banche e criptovalute

Unicredit chiude il mining bitcoin? Il caso non è isolato, ecco perché

La finanza decentralizzata è una grande sfida per gli istituti bancari tradizionali, così si spiega la decisione di Unicredit di chiudere il mining di Bitminer Factory stralciando 130 milioni di euro

Pubblicato il 05 Apr 2022

Roberto Culicchi

Of Counsel DWF (Italy)

bitcoin

La finanza decentralizzata oltre che un’opportunità rappresenta anche una grande sfida per gli istituti bancari tradizionali, dal momento che la possibilità offerta dalla DeFi (finanza decentralizzata) di garantire l’accesso ai servizi finanziari a tutti coloro che possiedono una semplice connessione internet pone in serio pericolo la presenza egemone degli intermediari finanziari vigilati in un settore economico di vitale importanza.

Così si spiega una notizia recente che proviene dall’estero, ma che ha protagonisti tutti italiani, e che vede coinvolta UniCredit, non nuova ad iniziative tese a porre un limite alle nuove forme di servizi finanziari legati all’utilizzo come forme di investimento di criptovalute e Bitcoin.

Il caso Unicredit e Bitminer Factory

DeFi: quanto vale il mercato, quali sono le applicazioni e i trend emergenti

In occasione della recente pubblicazione del proprio bilancio ad opera di UniCredit si è infatti potuto constatare l’esistenza di una voce di bilancio risultante nell’accantonamento di una cifra corrispondente a circa 130 milioni di euro, quale conseguenza di una richiesta di risarcimento danni avanzata da Bitminer Factory, una società che si occupa di mining di criptovalute avente sede legale in Italia e sede operativa in Bosnia.

I fatti di causa risalgono al 2021 ed hanno origine a Banja Luka, nella Bosnia-Erzegovina, ed il provvedimento che impone l’obbligo di questo maxi-risarcimento alla banca italiana è da ascriversi al tribunale locale.

Bitminer Factory è una società avente la propria sede operativa in Bosnia ma con sede legale in Italia, la cui attività principale consiste nel mining, ovverosia il processo di estrazione con cui si creano le nuove criptovalute.

Le ragioni della presenza della sede operativa di Bitminer Factory in Bosnia sono da ricondursi al fatto che il processo di estrazione con cui si creano le nuove criptovalute, il mining per l’appunto, è un processo ad alta intensità energetica, richiedendo  un impiego enorme di energia per funzionare, così che tradizionalmente tale attività in genere si concentra in alcune parti del mondo, come la Bosnia, dove l’elettricità è a buon mercato, a differenza di Paesi come l’Italia che, con i suoi costi esorbitanti per l’energia, non rappresenta certamente un luogo di attrazione per le società che fondano sulla tecnologia blockchain e sulle tecniche crittografiche il loro business model.

Nello specifico Bitminer Factory era infatti impegnata in un progetto che prevedeva la produzione di energia rinnovabile per il mining di criptovalute. In particolare  Bitminer Factory principalmente mirava ad avviare un progetto che consisteva nella produzione di energia rinnovabile, la quale sarebbe stata in parte venduta ad una società partner che si occupava di estrazione di criptovalute ed in parte destinata alla rete elettrica locale.

Per avviare questo progetto e raccogliere i fondi, l’azienda ha deciso di dar vita ad una Initial Coin Offering (una raccolta di fondi posta in essere dall’imprenditore caratterizzata dall’offerta di denaro in cambio di asset crittografici di nuova emissione quali crypto-asset, coin o token) al fine di accumulare i capitali e la liquidità iniziale necessaria per dar vita al progetto.

In particolare, i conti correnti bancari su cui Bitminer Factory contava di raccogliere i capitali necessari erano quelli della banca italiana UniCredit, nello specifico una serie di conti corrente aperti dalla stessa società presso la filiale UniCredit di Banja Luka in Bosnia.

UniCredit ha però unilateralmente deciso di chiudere i conti correnti intestati alla Bitminer Factory, impedendo di fatto a quest’ultima di avviare la propria attività crittografica.

