È un inizio di 2023 depotenziato per gli incentivi alla digitalizzazione delle imprese, sensibilmente ridotti o addirittura azzerati. Come d’altronde previsto dall’ultima versione del piano Transizione 4.0, finanziata con le risorse del PNRR e firmata dal Governo Draghi. Ci si augurava, tuttavia, che a porre rimedio fosse la legge di bilancio 2023, varata alla fine di dicembre, che non è intervenuta sulla materia se non per posticipare da giugno a settembre dell’anno appena iniziato la scadenza per la consegna dei beni materiali 4.0 soggetti alla più elevata aliquota 2022, a condizione che entro il 31 dicembre del 2022 fosse stato versato un acconto di almeno il 20%.
Una proroga che secondo gli operatori potrebbe non bastare, tenuto conto anche dei ritardi nelle consegne dovuti alle note difficoltà di approvvigionamento nelle catene del valore. Non si esclude dunque che un emendamento del Decreto milleproroghe, varato dal Governo alla fine dello scorso anno e che dovrà essere convertito entro febbraio, possa estendere il periodo di tolleranza di altri tre mesi. Ma, anche qualora dovesse verificarsi questa eventualità, il quadro complessivo si modificherebbe di poco, se guardiamo alla questione quantomeno con un’ottica di medio termine.
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Ecco perché le maggiori speranze del momento vengono riposte in una riforma complessiva del piano Transizione 4.0, annunciata nel novembre scorso dal Ministro delle imprese e del made in Italy, Adolfo Urso. E che dovrebbe essere varata, se tutto va bene, nei primi mesi di quest’anno. Sullo sfondo, ma fino a un certo punto, i negoziati con la Commissione europea per coprire le spese aggiuntive con i residui del PNRR non utilizzati finora.
Transizione 4.0, cosa succede da gennaio 2023
Il piano Transizione 4.0 è stato finanziato nell’ambito della Missione 1 – Componente 2 “Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo”, con una dotazione finanziaria di 13,381 miliardi di euro (a cui si aggiungono 5,08 miliardi di euro del Fondo complementare) e l’obiettivo di sostenere la trasformazione digitale delle imprese incentivando gli investimenti privati in beni e attività a sostegno della digitalizzazione attraverso il riconoscimento di un credito di imposta a fronte di: acquisto di beni materiali; acquisto di beni immateriali 4.0 (es. software avanzati); acquisto di beni immateriali tradizionali (es. software di base); attività di R&D&I; attività di formazione 4.0. I beni materiali e immateriali 4.0 soggetti al regime di incentivazione sono specificati nei due Allegati (A e B) predisposti dall’allora Ministero dello Sviluppo economico.
Nello specifico, le forme di sostegno a Transizione 4.0 affondano le loro radici nel 2016, con il lancio del Piano Nazionale Industria 4.0. Il Piano si proponeva di sostenere ed incentivare l’innovazione tecnologica del tessuto industriale e imprenditoriale italiano principalmente attraverso tre direttrici: operare in una logica di neutralità tecnologica, intervenire con azioni orizzontali e non settoriali, agire su fattori abilitanti.
I principali strumenti operativi messi in campo dal Piano Industria 4.0 erano l’iperammortamento e il superammortamento: il primo del 250% nel caso di acquisto di beni materiali nuovi, dispositivi e tecnologie abilitanti la trasformazione in chiave 4.0 e il secondo del 140% per l’acquisto di beni immateriali (software, sistemi e system integration, piattaforme e applicazioni), compiuti da imprese che già hanno beneficiato dell’iperammortamento. A questi si andavano a sommare la Nuova Sabatini, finalizzata a migliorare l’accesso al credito delle micro, piccole e medie imprese per l’acquisto di nuovi macchinari, impianti e attrezzature, consentendo alle imprese di ottenere un contributo a parziale copertura degli interessi su finanziamenti bancari di importo compreso tra 20.000 e 2.000.000 euro; il credito d’imposta R&D del 50% su spese incrementali in ricerca e sviluppo, fino a un massimo annuale di 20 milioni di euro l’anno per beneficiario; il cosiddetto “patent box”, che prevedeva una riduzione delle aliquote IRES e IRAP del 50% sui redditi d’impresa connessi all’uso diretto o indiretto (ovvero in licenza d’uso) di beni immateriali, rispetto ai quali il contribuente conducesse attività di R&S connesse al loro mantenimento o sviluppo.
