Il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, lo scorso 30 luglio ha firmato un acceso editoriale sulle “parole malate” utilizzate nel Regolamento UE sui dati personali (GDPR), squalificato in alcuni passaggi a “linguaggio burocratico”, con specifico riferimento al concetto di “origine razziale” nel novero dei dati sensibili.
Insegnando e facendo ricerca su questi temi, negli ultimi cinque anni mi sono spesso imbattuto in quella problematica frase anche io, con lo stesso disagio e sgomento che lei ben riporta nel suo editoriale: come possiamo accettare che si parli ancora di “razza”?
Gdpr e il concetto di razza
Per fortuna, però, la soluzione è offerta da quello stesso Regolamento 2016/679 che Molinari cita. Nel preambolo, al “considerando” 51, si legge: “l’utilizzo dei termini «origine razziale» nel presente regolamento non implica l’accettazione da parte dell’Unione di teorie che tentano di dimostrare l’esistenza di razze umane distinte”.
Nonostante questa spiegazione – che non si trovava nel testo originale della proposta legislativa, ma è stata aggiunta in sede di approvazione – non sia la soluzione definitiva alle sue (e mie) perplessità, ritengo questo chiarimento quantomeno necessario ad evitare che parole “ambigue” diventino parole “malate”.
La protezione dei dati personali è un diritto fondamentale garantito dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea: il suo scopo è, tra gli altri, prevenire trattamenti illeciti o discriminatori di dati personali. Dunque, contaminare il testo del Regolamento europeo con un linguaggio ambiguo ha una precisa finalità: evitare che la raccolta di dati con finalità “razziste” possa essere in qualche modo considerato lecito nelle lacune lasciate da un legislatore timido rispetto a questo tema.
Del resto, basta guarda al diritto nazionale per rendersi conto che lo stesso ragionamento fu utilizzato dai nostri Padri Costituenti. L’articolo 3 della nostra Costituzione menziona esplicitamente la parola “razza”, col fine di prevenire qualsiasi forma di discriminazione razziale in Italia. Lo stesso ha poi fatto la Carta dei Diritti dell’Unione Europea all’Articolo 21.
Questo esempio, però, pare essere uno spunto prezioso per riflettere più in generale sul potere performativo del linguaggio (e del linguaggio giuridico, in particolare) anche e soprattutto quando si affronta il tema dell’emarginazione e della discriminazione. In altri termini, è giusto nominare categorie emarginate o pratiche ingiuste col rischio di stigmatizzare quelle categorie ancora di più o di legittimare le teorie alla base di quelle pratiche?
Questo tema, che si può osservare nei decenni in tanti tipi di dibattito (basti pensare agli studi in ambito femminista o post-coloniale), ci ricorda che il fine ultimo del diritto dell’Unione Europea è tutelare pragmaticamente la persona umana nella sua dignità e nei suoi diritti fondamentali e prevenirne perciò qualsiasi “danno”.
Per raggiungere questo fine (ad es., contrastare i “razzisti”), il mezzo può essere a sua volta problematico (accettare la parola “razza”), ma nel bilanciamento tra rischi e benefici il legislatore europeo ha ben pensato di chiarire – nel suddetto preambolo – che usare termini problematici non vuol dire avallare teorie dannose. In sostanza, meglio un’interpretazione conforme che una timida lacuna.