso il meccanismo del reverse charge risulti o meno dalle scritture contabili obbligatorie ai fini delle imposte sul reddito. Nel primo caso la sanzione prevista è compresa tra un minimo di 500 euro ed un massimo di 10.000 Euro, mentre nel secondo caso la sanzione pervista è quella proporzionale all’imponibile (tra il 5% e il 10%) con un minimo di 1.000 Euro.
Errata applicazione dell’imposta con il sistema dell’inversione contabile anziché nel modo ordinario (articolo 6, comma 9-bis.2, Decreto Legislativo 471/1997)
In questo caso viene fatto salvo il diritto alla detrazione eventualmente operata dal cessionario o committente, ma è prevista una sanzione a suo carico che va da un minimo di 250 ad un massimo di 10.000 Euro, al cui pagamento è obbligato in solido il cedente o prestatore. Nel caso in cui l’errore sia stato generato da un intento di evasione o di frode di cui sia provato che il cedente o prestatore era consapevole, la sanzione applicabile al cedente è quella indicata alla ipotesi 1.
Errata applicazione del sistema dell’inversione contabile ad operazioni esenti, non imponibili, non soggette ad imposta o inesistenti (articolo 6, comma 9-bis.3, Decreto Legislativo 471/1997)
L’ipotesi, più di carattere procedurale che sanzionatorio, riguarda l’errata applicazione del meccanismo dell’inversione contabile ad operazioni esenti, non imponibili o non soggette ad imposta. Trattasi, ad esempio, del caso in cui il cessionario o committente, che riceve una prestazione di servizi o una cessione di beni da un soggetto non residente, ritenga per errore l’operazione rilevante ai fini IVA in Italia e assolva l’imposta mediante l’inversione contabile, quando invece l’operazione era non soggetta ad IVA.
In caso di verifica, l’Amministrazione Finanziaria è tenuta ad elidere sia il debito che il credito IVA che scaturiscono dalla (errata) applicazione dell’inversione contabile. Tale procedura si applica anche quando si verta nella ipotesi di fatture per operazioni inesistenti, in cui però è prevista una specifica sanzione di misura compresa tra il 5 e il 10 per cento dell’imponibile, con un minimo di 1.000 euro.
Ma nel caso in cui non vi sia alcun danno per l’erario, le sanzioni sono applicabili? L’applicazione del reverse charge interno è questione molto complessa, e spesso richiede profili di professionalità e di informazione di gran lunga superiori a quelli posseduti dagli addetti ai lavori. Vi sarebbe infatti da ponderare il diritto di cittadinanza nel sistema normativo italiano del già indicato sistema sanzionatorio nella ipotesi di conclamata ed accertata inesistenza di danno erariale. L’articolo 6, comma 5-bis, del Decreto Legislativo 472/1997, dispone a chiare lettere che “Non sono inoltre punibili le violazioni che non arrecano pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo e non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo.” L’articolo comma 3, della Legge 212/2000 (Statuto del contribuente), statuisce che “Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta”.
Quindi, inesistenza di danno erariale e incertezza sulla portata e ambito di applicazione della norma tributaria: sembra un abito che calza a pennello con le fattispecie sopra esaminate. Ci attendiamo quindi che la giurisprudenza di legittimità prendesse la parola sull’argomento, preso atto che il legislatore appare assolutamente insensibile al rispetto di questi principi la cui osservanza, che, oltre che al dettato della legge, rappresenterebbe un atto di civiltà.
Quando si applica il reverse charge interno
La situazione sopra delineata rappresenta fonte di enormi complicazioni per le imprese, perché ha creato una miriade di fattispecie non sempre immediatamente classificabili. Tra l’altro l’applicazione del reverse charge a macchia di leopardo genera distorsioni nell’applicazione dell’Iva, perché costituisce una penalizzazione per i cedenti, che effettuando acquisti anche soggetti ad IVA ne devono anticipare la corresponsione ai fornitori, restando creditori di IVA, e avvantaggia i cedenti, che, in termini immediati, disporranno di una maggiore liquidità di cassa.
Siamo quindi obbligati ad una riflessione più ampia e generalizzata, che riguarda la tenuta nel suo complesso del sistema su cui si basa l’Iva: che il difetto risieda nella legge? piuttosto che ampliare l’ambito di applicazione del reverse charge, non è forse il caso di prendere atto che l’Iva, così come è stata strutturata, sia fonte di inutili adempimenti per i soggetti passivi che operano essenzialmente nel B2B e di potenziali focolai di evasione, derivanti dall’esistenza del titolo al portatore (detrazione dell’Iva che spetta al destinatario della fattura) a fronte di una copertura (pagamento dell’Iva da parte del debitore) che spesso non solo non si realizza nei termini ordinari, ma neppure a seguito delle procedure poste in essere dall’Agente per la riscossione?
Una conferma indiretta ma rilevante alle superiori considerazioni è stata di recente fornita da una proposta di Direttiva COM (2016) 811, con la quale la Commissione intenderebbe consentire agli Stati membri, mediante l’inserimento di in un nuovo articolo (art. 199-quater) nella Direttiva 2006/112/CE, di applicare (fino al 30 giugno 2022) il reverse charge, in via generalizzata, per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi di ammontare superiore a 10.000 euro per fattura ed in presenza di particolari profili di frode individuati dagli stessi Stati. Anche in questo caso la frode che si intende combattere riguarda, ovviamente, le transazioni interne, che risultano generate dalle c.d. frodi carosello, collegate agli scambi intraunionali. La proposta è soggetta a vincoli tesi da un lato a individuare i presupposti per ottenere la deroga, e dall’altro ad evitare che l’adesione di uno Stato a questo meccanismo sia suscettibile di operare un trasferimento delle frodi in uno Stato limitrofo.
Assistiamo quindi ad un lento ma progressivo smottamento del sistema IVA verso la sua disapplicazione. Sarebbe opportuno che il legislatore, nazionale e comunitario, ne prendesse atto e considerasse che la complessità della legge è fonte di confusione per i soggetti che vogliono rispettarla, e comodo ricovero per coloro che vogliono disattenderla. Queste considerazioni sono ancora più pregnanti per l’Italia, che ha conquistato il titolo di campione d’Europa per evasione tributaria.