Bitminer Factory ha così deciso di adire le vie legali e di citare in giudizio UniCredit, imputando alla banca italiana la causa dei propri mancati guadagni e di essere la diretta responsabile del fallimento del progetto, poiché la chiusura dei conti correnti ha sostanzialmente impedito all’azienda italiana di poter raccogliere i fondi necessari all’avvio dell’iniziativa. Il tribunale locale, accogliendo le richieste di Bitminer Factory, si è pronunciato in prima istanza contro UniCredit, condannandola dunque in primo grado al pagamento della cifra monstre di circa 130 milioni di euro e costringendo quindi il colosso bancario italiano ad accantonare nel bilancio 2021 la somma richiesta a titolo di risarcimento per i mancati guadagni della Bitminer Factory.

Analizzando più in dettaglio i fatti di causa, si scopre che, una volta che i capitali derivanti dalle prime sottoscrizioni effettuate in sede di ICO sono stati versati sul conto corrente aperto presso UniCredit, la banca ha immediatamente provveduto a restituirli al mittente adducendo la motivazione che alla banca non era possibile intrattenere rapporti d’affari con società in qualche maniera connesse al mondo delle criptovalute.

La chiusura immediata dei conti ha provocato l’impossibilità per per Bitminer Factory di poter raccogliere i fondi necessari allo sviluppo del progetto, con la conseguente necessità di dover sospendere il progetto stesso e la società ha deciso così di rivolgersi al tribunale locale.

La pronuncia del tribunale di Banja Luka, emessa a inizio anno e favorevole a Bitminer Factory, ha in primo luogo evidenziato come nessun documento contrattuale relativo all’apertura del conto corrente rimarcasse l’esistenza di un divieto ad operare in criptovalute. Analizzando più in dettaglio la motivazione contenuta nella sentenza si nota l’accoglimento della tesi promossa da parte attrice secondo la quale nel caso di specie di fatto Bitminer Factory non ha mai acquistato o venduto criptovalute ma ha unicamente cercato di finanziare l’avvio di un progetto legato all’energia rinnovabile solo indirettamente legato alle criptovalute e, in ogni caso, non ha finanziato direttamente un’azienda collegata alla nascita o l’estrazione di valute digitali.

UniCredit ha prontamente comunicato la propria intenzione di ricorrere in appello contro la pronuncia di primo grado, ma intanto va sottolineato come non sia la prima volta che la banca italiana sia al centro di polemiche in relazione alle criptovalute

Circa tre mesi fa, a gennaio 2022, UniCredit era stata bersagliata dai social perché era finito su Twitter uno scambio di email tra un dirigente e un cliente, scambio in cui la banca minacciava di chiudere i conti dei clienti che effettuavano transazioni verso “controparti emittenti valute virtuali o che agiscono da piattaforme di scambio”. In quella circostanza, le proteste erano addirittura culminate con la posa da parte di ignoti di una corona di fiori davanti ad una filiale UniCredit di Catania, tanto che nel tentativo di placare l’ira degli utenti social UniCredit si era poi precipitata ad affermare che non sussisteva alcun blocco operativo per i clienti desiderosi di effettuare transazioni in valute virtuali ma che semplicemente la banca intendeva mettere in guardia i propri correntisti dai rischi connessi ad un investimento in criptovalute.

Al di là delle considerazioni su quanto forme di reazione di natura macabra quale quella andata in scena a Catania siano giustificabili, non può non destare qualche perplessità il rapporto tra una banca, il rappresentante per eccellenza della finanza tradizionale, con il mondo digitale.

Alcuni commentatori hanno evidenziato che con la risposta fornita ai propri clienti, UniCredit ha dimostrato quanto la relazione tra i due mondi possa essere distante e tale distanza incolmabile se davvero una banca così grande e importante può addirittura imporre la chiusura del conto corrente ad un cliente che volesse utilizzare i propri capitali investendo nelle attività di controparti che agiscono comunque nella piena legalità.

Unicredit non è un caso isolato. Alcuni istituti bancari, anche italiani, temendo di essere depauperati del potere “centralizzato” da loro mantenuto per secoli ma anche coloro i quali di essi stanno cercando di aprirsi alla digitalizzazione, implementando nuovi strumenti – come, ad esempio, permettere l’acquisto di criptovalute all’interno delle proprie applicazioni – reagiscono effettuando scelte strategiche che appaiono tuttavia ancorate alle rigide e stringenti normative del mondo bancario tradizionale.

