L'analisi

Transizione digitale, come spingere la ripresa: le priorità dalle competenze al 4.0

La transizione digitale è la vera leva per rilanciare il Paese, dopo il secondo anno dell’era Covid-19: i fondi, come quelli previsti dal PNRR, sono un’importante occasione di sviluppo, per cui vanno indirizzati in ambiti strategici dalla PA digitale alle imprese

Pubblicato il 02 Set 2021

Nicola Testa

Presidente U.NA.P.P.A. Unione Nazionale Professionisti Pratiche Amministrative

rete innovazione

Il vero acceleratore di sviluppo per una possibile rinascita del nostro Paese non potrà che essere la transizione digitale. Approssimandosi la fine dell’estate e la ripresa delle attività produttive, in questo secondo anno dell’era Covid-19, ci sentiamo di lanciare un messaggio al Governo e alle forze politiche su alcuni aspetti del PNRR che dovranno entrare in gioco fin da subito. La prima tranche di 24,9 miliardi di euro, corrispondente all’anticipo del 13% sui 191,5 miliardi di euro che la Commissione dell’Unione europea ha messo a disposizione dell’Italia fino al 2026, è infatti appena entrata nelle casse dello Stato.

Aquesto punto i progetti del PNRR devono prendere il via, anche perché il monitoraggio dell’UE sarà stringente e ai suoi riscontri in positivo sarà subordinata l’erogazione delle restanti quote del fondo. Basti pensare che 15,7 dei 25 miliardi circa del Piano dovranno essere spesi già entro il 2021, sebbene con questa prima tranche potranno essere coperte anche spese fatte nel 2020 per circa 1,6 miliardi. Il nostro è perciò una sorta di “messaggio nella bottiglia”, gettato nell’oceano dei suggerimenti e delle proposte che in queste settimane continuano ad arrivare al Governo.

Transizione digitale italiana: il nodo delle competenze

Nella ripresa del Paese dovremo necessariamente fare i conti con il basso livello di competenze informatiche di base e avanzate delle risorse umane del settore privato e pubblico, come mostrano costantemente gli indicatori del DESI Report sul grado di innovazione digitale dei paesi membri dell’Unione europea. E prepararsi a supportare nuovi scenari lavorativi in cui non tutte le risorse umane saranno in grado di stare da subito al passo con il cambiamento implica un’attenzione privilegiata verso un vero e proprio processo di riconversione professionale, in assenza del quale potrebbero innescarsi disparità economiche e sociali difficilmente ricomponibili. Innovare dimenticandosi di chi non sarà in grado di reggere le trasformazioni in atto significherebbe non riuscire a realizzare un’efficace transizione digitale.

PA digitale, perché dematerializzare è una priorità per migliorare l’efficienza

Pensiamo alla Pubblica amministrazione, dove peraltro è già in corso una riflessione su come favorire attraverso il ricambio generazionale e nuove modalità di selezione dei dipendenti pubblici per l’ingresso nella macchina dello Stato di risorse umane dotate di competenze tecnico-specialistiche. Ma non solo, anche il mondo delle imprese private manifesta luci e ombre sotto il profilo delle competenze digitali e richiede a sua volta l’inserimento di personale capace di favorire l’introduzione, governare e utilizzare gli strumenti digitali, come stanno a dimostrare i buoni esiti realizzati negli ultimi anni da misure quali i voucher per i manager dell’innovazione.

Il problema del digital divide

La crescente domanda di servizi, che impone su tutti i fronti (cittadini, imprese e Pa) un progressivo, ininterrotto e constante avanzamento nelle competenze digitali richiede anzitutto un investimento importante per la creazione delle competenze digitali di base che dovranno fare da sostrato alle azioni più avanzate della transizione digitale. Prioritario, in tal senso, sarà colmare il digital divide che ancora colpisce ampie fasce della popolazione e aree territoriali del nostro paese, al fine di evitare il manifestarsi di una forma di emarginazione socio-digitale che potrebbe colpire in modo particolare i ceti e gruppi sociali che nel corso dell’ultimo decennio sono già stati costretti a pagare i costi prima della crisi economica e poi dell’emergenza pandemica. Anche se francamente non so se i 195 milioni di euro destinati a questa operazione saranno sufficienti.

