Che cosa ostacola il decollo della blockchain in Italia? Quali i settori più promettenti? E che fare per sbloccare la situazione? Le risposte a questi quesiti trovano – e troveranno – spazio nella strategia italiana per la blockchain, che il 18 giugno il Ministero dello Sviluppo Economico ha posto in consultazione pubblica (fino al 20 luglio 2020).
Il documento – “Proposte per la Strategia italiana in materia di tecnologie basate su registri condivisi e Blockchain”, che la nostra testata ha potuto leggere nella sua interezza (ancorché non pubblico) – può servire insomma a contribuire al futuro di questa tecnologia.
Ricordiamo che il documento è frutto del lavoro del gruppo di 30 esperti nominati alla fine di dicembre 2018 unitamente all’ulteriore gruppo a sua volta incaricato di predisporre delle proposte, sempre strategiche, nell’ambito dell’intelligenza artificiale e che ha concluso il lavoro nel mese di luglio 2019. Sembra che in molte parti il documento sulla blockchain sia suscettibile di miglioramenti, ma, soprattutto, alcune scelte ed indicazioni vengono avanzate – in determinati casi in maniera contraddittoria tra loro – senza che se ne comprendano le motivazioni e scelte.
Vediamo i dettagli.
Il lavoro degli esperti
Pur se può sembrare che il “gruppo blockchain” abbia impiegato più tempo a predisporre le proprie indicazioni da sottoporre al Ministero, in verità non bisogna sottovalutare la circostanza che il tema delle tecnologie a registro distribuito e della blockchain è accompagnato da un alcuni elementi che necessitano di particolare attenzione, non da ultimo quello degli aspetti finanziari su cui molto si è discusso in questi anni, e che, con molta probabilità, ha richiesto una maggior cautela nel selezionare le linee strategiche da perseguire in un Paese come il nostro.
Chi voglia cimentarsi nel tentativo di proporre osservazioni e suggerimenti in sede di consultazione, si accorgerà immediatamente di un diverso approccio di metodo utilizzato dallo stesso Ministero rispetto a quello adottato per l’intelligenza artificiale. Mentre in tal caso erano stati messi a disposizione un documento di sintesi proveniente dal Ministero con le indicazioni strategiche vere e proprie ed un più ampio documento elaborato dal gruppo di esperti, nella consultazione in commento relativa alla strategia sui registri distribuiti e la blockchain (parola che dovrebbe essere riportata con la “b” minuscola e non maiuscola per evitare fraintendimenti) è stato messo a disposizione solamente un documento di “Sintesi per la consultazione pubblica” senza dare alcuna possibilità di consultare il frutto del lavoro del gruppo (pur apparendo evidenziato con link nel sito del Ministero).
Agendadigitale.eu ha potuto leggere il documento effettivo, per quest’analisi.
Tuttavia la totale assenza di riferimenti a ciò che è stato fatto dal legislatore nazionale con l’art. 8 ter della legge 12/2019 – che ha introdotto la definizione delle tecnologie a registro distribuito e degli smart contract disciplinandone anche l’efficacia – nonché al lavoro svolto dalla Consob tramite la consultazione pubblica sulle cripto-attività, terminata con una relazione finale pubblicata a gennaio 2020, potrebbe far sembrare che le proposte del Ministero costituiscano una monade isolata ed auto-consistente, in contrasto però con l’aspirazione unitaria e di strategia nazionale che vorrebbero avere.
Le linee generali
Ad ogni modo, volendo comunque cercare di analizzare il documento presentato dal MISE, esso è costituito da un’analisi generale e dall’individuazione di settori chiave cui indirizzare investimenti ed attività di promozione delle tecnologie a registro distribuito e della blockchain, a cui fanno seguito delle “raccomandazioni” specifiche per l’utilizzo delle stesse. Innanzitutto, il documento di proposte richiamando uno studio dell’OECD (Organization for Economic Cooperation and Development) individua i seguenti ostacoli all’adozione in Italia delle DLT e della blockchain:
- Incertezza normativa
- Carenza di informazione e consapevolezza
- Accesso ai finanziamenti
- Carenza di competenze e talenti
Sempre nella parte generale si dichiara, quindi, che le proposte mirano ad eliminare tali ostacoli suggerendo una serie di interventi che dovrebbero raggiungere obiettivi di competitività regolatoria, aumento degli investimenti, ampliamento dei campi applicativi di dette tecnologie nei settori chiave dell’economia italiana, miglioramento dell’efficienza della pubblica amministrazione, promozione della cooperazione europea, utilizzo della tecnologia per la transizione ad un’economia circolare, nonché promozione dell’informazione e della consapevolezza tra i cittadini. Già nella definizione degli obiettivi, quindi, il documento sembra non tener conto dell’ostacolo, pur precedentemente richiamato, relativo alla “carenza di competenze e talenti”, e vedremo, in seguito, come ciò si rifletta nelle raccomandazioni specifiche dedicate alla formazione e divulgazione.
