Quello che Francesco Carnelutti chiamava “il segno grafico riconducibile a un soggetto”, cioè la sottoscrizione, può subire una tetrapartizione concettuale in sigla, visto, firma e sottoscrizione. Possiamo anche, dopo un’analisi comparativa, avviare una analisi simmetrica dell’utilizzo sia per i documenti tradizionali che per quelli digitali.
Quanto diremo, infatti, è riconducibile in via diretta alla diplomatica, anche in questo caso sia tradizionale che digitale. Prima di iniziare, tuttavia, è necessario condividere i concetti di base, di sigla, visto, firma e sottoscrizione.
Sigla, visto, firma e sottoscrizione: cosa sono e le differenze
- Sigla: si appone su un atto imperfetto, cioè ancora non formato sotto il profilo della provenienza: sottoscritto o – nel caso delle deliberazioni – votato. Di norma, è compito del responsabile del procedimento amministrativo, con le competenze previste dall’art. 6 della legge 241/1990 (alcune differenze significative ci sono per il RUP in ambito di gare e appalti), per attestare la regolarità amministrativa dell’atto insinuato all’organo competente per l’adozione. Qui l’ordinamento è a volte impreciso. Infatti, si riscontra un “visto di regolarità contabile” in luogo della più corretta “sigla come attestazione di regolarità contabile”.
- Visto: si appone su un atto perfetto (quindi già sottoscritto), di norma per presa d’atto, per controllo, per avallo o, a volte, per autorizzazione. Ad esempio, il “Si liquidi” sulle fatture passive, l’autorizzazione sulla domanda di ferie (ma come presa d’atto nel caso di assenze riconosciute dalla legge) o, ancora, per i passaggi doganali. In diplomatica, si tratta di un rescritto, cioè di un’annotazione che si aggiunge a un documento preesistente non per produrne uno nuovo, ma per segnarvi decisioni, prese d’atto e controlli. La procedura era stata tipizzata già nel periodo dell’Italia preunitaria, sotto le dominazioni francese e asburgica.
- Sottoscrizione: è propria dell’autore. Chi scrive “sotto” è colui che fa l’azione descritta, assumendosi la paternità e la responsabilità giuridico-intellettuale di quanto scritto “sopra”. Non a caso, nella modulistica e nei formulari, ogni istanza inizia con “Il sottoscritto”, anche se poi a fine modulo non è riportata la sottoscrizione, bensì la firma. Piccoli disallineamenti concettuali e lessicali, che non inficiano la sostanza da un punto di vista diplomatistico.
- Firma: è propria del testimone. Quest’ultimo, infatti, conferma (dal latino cum-firmare) che quanto rappresentato in un verbale si è effettivamente svolto come descritto. Più semplicemente, conferma di aver presenziato al compimento o all’espressione di una volontà, tipicamente nei contratti, o in altri istituti giuridici: si pensi al matrimonio (più rapporto giuridico patrimoniale di contratto). I testimoni firmano, ma non sottoscrivono, perché presenziano ad un atto, il matrimonio, la cui sottoscrizione è posta in capo alle parti, i nubendi: sono loro che sottoscrivono. Se i testimoni sottoscrivessero, si sposerebbero.
Esempi di utilizzo
Facciamo qualche esempio concreto di utilizzo, anche con riferimento con quanto affermato nella rubrica “puntodelibere”.
Il verbale dell’adunanza di un collegio amministrativo è, in ambiente tradizionale, sottoscritto dal Segretario. Egli, infatti, è il pubblico ufficiale chiamato ad attestare, fedelmente e con capacità probatoria, rectius fino a querela di falso, quanto accaduto. Il verbale è siglato in ogni pagina solo dal Segretario. Il Presidente, invece, appone la propria firma solo sull’ultima pagina con valore di presa d’atto successivamente al passaggio nel collegio per una verifica di quanto il segretario verbalizzante ha riportato.