Le modifiche intervenute nel tempo hanno condotto al superamento del Piano Industria 4.0 dapprima in favore del Piano Impresa 4.0, già nel 2018, e, poi, del Piano Transizione 4.0 che da ultimo è stato rimodulato ad opera del PNRR. Tra le prime modifiche normative introdotte, la legge di bilancio 2020 ha disposto il superamento del sistema dell’iperammortamento e del superammortamento in favore di un credito d’imposta.
La disciplina del credito di imposta
La disciplina del credito d’imposta è stata poi oggetto di ulteriori modifiche e proroghe ad opera della legge di bilancio 2021, del decreto-legge Proroga termini ed infine della legge di bilancio 2022 che, per il triennio 2023-2025, ha inserito dei correttivi anche alla luce degli obiettivi del PNRR.
Dal primo gennaio 2023 è scaduto tout court sia il regime di favore per l’acquisto di beni materiali e immateriali tradizionali che per le attività di formazione 4.0. Mentre si prevedono tagli significativi per l’acquisto di beni strumentali 4.0 (sia materiali che immateriali) così come per le attività di ricerca, sviluppo e innovazione. Per i beni materiali 4.0, è stabilito un dimezzamento per tutte le classi di investimento: dal 40% al 20% fino a 2,5 milioni di euro; dal 20% al 10% da 2,5 a 10 milioni di euro e dal 10% al 5% da 10 a 20 milioni di euro (che è il tetto massimo ammissibile). Il taglio è ancora maggiore per i beni immateriali 4.0, dal 50 al 20% (fino a un tetto di 1 milione di euro). Mentre vale ancora la regola del dimezzamento (dal 20 al 10%) per le attività di ricerca di base, industriale e sperimentale. La scure è più lieve (ma su aliquote di partenza più ridotte) solo per le attività di innovazione tecnologica “green”, che godranno di un credito d’imposta sceso dal 15% al 10%.
I risultati delle policy per la digitalizzazione delle imprese
È complicato giudicare l’impatto complessivo del piano Industria 4.0 e tanto più di quelli seguenti, da ultimo il piano Transizione 4.0. Per vari motivi: dall’estrema variabilità delle misure, cambiate pressoché ogni anno (se non più volte all’anno), e dall’aleatorietà del contesto economico di riferimento, caratterizzato da due gravi crisi di carattere internazionale, fino al lag temporale con il quale i dati (specie di carattere fiscale) diventano disponibili. Ma anche alla difficoltà di attribuire le decisioni concrete di investimento alla presenza degli incentivi, o ad altri fattori (es. la maggiore competizione internazionale), e di comprendere se e come questi investimenti, eventualmente favoriti dai regimi incentivanti che si sono succeduti negli ultimi sei anni, si siano riflessi in una maggiore produttività dei fattori, il cui innalzamento è vero e ultimo obiettivo di queste misure.
Dobbiamo dunque accontentarci perlopiù di dati parziali. In altre parole, provando a individuare, al posto di prove evidenti, una serie di indizi concordanti.
D’altronde, non è probabilmente un caso se, nei 6 anni precedenti il 2017, gli investimenti delle imprese siano diminuiti quattro volte su sei mentre nei 6 anni successivi siano sempre aumentati tranne nel 2020, annus horribilis della pandemia (fonte: Banca d’Italia, Indagine sulle imprese industriali e dei servizi, 2022). Così come non sembra essere un caso la risalita nell’indice DESI, pubblicato ogni anno dalla Commissione europea, relativamente alla dimensione dell’integrazione delle tecnologie digitali nelle attività d’impresa. Se prendiamo l’edizione 2017 (che si basa in larga parte su dati 2016 e in alcuni casi 2015), vediamo che tra gli allora 28 Stati membri UE l’Italia si piazzava al ventesimo posto (diciannovesimo senza considerare il Regno Unito, che al tempo non aveva ancora formalizzato l’uscita dall’Unione). L’Italia si trovava in compagnia di Romania, Bulgaria, Ungheria, Lettonia e Polonia (quest’ultima che faceva peraltro leggermente meglio di noi) nella non invidiabile posizione di avere una maggioranza di imprese che non avevano ancora investito con una qualche significatività nella transizione digitale.