Il MISE prosegue poi con alcune indicazioni di carattere generale che, in verità, non aggiungono molto ad una politica strategica trattandosi di dichiarazioni che potrebbero essere applicate a qualsiasi tecnologia. Il riferimento al quadro “comunitario”, che dovrebbe essere in verità definito “europeo” dato che la Comunità Economica Europea è cessata da tempo, è alle iniziative dell’Unione Europea a cui l’Italia partecipa, nonché dal punto di vista regolatorio, al Regolamento (UE) n. 679/2016 (GDPR) ed al Regolamento (UE) n. 910/2014 (eIDAS). Sempre a livello di dichiarazioni generali, si afferma che l’Italia garantisce un “consistente e costante flusso di investimenti pubblici” volti a favorire l’uso e lo sviluppo delle tecnologie Blockchain/DLT. È inserito un richiamo alle sperimentazioni, con possibilità di estendere la sandbox già introdotta nel settore Fintech (e Insurtech aggiungiamo noi) dal d.l. n. 34/2019 convertito nella l. n. 58/2019 anche ad altri settori quali industria 4.0 e “automotive”.
Viene inoltre proposta l’attivazione, con le modalità individuate dal Governo, di una struttura unitaria per una “Governance nazionale per le tecnologie innovative” con alcune competenze che, a parere di chi scrive, sembrerebbero già in parte rientrare nell’ambito di quelle del Ministro per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione. Infine, sempre in linea generale, per la promozione dell’economia circolare si suggerisce di favorire nelle aree metropolitane delle iniziative di partenariato pubblico/privato per la creazione di piattaforme gestite da ecosistemi di imprese, pubbliche amministrazioni e fornitori di servizi con creazione di token di utilità quali strumenti di incentivazione dei cittadini per comportamenti virtuosi. In tale azione sarebbe altresì necessario, secondo il documento, rimuovere gli ostacoli anche normativi contrastanti con tali misure, quali ad esempio nel campo dei concorsi a premio e dei programmi di fidelizzazione. Tale proposta, seppur assolutamente da perseguire, non può esimerci dal sottolineare che necessita di ulteriori approfondimenti – che forse sono contenuti nel documento redatto dal gruppo di lavoro – dato che, così sinteticamente formulata, non appare pienamente comprensibile. Le pubbliche amministrazioni, infatti, non sono di certo ostacolate nel loro agire dalla normativa sui concorsi a premio o sui programmi di fidelizzazione, attività che oltretutto difficilmente rientrerebbero nell’esercizio delle loro funzioni amministrative e non si comprende come i cittadini potrebbero utilizzare verso la P.A. dei token di utilità rilasciati per “comportamenti virtuosi” dato che, ovviamente, l’amministrazione non può applicare sconti o benefici sui servizi pubblici che rende.
I settori chiave in cui investire
Il documento di proposte del MISE individua poi alcuni settori verso cui dovrebbero essere promosse azioni di investimento ed incentivazione all’uso delle DLT e della blockchain. Detti settori comprendono: l’industria e la manifattura, il settore agroalimentare, il made in Italy, le infrastrutture critiche e comunicazioni elettroniche, le reti energetiche, i Sustainable Development Goals, le costruzioni edili, la difesa della proprietà intellettuale, il terziario avanzato e modelli cooperativi, il Fintech e i pagamenti digitali. È opportuno evidenziare che il documento, nell’ultima parte, individua anche delle raccomandazioni per l’utilizzo delle tecnologie a registro distribuito nell’ambito della pubblica amministrazione, individuando settori specifici della stessa (quali, tra l’altro, la sanità e l’emissione di certificati di studio e professionali).