PA, semplificazioni e digitale: ecco i passi richiesti dalle aziende

È vero che si rafforzano i “centri di facilitazione digitale”, che obiettivamente credo ben pochi conoscano e che io stesso non so quali risultati abbiano finora prodotto, e che essi verranno affiancati da una sorta di “servizio civile digitale”, organizzato su base volontaria, con migliaia di punti di accesso fisici atti a favorire l’acculturamento informatico delle persone. Ma il volontariato, che resta una fra le risorse più importanti di cui dispone il nostro paese, specie in alcune regioni del centro-nord, non può rappresentare la principale carta per un’efficace alfabetizzazione digitale della popolazione. Al momento, si parla di bandi annuali, che potrebbero coinvolgere migliaia di giovani in un grande progetto finalizzato a diffondere rapidamente la cultura e le tecniche del digitale nel nostro paese. Aspettiamo di capire meglio di che cosa si tratti, tuttavia riteniamo che efficacia e rapidità di un piano di alfabetizzazione digitale su scala nazionale richieda l’apporto di tutti, a partire da quanti dispongono già oggi di competenze digitali in chiave professionale, e che tale apporto, laddove necessario, debba essere anche compensato.

PA digitale, il ruolo di PSN e ANPR

Veniamo poi alla Pubblica amministrazione, che sempre sul versante della digitalizzazione (condizione necessaria anche se non sufficiente per l’innovazione della macchina dello Stato) prevede un investimento mirato di 900 milioni di euro, strettamente collegato alla realizzazione di una nuova infrastruttura ibrida denominata “Polo Strategico Nazionale (PSN)”, finalizzata a garantire in sicurezza data storage e data mining, in condizioni di piena interoperatività europea, come base informativa per la gestione delle diverse applicazioni delle amministrazioni pubbliche. Un investimento di sicuro interesse anche per i privati, che potrebbero essere disposti a collaborare con la Pubblica amministrazione nella sua realizzazione, in primo luogo per l’importanza strategica che rivestirebbe l’esistenza di un’autostrada telematica sicura per chi, come le aziende, è interessato a tutelare la sicurezza e la privacy dei propri dati sensibili, dal punto di vista economico e produttivo.

Se poi pensiamo alla condivisione dei dati fra le diverse amministrazioni pubbliche, quelle stesse informazioni per cui viviamo l’eterno paradosso di disporre di molteplici e ben attrezzate banche dati incapaci però di parlarsi fra loro (ancora una volta, DESI Report docet!), possiamo davvero arrivare a immaginare un cambiamento di proporzioni straordinarie. A questo proposito, già il Decreto semplificazioni 2021 prevede lo sviluppo su tutto il territorio nazionale del circuito ANPR delle anagrafi pubbliche, che sarebbe un primo grande risultato rispetto a pratiche amministrative anche molto semplici, che fanno parte della nostra esperienza quotidiana, quali le certificazioni anagrafiche. E di qui poi il passo verso l’accelerazione e la semplificazione di parecchi altri adempimenti amministrativi, a cominciare da quelli di interesse per le imprese, potrebbe essere molto breve.

Giustizia, cosa cambiare

Un altro importante fronte, del quale si é molto parlato nelle prime settimane di questa calda estate, è quello della Giustizia, rispetto al quale si è lungamente discusso di giusto processo, prescrizione e altre importanti questioni rispetto alle quali la proposta di riforma della ministra Cartabia hanno certamente rappresentato un importante passo in avanti rispetto all’approccio del precedente Guardasigilli. Ma non dobbiamo però dimenticare che le preoccupazioni manifestate su questo fronte dalla Commissione europea, che hanno indotto le istituzioni comunitarie a fare della riforma della giustizia una conditio sine qua non per l’erogazione delle risorse del Recovery Plan, riguardavano sopratutto i tempi della giustizia italiana.

È per questo motivo che la riforma della giustizia non deve intendersi esclusivamente in chiave procedurale, ma deve puntare a una semplificazione e velocizzazione delle attività giudiziarie, a cominciare dai processi per arrivare alle procedure meno complesse, come il decreto ingiuntivo. E se pensiamo che nel momento in cui ci avviamo sulla strada della transizione digitale, e già disponiamo di cassetto fiscale e fattura elettronica nei rapporti con l’Agenzia delle Entrate, per un semplice decreto ingiuntivo è ancora necessario predisporre copia cartacea conforme di una serie di documenti fiscali che devono essere preventivamente vistati da un notaio, ci rendiamo facilmente conto di quanto lunga sia ancora la strada da percorrere sul terreno della giustizia, con tutte le implicazioni del caso rispetto agli incentivi che imprese nazionali ed estere dovrebbero avvertire per investire nel nostro paese.