Le autorità e le criptovalute: ultimi sviluppi

In realtà la pronuncia del tribunale bosniaco, pur importante perché una delle prime in materia di criptovalute, deve essere contestualizzata con tutto quello che sta accadendo in questi ultimi mesi e che vede protagonista il mondo degli asset digitali.

Ad oggi l’atteggiamento delle autorità regolamentari nei confronti degli asset crittografici non è stato univoco, tanto che il presidente degli USA Joe Biden, seguito a ruota dalla Comunità Europea, ha di recente ordinato un rapporto esecutivo sulle criptovalute, gettando forse una base per le prime regolamentazioni di questi asset.

Tuttavia, in finanza, quello della regolamentazione è un argomento molto complesso e intricato, che proprio dopo la crisi del 2007-08 ha destato un’attenzione crescente, e che ha dato origine ad un dibattito tuttora aperto. Nell’epoca in cui viviamo, la tecnologia offre delle opportunità incredibili, in grado di rivoluzionare radicalmente ogni settore, incluso quello finanziario. Il problema normativo in ambito finanziario deriva dalla circostanza che l’innovazione finanziaria consente di eludere l’attuale regolamentazione, rendendo presto obsoleti gli strumenti di controllo esistenti. Molte delle iniziative legate al mondo della DeFi nascono come una diretta risposta alla regolamentazione. Sulla base delle nuove norme, si cerca di sfruttare la tecnologia emergente per variare il campo d’azione e muoversi al di fuori del quadro normativo. La regolamentazione è quindi spinta ad un’incessante rincorsa, estendendosi in pervasività e complessità.

La questione fondamentale e dibattuta diventa dunque comprendere se questa richiesta incessante di produzione normativa volta a regolare le nuove forme di servizi finanziari sia efficace a prevenire i rischi sistemici o se invece non finisca addirittura per amplificarli.

A ciò si aggiunga la considerazione che, mentre molti sistemi finanziari si sono originariamente evoluti come forme di ordinamento privato o quadri di autoregolamentazione, nel tempo gli Stati hanno assunto un ruolo crescente in risposta proprio ai fallimenti dell’ordinamento privato e dell’autoregolamentazione, che tendono a manifestarsi periodicamente in caso di crisi finanziarie. Chiaramente non esiste una formula risolutiva per bilanciare autoregolamentazione e intervento pubblico nei mercati. Ogni Stato è una realtà diversa, con diverse risorse a disposizione, quindi talvolta è necessario un intervento deciso da parte dello Stato, altre volte è più efficiente lasciar spazio all’autoregolamentazione. Il confine tra deregulation e overregulation può infatti risultare più labile di quanto si possa immaginare.

La disruption in atto sta divenendo sempre più profonda per il sistema bancario e finanziario internazionale, tanto che si calcola che attualmente il capitale bloccato sotto forma di token, ovvero il capitale investito tramite la DeFI, sia pari ad un totale di circa 14 miliardi di dollari.

Del resto, è ormai ampiamente conclamato che le caratteristiche di interoperabilità e accessibilità dei servizi della finanza decentralizzata hanno il potenziale di creare un mercato finanziario inclusivo e globale, con la conseguenza che spesso gli attuali equilibri geopolitici, le regolamentazioni e le prassi nazionali corrono il rischio di marcare il passo se non, almeno in alcune circostanze, di apparire obsoleti.

Un dato di fatto inconfutabile è rappresentato dalla circostanza che la spinta inarrestabile alla condivisione e decentralizzazione posta in atto dalle piattaforme DeFi nei confronti del mondo bancario tradizionale ha di fatto provocato la reazione, a volte inconsulta, del mondo finanziario tradizionale nei confronti dei soggetti che offrono questa tipologia di servizi innovativi.

Sul tema della regolamentazione ancora mancante si inserisce poi il dibattito tra coloro i quali optano per una politica restrittiva fortemente limitante, che potrebbe però comportare il rischio di portare ad una chiusura della DeFi e di tutto il modo cripto e coloro i quali sostengono che una regolamentazione più flessibile possa maggiormente tutelare gli utenti e contribuire a portare maggiore serenità nel panorama DeFi, favorendone dunque l’espansione. Anche dalla risoluzione di questi problemi dipende il futuro della DeFi e la risposta alla domanda se quest’ultima possa effettivamente costituire e dare luogo ad un nuovo paradigma di finanza basata su concetti quali la decentralizzazione, l’apertura e la trasparenza.

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