Sembrerebbe, quindi, che vi sia una mancanza di coordinamento tra le proposte relative ai settori considerati da incentivare in ambito privato rispetto a quelli del settore pubblico. Se, infatti, uno dei campi di intervento è la sanità pubblica non può sottovalutarsi la circostanza che in tale settore partecipano attivamente molti soggetti privati. Ciò vale anche nel settore dell’istruzione, vista l’ampia diffusione di istituti paritari e di università private in Italia. È evidente, pertanto, che i settori di interesse devono essere considerati come binari paralleli: se un settore è ritenuto degno di essere incentivato all’utilizzo delle DLT e della blockchain nella pubblica amministrazione esso dovrà essere ricompreso in quelli per cui si ritiene di investire nel settore privato.
Un’ultima considerazione con riferimento ai settori individuati nel documento e, specificamente, a quello industriale e manifatturiero e alle costruzioni edili. Per queste ultime viene citata l’estensione del metodo BIM, che trova un suo parallelo nel campo industriale nel cd. digital twin. Le rappresentazioni digitali di asset fisici (costruzioni o prodotti), per poter trovare applicazione in ambito DLT e blockchain, necessitano preliminarmente di una corretta tutela giuridica, sia dal punto di vista della proprietà intellettuale sia quale know-how aziendale se non come trade secrets. Nessun imprenditore vorrà mai utilizzare un sistema che rende pubblici i propri metodi lavorativi o i propri schemi di prodotti se non è sicuro di essere ampiamente tutelato per i casi di contraffazione o di furto di segreti industriali. Il passo preliminare per poter incentivare tali iniziative, quindi, è necessariamente quello di chiarire il quadro giuridico di tutela in cui si pongono, rimanendo altrimenti inutile qualsiasi forma di incentivazione.
Identità digitale e SSI (Self Sovereign Identity)
Il documento tratta anche il tema delle SSI, in un coordinamento tra i paragrafi che però appare errato (il paragrafo 2.4 richiama la “raccomandazione 30” che però non esiste nel documento mentre il tema è ripreso al punto 2.22.3). Anche in tale ipotesi viene genericamente affermato che bisognerebbe incentivare l’uso di tali funzionalità tramite una sandbox, raccomandando poi al successivo paragrafo 2.22.3, che è in gran parte descrittivo della soluzione tecnologica delle SSI, la necessità che tali soluzioni siano implementate su standard internazionali (W3C), affiancando o sostituendo gli attuali sistemi centralizzati (come SPID). L’argomento delle SSI è uno dei più importanti tra quelli che riguardano le applicazioni delle DLT e della blockchain, potendo introdurre un vero e proprio cambio di paradigma in quella che è la gestione dell’identità digitale dei cittadini (ma non solo) nell’ambito delle comunicazioni elettroniche.
L’amico Giovanni Manca, che sicuramente è in Italia uno dei maggiori esperti sul tema, aveva già pubblicato su questa rivista alcune osservazioni sulle SSI evidenziando il lavoro che si sta svolgendo in ambito europeo e, più precisamente, la pubblicazione di uno specifico documento, nello scorso mese di aprile 2020, da parte della Commissione Europea. In particolare, il documento della Commissione evidenzia i rapporti tra il Regolamento (UE) n. 910/2014 (eIDAS) e le soluzioni di Self Sovereign Identity, proponendo un approccio a tre stadi per consentire l’utilizzo delle SSI nell’ambito del quadro giuridico disegnato dal Regolamento nonché le misure che sarebbero necessarie, de jure condendo, per adeguare la norma regolamentare a tali nuove tecnologie (norma che dovrebbe essere in revisione proprio dal mese di luglio 2020).
Stupisce, quindi, che nel documento di proposte del MISE non si faccia alcun cenno di tutto ciò (pur avendo citato, nella parte generale, il riferimento al quadro europeo ed al Regolamento eIDAS) anche in considerazione del fatto che il nostro Paese è uno di quelli in Europa in cui vi è la maggior diffusione sia delle firme elettroniche sia delle identità digitali (gli ultimi dati su SPID ne evidenziano una costante diffusione ed utilizzo da parte dei cittadini). Sarebbe maggiormente auspicabile, quindi, che questa “raccomandazione” prevedesse un maggior coinvolgimento degli operatori che già in Italia hanno un’esperienza quasi ventennale su tali strumenti, prevedendo che l’auspicata sandbox sia costituita con la partecipazione di tali soggetti nonché con le startup o le aziende più giovani che propongono soluzioni innovative in materia.