Forse servirebbe introdurre un Tribunale delle imprese, o quanto meno un portale per le pratiche giurisdizionali che riguardano il mondo delle attività produttive, una soluzione in qualche occasione annunciata ma finora mai discussa in maniera da renderla praticabile. Eppure un portale giudiziario per le imprese potrebbe contribuire in maniera significativa a una riduzione dei tempi della giustizia, in modo tale da favorire anche la crescita delle attività economiche, non più costrette a pagare dazio ai tempi indeterminatamente lunghi di un’amministrazione giudiziaria che agisce a rilento.

L’importanza di Transizione 4.0 per la ripresa

Un’altra importante linea di investimento del Piano, sopratutto per l’entità delle risorse che fin da questa prima fase è destinata ad assorbire, è il programma Transizione 4.0, con i crediti di imposta per le imprese che investiranno in beni capitali, ricerca e sviluppo innovativo, green e design, oltre che in formazione alla digitalizzazione del proprio personale, e il Fondo Simest per l’internazionalizzazione delle Pmi. Sempre su questo fronte, e strettamente collegato a Transizione 4.0, una certa rilevanza riveste anche il “contratto di sviluppo”, che potrebbe favorire la crescita di reti e collaborazioni nello sviluppo di progetti di filiera e di hub per il trasferimento tecnologico. Un fronte che potrebbe rivelarsi strategico per l’innovazione del paese, soprattutto se si avesse la lungimiranza di riconsiderare il tema delle filiere non soltanto dal punto vista della produzione e della distribuzione di beni, ma anche rispetto all’insieme di servizi forniti dal mondo delle professioni, che sistematicamente integrano e supportano la parte produttiva e logistica nelle loro attività.

Perché puntare sulla formazione

Così come importante è il tema della formazione, il cui sistema di accreditamento dell’offerta attualmente attribuito alle Regioni andrebbe profondamente rivisto. Oggi, che occorre soprattutto formare risorse umane dotate di competenze tecnologiche avanzate, dobbiamo creare un sistema di accreditamento dell’offerta formativa in grado di rispondere ai nuovi bisogni di una forza lavoro in continua evoluzione invece che agli interessi dei soli addetti ai lavori.

La recente esperienza del reddito di cittadinanza, misura di per se importante, oltre che già presente in diversi paesi membri dell’Unione europea, ci deve servire da lezione. L’improvvisazione con la quale è stata prima concepita e poi introdotta ha fatto sì che non funzionasse come avrebbe dovuto, cioè da dispositivo temporaneo per favorire un nuovo ingresso nel mercato del lavoro a seguito di un percorso di riqualificazione professionale. Alla fine sembra sia risultata utile ai soli navigator che hanno personalmente trovato una nuova occupazione presso i centri per l’impiego che li avevano reclutati. Ma proprio questo sta a significare quanto sia difficile ma importante realizzare un meccanismo in grado di contemperare formazione, riqualificazione professionale e nuove opportunità occupazionali. E ciò a maggior ragione vale rispetto alle giovani generazioni, il cui potenziale di competenze, anzitutto in quanto native digitali, deve essere adeguatamente valorizzato è messo a frutto.

PNRR, come indirizzare i fondi per l’innovazione

La Missione “digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo”, cuba complessivamente 40,49 miliardi di euro, pari al 21% dell’intero PNRR. Risorse da investire per trasformare e rendere più efficaci meccanismi complessi, che vivono di una stretta interdipendenza reciproca. Imprese, pubbliche amministrazioni, mondo delle professioni sono i soggetti al centro di questi meccanismi. E affinché la transizione digitale possa realizzarsi compiutamente è indispensabile che tali soggetti vengano parimenti messi al centro di una serie di trasformazioni. Se parliamo di innovazione, pensiamo all’introduzione di processi digitali nelle attività produttive di migliaia e migliaia di aziende, piccole e grandi, così come pensiamo all’erogazione dei servizi della pubblica amministrazione attraverso portali telematici.

L’innovazione però non riguarda soltanto l’acquisizione di nuove infrastrutture tecniche o materiali, perché nella complessa interdipendenza fra i meccanismi che legano fra loro imprese, pubbliche amministrazioni e professionisti vi sono anche infrastrutture immateriali, il cui ruolo ai fini della transizione digitale è altrettanto decisivo di quelle tecniche o materiali. Stiamo parlando dei processi decisionali, ossia dei flussi di atti e decisioni che danno forma a comportamenti e pratiche. Pensiamo per esempio a una pratica amministrativa, per come viene oggi processata dai SUAP (sportello unico attività produttive) delle nostre amministrazioni comunali: spesso siamo infatti costretti a scontrarci con differenze procedurali abissali, fra un comune e l’altro, talvolta anche nell’ambito della stessa provincia o regione.