Nell’edizione 2022 (basata su dati 2021 e, in minor misura, 2020), l’Italia si è classificata ottava, prima tra i grandi Paesi europei (per la cronaca, la Spagna era undicesima, la Germania sedicesima, la Francia addirittura ventesima). Più del 60% delle imprese risulta aver investito in tecnologie digitali quantomeno di base, in maniera relativamente significativa. Performance tanto più notevole se si considera che, pur registrando progressi rispetto alle edizioni precedenti, l’Italia non è andata oltre il diciottesimo posto complessivo, risultando ampiamente sotto la media europea sia sulle competenze digitali che sull’e-government, mentre è andata meglio per la connettività, grazie soprattutto all’aumento della copertura 5G. A incidere positivamente sul buon risultato del sotto-indice relativo all’integrazione delle tecnologie digitali l’uso della fatturazione elettronica, il ricorso al cloud e la percentuale di PMI con almeno un livello base di intensità digitale. Certamente si può e si deve fare ancora meglio ma i risultati fin qui ottenuti non appaiono trascurabili, soprattutto dato il contesto complessivo.
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Quanto poi si sia investito o meno per effetto degli incentivi rimane una delle questioni chiave da porsi, come già accennato. Un recentissimo studio dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (INAPP), ente pubblico di ricerca che si occupa delle policy che impattano sul mercato del lavoro, ha stimato gli effetti del piano Industria 4.0 e dei bonus occupazionali in base a una rilevazione condotta su dati 2018 su un campione rappresentativo di 30.000 società operanti nel settore privato non agricolo. Il 39,3% delle imprese che hanno ottenuto agevolazioni legate a Industria 4.0 ha dichiarato di avere investito grazie ad esse contro il 40,8% che ha detto di aver assunto grazie alle decontribuzioni previste. Ma la cosa più interessante è che questa percentuale va ad aumentare al crescere della dimensione aziendale nel caso di Industria 4.0 (fino al 48,8% per le imprese con un numero di dipendenti compreso tra 10 e 49 e al 42,1% per quelle tra 50 e 249) mentre, a differenza dei bonus occupazionali, risulta decisamente minore per le micro-imprese (32,9%) oltre che per quelle di maggiori dimensioni (32,3%). Molto significativo anche il dato geografico (nel Sud e Isole la percentuale di imprese che riconosce il traino dell’incentivo è del 49,1% contro il 38,5% del Nord-Ovest, il 30% del Centro e il 36,3% del Nord-Est). Infine, maggiore l’incidenza nell’industria (il 49,7% contro il 33,1% dei servizi), all’opposto di quanto accaduto per i bonus contributivi sulle assunzioni.
Naturalmente, sono passati ormai un certo numero di anni e il piano, nel frattempo ribattezzato Transizione 4.0, si presenta molto diversamente dalle origini, ma i risultati dell’analisi appaiono interessanti (e sarebbe semmai bene poterla ripetere, se possibile con maggiore tempestività, sul nuovo programma, anche grazie alla recente creazione del comitato scientifico, una milestone dello stesso PNRR completata nel secondo semestre del 2021). Per ora, il monitoraggio dei risultati del PNRR si ferma all’adesione alle diverse misure. In base al report pubblicato dal Ministero delle imprese e del made in Italy nel novembre scorso, gli unici dati disponibili si riferiscono ai crediti maturati nel corso del periodo d’imposta 2020, per un totale di 2,2 miliardi di euro. Di questi, 963 milioni di euro fanno capo ai beni materiali 4.0, 805 milioni di euro alle attività di ricerca, sviluppo e innovazione, 430 milioni alla formazione 4.0. Decisamente trascurabili gli apporti dei beni immateriali 4.0 (20 milioni di euro) e dei beni materiali e immateriali tradizionali (7 milioni di euro). Per la componente immateriale di questi ultimi, va tuttavia precisato che i dati si riferiscono esclusivamente a un periodo di imposta di un mese e mezzo (16 novembre-31 dicembre 2020).
Revisione di Transizione 4.0: lo scenario
Detto che maggiori investimenti in digitalizzazione (e nella transizione ecologica) sono indispensabili per un’economia in salute, un presupposto dello stesso PNRR, e che la crescita la fanno in primis le imprese (come anche più volte ribadito da autorevoli esponenti dell’attuale Governo), sarebbe un delitto depotenziare un programma come Transizione 4.0, ad oggi di gran lunga il principale strumento in campo per accelerare l’innovazione del capitalismo italiano. Peraltro, il principale vantaggio di misure fiscali automatiche e di facile accessibilità come quelle contenute nel piano Industria 4.0 e poi in Impresa 4.0 e Transizione 4.0 è quello di favorire la partecipazione delle PMI, che sono proprio i soggetti che hanno bisogno della maggiore spinta per abbracciare con convinzione la transizione digitale (oltre a costituire la stragrande maggioranza delle aziende italiane e dunque il tessuto indispensabile del sistema produttivo italiano). Dopo aver conseguito quelli che, secondo le evidenze disponibili e molte autorevoli opinioni, possono essere ritenuti buoni risultati, stoppare la macchina o rallentarla troppo potrebbe provocare danni gravi anche perché la strada da percorrere è certamente ancora lunga. Ricordandoci sempre che l’innovazione è frutto di un processo continuo nel tempo e non di un’azione una tantum. Anche perché da un’attività innovativa ne discendono altre. E dunque bloccare o diminuire gli incentivi rischia di tagliare indiscriminatamente i rami dell’albero proprio nel momento in cui ne stiamo osservando i germogli. Meglio semmai una potatura selettiva per aiutare il percorso di crescita.