Le raccomandazioni
Per esigenze di spazio, e per non tediare ulteriormente i lettori, di seguito ci preme indicare gli ulteriori aspetti del documento che meriterebbero approfondimenti, specialmente in merito alle raccomandazioni proposte.
Token digitali gestiti attraverso un registro distribuito
Pur se lo scopo della raccomandazione – che richiama il concetto di cripto-attività senza però far riferimento al documento Consob – appare meritevole di considerazione, ossia la necessità di introdurre una definizione tassonomica alle tipologie di token gestiti attraverso blockchain, in verità la definizione in essa contenuta parte da un presupposto errato. Nell’ambito degli “utility token” il MISE ricomprende i token “rappresentativi di servizi e beni, materiali o immateriali, non rappresentativi di strumenti/prodotti finanziari né aventi natura monetaria, attributivi di diritti di utilizzo, godimento o proprietà al loro possessore sul bene che i token esprimono”. La definizione non può ritenersi corretta, in quanto gli utility token si distinguono dalle altre tipologie di token per il loro carattere “consumabile”, ossia per fornire, tipicamente diritti amministrativi o licenze d’uso al fine di usufruire di una piattaforma o di ottenere incentivi in piani di fidelizzazione (si vd. l’Occasional Paper della Banca d’Italia su “Aspetti economici e regolamentari delle “cripto-attività”, pubblicato a marzo 2019).
Un utility token non conferisce “diritti di proprietà” sul bene che esprime, perché altrimenti sarebbe un “asset token” che, qualora relativo a scopi di investimento da parte del possessore, potrebbe rientrare nel concetto di prodotto finanziario e, quindi, di security token. Le difficoltà definitorie circa la natura dei token, inoltre, derivano dalla loro caratteristica di essere oggetti “programmabili” preesistenti alla norma giuridica. Essi possono incorporare una svariata serie di diritti e situazioni, particolarità che potrebbe farli sfuggire dalle rigide classificazioni eventualmente imposte dalle disposizioni legislative. E’ per tali motivi che la Consob, insieme ad altre autorità di regolazione europee, hanno proposto soluzioni particolari basati su regimi volontari di sottoposizione alla vigilanza (quindi proprio soluzioni tipo “sandbox” più volte richiamate nel documento, ma non in questa raccomandazione). Sarebbe, quindi, più utile che le raccomandazioni facessero proprie le conclusioni a cui è giunta la Consob, consentendo, finalmente, di poter operare in tale settore senza più avere incertezze derivanti dalla mancanza di chiare categorie classificatorie.
Value chain delle cripto-attività
Un’altra raccomandazione è quella relativa alla valorizzazione dell’ecosistema nazionale delle imprese operanti nella value chain delle cripto-attività (che dovrebbe coordinarsi con quella relativa all’applicazione della normativa antiriciclaggio). La proposta, però, si concentra unicamente sugli aspetti definitori delle “valute virtuali” così come recepita nel nostro ordinamento prima con il d.l.vo 90/2017 e poi con il d.l.vo n. 125/2019 che hanno modificato la disciplina italiana al contrasto del riciclaggio del denaro in attuazione della V direttiva europea. Ora, dalla lettura di tali due raccomandazioni, si potrebbe ritenere che la “value chain” delle cripto-attività, ossia il complesso delle aziende ed attori coinvolti nel creare valore in tale settore, si incentivi principalmente ed unicamente modificando tali definizioni normative. La verità, però, è che il tema della definizione delle “valute virtuali” riguarda esclusivamente quei soggetti che effettuano attività di cambiavalute o di gestori di portafoglio virtuale (oltre a quelli che sarebbero coinvolti dall’infelice dicitura contenuta nella bozza del decreto attuativo MEF che estende la disciplina ai soggetti che accettano pagamento in valuta virtuale nell’esercizio di un’attività commerciale).