La digitalizzazione dei servizi

Proprio per questo, non possiamo fare a meno di pensare come l’innovazione sia anche legata alla dimensione immateriale dei procedimenti amministrativi, che per funzionare in maniera più efficace richiedono un grado di omogeneità e unificazione, sul lato sia del front office che del back office, ad oggi del tutto inesistente. Anche in questo caso, il Piano prevede uno specifico progetto di riferimento, inerente la “Digitalizzazione delle procedure e dei servizi”. Dobbiamo però ancora capire con quali soggetti le linee di azione previste da questo progetto verranno sviluppate.

Nella speranza che ciò non avvenga interloquendo in maniera privilegiata con soggetti che non hanno alcuna esperienza pratica e sul campo di come funzioni un procedimento amministrativo. Il miglioramento di infrastrutture immateriali come le procedure amministrative non può che realizzarsi attraverso il coinvolgimento degli addetti ai lavori: soltanto in questo modo risulta possibile intervenire concretamente su quelle pratiche, migliorandole a vantaggio dei soggetti che ne sono partecipi, oltre che dell’intera collettività. Oggi, che si profila all’orizzonte un vero e proprio cambiamento epocale per la nostra macchina dello Stato, dalle competenze del pubblico impiego ai modelli organizzativi dell’azione amministrativa, riteniamo sia quanto meno necessario che la Pubblica amministrazione abbandoni quell’autoreferenzialità che ne ha contraddistinto il confronto con gli interlocutori esterni nel corso del passato.

Le risorse messe a disposizione dal PNRR sono davvero ingenti, così come sono stretti i tempi relativi al completamento delle linee di investimento previste dal Piano. L’impegno deve essere a creare le condizioni più adeguate per adoperare questi fondi in maniera rapida ed efficace, secondo modalità che siano in grado di sfruttare al meglio tutte le potenzialità offerte dal tessuto imprenditoriale del paese, che non dobbiamo dimenticare è principalmente un tessuto fatto di aziende di piccole e medie dimensioni, che si accingono alla sfida della transizione digitale consapevoli della necessità di investire in competenze e processi nuovi, sebbene in molti casi non dispongano ancora delle risorse necessarie per affrontare tale sfida. In un contesto di questo tipo, potrà risultare decisivo rifarsi alla logica della sussidiarietà orizzontale, investendo della responsabilità di svolgere un ruolo attivo in questi processi tutti quei soggetti privati, a cominciare dal mondo dei professionisti, che hanno esperienza, capacità e competenze da mettere al servizio delle imprese e delle pubbliche amministrazioni, per accompagnarle nella transizione digitale fungendo da catalizzatori di questi nuovi processi.

Perché serve una platea di interlocutori più ampia

Un rilievo che ci sentiamo di muovere proprio al governo riguarda il difetto di partecipazione che ancora contraddistingue il percorso dell’implementazione delle linee di intervento del PNRR. Ancora una volta, infatti, quando si è trattato di aprire un confronto con corpi intermedi e forze sociali, che peraltro è avvenuto in tempi necessariamente ristretti, si è fatto riferimento ai soliti noti, dimenticando che il sistema produttivo del paese, e il PIL che esso ogni anno è in grado di produrre, non si esaurisce nel solo e ristretto novero dei soggetti tradizionali della rappresentanza degli interessi.

Un plauso al nascente elenco dei professionisti che la Pubblica amministrazione potrà arruolare anche le professioni associative non ordinamentali disciplinate dalla Legge n. 4/2013 già oggi presenti nel Registro previsto dal Mise. Tuttavia ciò non è sufficiente. Il sistema costruito a partire dalla suddetta legge è certamente fra i più avanzati fra quelli previsti per la disciplina delle libere professioni non ordinamentali a livello comunitario europeo, anche se occorre fare ancora di più. Il mondo delle professioni intellettuali è in continua evoluzione, nel nostro paese così come in gran parte degli altri Stati membri dell’Unione europea. E il modello di organizzazione tradizionale dei corpi professionali, attraverso ordini riconosciuti per diritto pubblico, non è più in grado di rispondere alle esigenze imposte dalle trasformazioni sociali. Occorre aprire alle nuove professioni e a forme di regolamentazione ispirate alla logica dell’autodisciplina, più resilienti al cambiamento e quindi in grado di riconoscere un ruolo attivo alle nuove professioni, in ragione della loro capacità di interpretare al meglio l’innovazione sociale e formulare nuove proposte per favorire la ripresa del paese.

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