Se la mancanza di valutazioni aggiornate approfondite consiglierebbe di dare stabilità alle misure preesistenti (tornando al 2022), è chiaro che, in base a quanto fatto finora e alle maggiori debolezze riscontrabili nel confronto internazionale, massima priorità andrebbe data ai beni immateriali 4.0, alla formazione 4.0 e alla ricerca e sviluppo. Si tratta peraltro di elementi che vanno insieme. Il fatto che siano tuttora pochissime le aziende in grado di lavorare con i dati e di applicare soluzioni di intelligenza artificiale è più da ascrivere alla mancanza di competenze che alla disponibilità dei dati (o di modelli di AI). E se si aiutano le competenze sia internamente (es. formazione) che esternamente (es. accordi con università e centri di ricerca) e allo stesso tempo si favorisce l’acquisto di software adatto di analisi dei dati, si può far fare un salto enorme all’innovazione delle imprese. Soprattutto concentrando gli sforzi sulle piccole e medie imprese e al contempo incoraggiando la crescita dimensionale delle micro-imprese, che come noto evidenziano il massimo deficit di produttività con gli altri Paesi più avanzati.
Gli aspetti da rivalutare
Da valutare, inoltre, oltre a una semplificazione e a un chiarimento dei termini di applicazione delle attuali misure (es. il credito d’imposta legato alla sostenibilità ambientale ed energetica delle imprese, che risulta peraltro oggi più attuale che mai), una revisione su due fronti: le tecnologie incluse negli allegati A e B ammessi ai crediti d’imposta e lo stesso strumento d’incentivo.
Sul primo versante, nonostante l’ampiezza dei beni materiali ed immateriali già inclusi, ciò che ad oggi non figura sono ad esempio le infrastrutture di rete abilitanti le comunicazioni tra dispositivi ed il rapido, sicuro ed efficiente trasferimento dei dati. Si tratta, a ben vedere, di un vulnus importante ove si consideri che praticamente tutte le più innovative tecnologie in grado davvero di rivoluzionare i processi e i modelli di business delle imprese esigono standard di connettività elevatissimi in termini di performance, sicurezza e stabilità. Le attuali misure, infatti, non consentono di accedere a benefici per l’installazione di fibra ottica dedicata ad alta capacità (superiore a 1 Gbps) che assume cruciale rilevanza nelle sedi produttive, né tantomeno l’installazione di reti private basate su protocollo 5G o di soluzioni di rete intelligente, basate sul software (SD-WAN), in grado di assicurare maggior flessibilità, sicurezza anche nel lavoro da remoto, ed un accesso sicuramente più efficace e sicuro a servizi cloud, data center privati e applicazioni aziendali basate su piattaforme SaaS.
Rispetto al tipo di strumento, posto che i crediti d’imposta sono probabilmente ideali per l’acquisto di beni e per le attività di ricerca e sviluppo previsti da Transizione 4.0, si potrebbero sperimentare forme di voucher per la formazione ma anche per veri e propri progetti di consulenza, specie rivolti alle piccole imprese, da indirizzare ad enti certificati (es. centri di competenza, digital innovation hub ma anche soggetti privati abilitati in possesso di determinati requisiti e a fronte di adeguata rendicontazione). In questo modo, si favorirebbe anche lo sviluppo e il consolidamento demand-driven di un mercato, quello della formazione digitale, che tarda a decollare e che risulta decisivo per la modernizzazione del Paese.
Conclusione
L’importante è che la revisione del piano Transizione 4.0 sia svolta bene, ascoltando le parti nonché gli esperti, e che diventi al più presto operativa. Evitando per il futuro vuoti e incertezze come quelli che si stanno vivendo in queste settimane e mesi. E per il futuro modificando l’impianto normativo solo se realmente necessario e possibilmente in base ad evidenze empiriche il più possibile robuste. Come si dovrebbe fare in un Paese serio come quello che un’attuazione efficiente del PNRR esige.