Nessun altro settore ha abbracciato il metaverso come la moda. Brand come Gucci, Balenciaga e Burberry stanno creando nel metaverso abiti e accessori che probabilmente nessuno indosserà mai nel mondo reale. Milioni di utenti comprano vestiti e skin per i loro avatar digitali e molti marchi della moda hanno collaborato con l’industria dei videogiochi per lanciare capsule collection digitali, che in certi casi potrebbero anche essere vendute nei negozi reali.
Un simile fenomeno comporta una serie di conseguenze a livello giuridico, soprattutto nel campo della proprietà intellettuale.
Come ci si veste nel Metaverso: l’impatto di NFT e universo parallelo sul mondo della moda
La protezione del marchio
Innanzitutto, le aziende dovranno riesaminare le loro strategie di deposito e valutare se sia garantita sufficiente protezione al marchio in un meta-ambiente. Questo potrebbe portare a ridefinire il portafoglio dei marchi e considerare depositi, per esempio, nelle classi 9, 35 e 41. In caso di fenomeni di meta-squatting, si dovrà tener conto della possibilità di dare evidenza della reputazione del marchio, accedendo alla c.d. protezione extra-merceologica nei confronti di prodotti dissimili.
La disanima dei diritti acquisiti
I marchi della moda dovranno anche procedere ad una attenta disamina dei diritti acquisiti sulle opere già esistenti che intendono inserire nel metaverso, utilizzando le categorie giuridiche tradizionali. A riguardo, ci sono buoni argomenti per sostenere che la nostra legge di diritto d’autore preveda una assegnazione automatica in capo al datore di lavoro delle opere realizzate dai dipendenti che verranno trasformate in beni digitali o NFT, ma lo stesso non si applica necessariamente per le opere create da lavoratori autonomi. Ai sensi degli articoli 12-bis e 12-ter della legge sul diritto d’autore (l.d.a.), salvo patto contrario, il datore di lavoro è titolare dei diritti di utilizzazione economica del software, della banca dati e dell disegno industriale creati dal lavoratore dipendente nell’esecuzione delle sue mansioni o su istruzioni impartite dallo stesso datore di lavoro.
Anche se la legge sul diritto d’autore fa riferimento esclusivo a queste tre categorie di opere dell’ingegno, la dottrina e la giurisprudenza sono concordi nel ritenere che il principio secondo cui i diritti di sfruttamento economico delle opere dell’ingegno realizzate dal lavoratore dipendente appartengono al datore di lavoro si estenda a tutte le opere dell’ingegno, ossia, ad esempio, alle fotografie, alle opere grafiche e letterarie, se realizzate nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato.
Il caso dei lavoratori autonomi
Quanto ai lavoratori autonomi, la legge 22 maggio 2017, n. 81 (in Gazzetta Ufficiale n. 135 del 13.6.2017, entrata in vigore il successivo 14.6.2017), c.d. Jobs Act all’art. 4 prevede una specifica disciplina per le invenzioni e gli apporti originali realizzati dal lavoratore autonomo, ai sensi del quale “salvo il caso in cui l’attività inventiva sia prevista come oggetto del contratto di lavoro e a tale scopo compensata, i diritti di utilizzazione economica relativi ad apporti originali e a invenzioni realizzati nell’esecuzione del contratto stesso spettano al lavoratore autonomo, secondo le disposizioni di cui alla legge 22 aprile 1941, n. 633, e al codice della proprietà industriale, di cui al decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30”. Pertanto, se la creazione di diritto d’autore del lavoratore autonomo rientra nello scopo della commissione, vi sarà una autonoma cessione dei diritti in capo al committente. In concreto, tuttavia, potrebbe risultare difficile capire cosa rientra o meno nell’ambito della commissione e sarebbe opportuno includere in tutti i rapporti di lavoro autonomo una apposita clausola di cessione dei diritti IP.
Inoltre, nei contratti di lavoro autonomo con cessione o licenza di diritti d’autore, occorre prestare particolare attenzione alle “clausole sulle nuove tecnologie” che normalmente estendono il diritto di sfruttamento su tutte le tecnologie conosciute al momento e da sviluppare in futuro. Al riguardo, l’art. 119, comma 3, l.d.a. prevede che “non possono essere compresi i futuri diritti eventualmente attribuiti da leggi posteriori, che comportino una protezione del diritto di autore più larga nel suo contenuto o di maggiore durata”. C’è stato un ampio dibattito sull’applicabilità dell’art. 119 l.d.a. ai contratti di cessione di diritto d’autore diversi da quelli di edizione di libri per la stampa.
Le interpretazioni
Alcuni autori[1] ritengono che la circostanza dell’avvento di un’innovazione tecnologica, non conosciuta o ipotizzabile al momento della conclusione del contratto comporti l’opportunità di applicazione analogica del divieto di cessione dei c.d. diritti futuri, previsto dall’art. 119 l.d.a. Il presupposto di questa teoria è che l’innovazione tecnologica e le nuove forme di sfruttamento dell’opera comportino un’estensione della portata dei diritti ceduti nel contratto. Secondo questa visione, tale estensione non può essere automaticamente inclusa nelle disposizioni contrattuali che, al contrario, possono riferirsi solo a ciò che le parti erano materialmente in grado di prevedere al momento della stipula del contratto.
Secondo un diverso approccio[2], invece, l’accordo relativo al trasferimento dei diritti economici può ben comprendere tutte le potenziali forme di sfruttamento dell’opera, anche se non tecnologicamente sviluppate al momento della stipula dell’accordo. Questa conclusione si basa sul presupposto che l’art. 119 l.d.a. sia applicabile solo ai contratti di edizione di libri e non ad altri contratti aventi ad oggetto la cessione di diritti d’autore su altri tipi di opere. Secondo la Corte di Cassazione, mentre i contratti di edizione di libri sono disciplinati da specifiche previsioni (tra cui l’art. 119 l.d.a.), i contratti aventi ad oggetto opere diverse sono da considerarsi contratti atipici, non regolati dalle disposizioni previste per il contratto di edizione “tradizionale” (Cass. n. 12086/2013 e 26626/2008).
Quest’ultimo orientamento sembra essere quello prevalente ed è stato confermato da una recente sentenza della Cassazione del 6 ottobre 2020, n. 21498. Ne discende che, ove il contratto di trasferimento (o licenza) dei diritti d’autore includa una clausola di cessione o licenza sulle nuove tecnologie, essa potrà essere considerata valida e – a seconda del suo tenore letterale – anche potenzialmente in grado di ricomprendere utilizzi dell’opera in questione nel metaverso o quale NFT.
Analoghe considerazioni si applicano in parte per i contratti di licenza o cessione di diritto d’autore di nuove opere, che ben potranno includere una clausola di cessione ad hoc che menziona espressamente gli utilizzi dell’opera quale NFT o anche nel più ampio contesto del metaverso.
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Note
- V. M. De Sanctis – M. Fabiani, I contralti del diritto d’autore, Milano 2007, 112; P. Greco – P. Vercellone, I diritti sulle opere dell’ingegno, in Trattato di diritto civile Italiano, II, Torino 1974, 277; P. Auteri, Contralto traslativo del diritto d’autore e principio dell’indipendenza delle facoltà di utilizzazione, in Rivista di Diritto Industriale, 1963, II, 127 ↑
- Cass., 2 ottobre 2012, n. 16771, in Foro It, 2012, 12, I, 3306; Cass., 17 maggio 2013, n. 12086, in Foro It, 2013, I, 3244. ↑