A nostro parere però la raccomandazione, seppur meritoria, avrebbe un impatto limitato rispetto al complesso degli operatori della “value chain”, riguardando unicamente coloro che svolgono le attività connesse all’utilizzo delle cripto-attività quale strumento di scambio di valore. Ci saremmo aspettati dal Ministero dello Sviluppo Economico una maggior attenzione per tutti gli altri soggetti che, oltre a prestare attività legata agli scambi di cripto-attività, operano in tale ecosistema con altre funzioni (startup innovative, centri di ricerca, aziende tecnologiche, etc.), magari introducendo dei veri incentivi per l’aggregazione e la condivisione di risorse valorizzando effettivamente in tal modo il loro operato e rafforzando la loro posizione sul mercato, risultati per il raggiungimento dei quali non sembra sufficiente modificare unicamente qualche disposizione definitoria nella normativa antiriciclaggio.
PPP, ricerca e formazione
Le raccomandazioni in merito ai settori della ricerca e della formazione si aprono con la proposizione di un “sistematico” ricorso alle public private partnership (PPP), con la proposizione di “programmi di divulgazione” unitamente ad un progetto unitario di divulgazione con comunicazione “transmediale” il quale produca un set di materiali disponibili a licenza aperta. Per la formazione a livello universitario, la proposta è di “amalgamare in modo coerente le competenze e contribuire alla formazione di figure professionali specifiche nel campo di queste tecnologie”. Infine si propone la costituzione di un “gruppo di coordinamento inter-istituzionale” – evidentemente differente dalla “struttura unitaria” proposta nel medesimo documento al punto 2.1.5 e di cui abbiamo già trattato sopra – con funzioni consultive formato da membri delle istituzioni e da esperti esterni.
Le proposte, in verità, non sembrano risolutive dei problemi evidenziate dall’OECD ed appaiono eccessivamente sbilanciate verso la divulgazione rispetto alla carenza di competenze e talenti segnalata dall’Organizzazione. Le competenze in ambito universitario possono essere create solamente attraverso la predisposizione di specifici curricula che indichino i percorsi necessari ad ottenerle. Non sembra sia sufficiente “amalgamare le competenze” dato che la tecnologia blockchain, così come tutte le tecnologie informatiche, richiedono specifiche conoscenze tecniche che, anzi, si caratterizzano per una particolare tendenza alla verticalizzazione (basti pensare a quante diverse figure tecniche professionali esistono nel settore tecnologico, a seconda dei sistemi utilizzati, del settore di applicazione, etc.). Sarebbe probabilmente più efficace proporre la creazione di corsi di laurea biennali con indirizzo “blockchain e DLT” che vengano riconosciuti dal MIUR ai fini della carriera formativa universitaria o dei master post-universitari erogati dalle facoltà scientifiche del nostro Paese.
Applicazione dei registri distribuiti nella PA
Nella parte di raccomandazioni generali per l’applicazione della tecnologia blockchain e DLT nel settore della pubblica amministrazione il documento sembra subire un cambio di tono. Dalle affermazioni di ampio respiro ed in gran parte positive svolte nella prima parte si passa, infatti, ad un atteggiamento prudenziale sul presupposto che gli effetti di tali tecnologie non sarebbero del tutto noti e che non vi siano ancora sufficienti elementi di valutazione. Così tutta l’introduzione contenuta nel punto 2.22 elenca una serie di considerazioni per declinare “i nuovi paradigmi di amministrazione decentralizzata”, le quali, a ben vedere, potrebbero valere per qualsiasi tecnologia da applicare in qualsiasi settore (e non solo alla P.A.) dato che si fa riferimento ad “infrastrutture ad alte prestazioni, velocità delle transazioni, scalabilità” nonché a “appropriata gestione del ciclo di vita dei dati”, a “certezza giuridica e regolamentazione efficace” (con gli immancabili riferimenti generici al GDPR).
Il paragrafo conclude affermando che lo sviluppo di servizi decentralizzati dovrà realizzarsi in armonia con il sistema giuridico complessivamente considerato, chiarendo quindi, forse in maniera superflua, che non possono essere realizzate soluzioni che contrastino con le normative, e che in tal senso sarà necessaria una valutazione ad hoc di ogni proposta applicativa. Viene ulteriormente suggerito di effettuare una valutazione di impatto delle proposte applicative, ed infine, per evitare il proliferare di piattaforme legate ad iniziative ed esperimenti locali, la costituzione di una rete infrastrutturale per la P.A. (la “Rete Nazionale Blockchain”) da ricondurre nell’ambito della European Blockchain Partnership.