Gli allegati, infine, sono di norma vistati dal responsabile dell’Ufficio organi collegiali o, nel caso, dal Segretario. Si tratta, infatti, di un’attività attestativo-certificatoria in capo a chi detiene stabilmente il documento, cioè nel fascicolo di istruttoria che accompagna i singoli punti iscritti all’ordine del giorno.
Tentiamo ora una simmetria tra il mondo analogico e il mondo digitale, utilizzando i concetti di firma espressi nel Regolamento UE 910/2014 sull’identità digitale – eIDAS (electronic IDentification Authentication and Signature).
In linea di principio, si tratta di un’operazione metodologicamente non corretta, ma che comunque aiuta a far capire e a rassicurare coloro che vivono ancorati al mondo tradizionale i quali, pur negandolo allo sfinimento, continuano a vedere il mondo digitale come una replica del mondo analogico.
Come premessa, va considerato il fatto che nel mondo dei bit è imprescindibile che tutto il processo si svolga in ambiente digitale. Sembra scontato, dopo anni che lo andiamo ripetendo, ma si ritrovano esempi di promiscuità praticamente ovunque:
Supponiamo di voler digitalizzare (e non di dematerializzare, come di recente ripreso da articolo Flora e Mazzetto: “Conservazione elettronica, come creare un archivio digitale a prova di contenzioso”) l’intero processo decisionale di un organo collegiale, partendo dalla redazione delle proposte fino alla verbalizzazione dell’adunanza.
Nel caso degli organi collegiali, risultano sufficienti due livelli di firma elettronica:
- firma elettronica (user id/password) per sigla e visto:
- firma elettronica qualificata (in Italia, la firma digitale) per firma e sottoscrizione
Sigla e visto non depositati non consentono una riconduzione diretta del segno grafico al soggetto. Tale riferibilità può essere ricondotta attraverso ulteriori informazioni di contesto, magari mappate in un manuale di processo (chi è il Responsabile del procedimento, chi è il responsabile dell’area Amministrativa, chi è l’RPA dell’ufficio Organi, chi è il Direttore Generale) e, per tale motivo, possono essere considerate “meno sicure”. Di contro, sottoscrizione e firma sono segni grafici perfettamente riconducibili al soggetto, per cui deve essere utilizzata a una firma qualificata (firma digitale) intesa come “più affidabile”.
Potremmo, pertanto, prevedere l’uso della firma elettronica e di quella qualificata in funzione di quello che il Regolamento eIDAS definisce “grado di rischio”, collegandolo a quella che nel nostro ordinamento è l’efficacia giuridico-amministrativa del documento. Ad esempio, tutti gli atti endoprocedimentali non necessitano di una firma digitale, ma semplicemente di una firma elettronica. La loro rilevanza, infatti, è ascrivibile alla descrizione del processo con un “grado di rischio” basso. Di contro, un verbale o un decreto, dai quali possono sorgere diritti, doveri o legittime aspettative da parte di terzi, assumono un “grado di rischio” elevato. Per queste ragioni, hanno bisogno di un sistema di affidabilità maggiore (“qualificato”), in grado di mantenere in maniera persistente nel tempo prove autentiche sulla provenienza.
Ritornando all’esempio esposto, analizziamo il processo seguendo le due colonne che rappresentano la prima il mondo “analogico” e la seconda quello “digitale”. Nella prima il documento è la “carta”, il mezzo di comunicazione è il passaggio della stessa, lo strumento utilizzato è la “penna”; parallelamente nella seconda colonna il documento è un “file”, il mezzo di comunicazione è un “workflow” di un sistema di Gestione documentale, e lo strumento sono le “credenziali” di accesso a siffatto sistema:
Più in generale, tutti i processi delle amministrazioni pubbliche che prevedano fasi approvative endoprocedimentali, di controllo, attuative e decisionali possono essere realizzati in un mondo totalmente digitale alternando l’utilizzo di firme elettroniche a quelli di firma digitale accoppiate all’utilizzo di un sistema di Gestione Documentale; un esempio è rappresentato dal processo di liquidazione delle fatture così come previsto dalla legislazione vigente e ribadito nella Circolare MEF 3/2014.