Tali affermazioni generali appaiono però poi contraddette nel prosieguo del documento, dal punto 2.22.4 in poi, in cui per specifici settori si raccomanda invece di avviare delle sperimentazioni particolari (per le attività certificative, per gli smart contract, per la sanità, per i certificati di studio e professionali) nonché con le altre indicazioni contenute nel medesimo documento, come ad esempio in tema di “economia circolare” in cui si sollecitano attività di sperimentazione a livello anche di città metropolitane.
E-procurement e la “ceralacca digitale”
Infine, in tema di e-procurement oltre a raccomandare anche in tal caso l’avvio di sperimentazioni, si fa un espresso riferimento al concetto di crono-marcatura temporale (o timestamping) o di ceralacca digitale. Ebbene, il concetto di “ceralacca digitale” in realtà non esiste nel nostro ordinamento né ci sembra sia stato mai utilizzato in alcun atto o regola tecnica di disciplina degli strumenti informatici nella P.A.. Nel cercare di ottenere più informazioni su tale locuzione siamo rimasti abbastanza stupiti dalla scoperta che trattasi della denominazione di un progetto presentato da un’azienda privata tempo fa in occasione di un hackaton. Non può sottacersi il fatto che riportare espressamente la denominazione di uno specifico progetto privato all’interno di un documento di pubbliche raccomandazioni promosse da un Ministero per il supporto all’uso di una determinata tecnologia non appare del tutto corretto, soprattutto alla luce di quel principio di “neutralità tecnologica” – richiamato anche nelle proposte in commento – per la violazione del quale già l’Italia ha subito sanzioni da parte dell’Unione Europea in altre occasioni.
Conclusioni
Sarebbe stato forse più opportuno, e sicuramente avrebbe maggiormente contribuito allo sviluppo di un dibattito costruttivo, mettere a disposizione nella consultazione pubblica anche il lavoro svolto dal gruppo di lavoro, così come già fatto per la consultazione sulla strategia in materia di intelligenza artificiale, dando così modo di avere contezza delle indicazioni avanzate dagli esperti e delle motivazioni poste alla base della loro selezione. Infine, sotto il profilo sostanziale, a noi sembra che il documento pecchi di vere e proprie proposte d’impatto in merito alle azioni strategiche da porre in essere. Tutto si risolve in tre linee: a) creazione di sandbox normative; b) avvio di sperimentazioni; c) istituzione di organismi di coordinamento a livello inter-istituzionale.
Ciò senza alcun riferimento a quanto già fatto dall’Italia a livello normativo e da altre istituzioni ed autorità che pur hanno svolto a loro volta consultazioni pubbliche in materia. Un Paese che aspira ad avere un ruolo primario, in Europa e nel mondo, in un determinato settore tecnologico dovrebbe incentivare ed introdurre strumenti per tutti coloro che vi operano, tenendo in considerazione anche la frammentaria realtà imprenditoriale italiana che il MISE ben dovrebbe conoscere. Ci saremmo quindi aspettati di trovare proposte per l’istituzione di “distretti blockchain”, così come la Svizzera ha creato le “cryptovalley”, incentivando la condivisione di esperienze e conoscenze tra coloro che operano nel settore, oppure la previsione di apposite forme di agevolazione per startup, incubatori ed acceleratori; si sarebbe potuto prevedere la costituzione di appositi “Centri di eccellenza”, formati da università, centri di ricerca ed imprese in cui sviluppare progettualità nuove e di impatto tecnologico.
Tutto ciò però è assente nel documento di proposte strategiche del MISE. Il sentore, da parte di chi come il sottoscritto segue oramai da tempo le vicende italiane, e non solo, che riguardano questo settore, ma anche alla luce degli esiti di quella che è stata la precedente strategia sull’intelligenza artificiale alla quale – a distanza di un anno – non è seguita alcuna azione concreta, è che probabilmente si tratta di un documento strategico programmatico che, purtroppo, non troverà mai attuazione, così come finora sono rimasti lettera morta gli altri provvedimenti che avrebbero dovuto rivoluzionare il settore della tecnologia in Italia, facendo così rimanere il nostro Paese tra quelli in fondo alla classifica dell’indice DESI.