Intelligenza artificiale, automazione, robotica, trasformazione digitale stanno cambiando in maniera radicale il mondo del lavoro. Accelera la quantità di studi che provano a tracciare i confini di un fenomeno che pone sfide epocali alla nostra società. Uno dei rischi più probabili sembra quello non della disoccupazione di massa (evocato in precedenza) bensì quello di un aumento delle diseguaglianze sociali.
Intelligenza artificiale, l’impatto su occupazione e salari: luci e ombre
Da ultimo secondo uno studio italiano, quattro milioni di lavoratori rischiano un de-mansionamento delle loro attività, con riduzione di stipendio. In tutto sarebbero 7 milioni i posti di lavoro a potenziale rischio disoccupazione, ma forse la metà, se prendiamo in considerazione fattori come l’impatto dell’invecchiamento della popolazione e soprattutto le sfide e le nuove opportunità del mercato del lavoro nell’era dell’AI e dell’automazione. Infatti, il lavoro evolve e i lavoratori possono riqualificarsi e riconvertirsi nel mondo dei servizi.
Ne abbiamo parlato con gli esperti, Sandro Trento, professore ordinario del dipartimento di Economia e Management dell’Università di Trento e tra gli autori dello studio, e Giovanni Miragliotta, direttore dell’Osservatorio Industria 4.0 del Politecnico di Milano.
Il ruolo dell’automazione nell’aumento delle diseguaglianze e disoccupazione
Aumentano le disuguaglianze e la disoccupazione, mentre avanza l’automazione. “Le ragioni sono varie”, commenta Sandro Trento, professore ordinario del dipartimento di Economia e Management dell’Università di Trento, “una di queste è legata al cambiamento tecnologico, perché ha la caratteristica di accompagnarsi a un premio per le persone a maggiore qualificazione”.
Significa che il cambiamento tecnologico in atto premia alcune professionalità, talenti e competenze e invece penalizza altre categorie di lavoratori: “E questo fa sì che in alcune categorie sono aumentati i posti di lavoro e le remunerazioni: se ne sono avvantaggiati i lavoratori con competenze tecnologiche e scientifiche e tutta una serie di altre persone che sono in grado di sfruttare tutte le opportunità maggiori offerte dalle tecnologie digitali (trasformazione digitale, automazione, big data, Analytics eccetera) per trarre beneficio dal cambiamento tecnologico; viceversa c’è una platea vasta di persone che o sono a rischio di disoccupazione o che comunque subiscono un de-mansionamento delle loro attività, con riduzione dei salari. Un fenomeno che gli economisti definiscono polarizzazione del mercato del lavoro, in cui abbiamo due poli: quello di chi se ne avvantaggia e il polo, più ampio, di chi invece ne viene penalizzato”.
Il confronto con il fordismo
“Nella storia però non è sempre stato così”, continua il professor Trento, “nella grande impresa fordista, nella catena di montaggio, un modello giunto in Europa dopo la seconda guerra mondiale, il cambiamento tecnologico era progettato per dare lavoro a grandi masse di persone a bassa qualificazione, perché il principio era di semplificare i task, le mansioni svolte dalle persone in modo tale da semplificare il lavoro secondo la famosa, brutale espressione di Henry Ford ‘Macchinari che anche una scimmia saprebbe utilizzare’”.
“Nell’era fordista si creavano tanti posti di lavoro per persone a bassa qualificazione, ma oggi c’è una complementarietà fra capitale umano e tecnologie”, continua il professor Trento: “quanto maggiore è il capitale umano, tanto maggiore sono le opportunità. Però questa era la convinzione degli economisti fino a qualche tempo fa, quando ancora credevano che bastasse avere un’alta qualifica per percepirsi protetti dal rischio di disoccupazione tecnologica. Oggi invece non è più così certo: studi recenti e l’evoluzione dell’intelligenza artificiale (AI) ed altre tecnologie fanno sì che anche lavori che prevedono titoli di studio elevati possano essere a rischio disoccupazione.
Questa potrebbe essere una delle tendenze dei prossimi anni: nel settore medico ‘macchine intelligenti’ sono in grado di fare le diagnosi, mentre i robot imparano anche a svolgere operazioni chirurgiche, dunque non è sufficiente possedere un’alta qualificazione per essere al riparo dal rischio di disoccupazione nell’era dell’automazione”.
L’automazione minaccia gli equilibri del lavoro: il dibattito internazionale
Un recente articolo del New York Times fa il punto sul dibattito internazionale dove un crescente numero di economisti si dicono preoccupati per il rischio diseguaglianze sociale, sul lavoro, che derivano dall’automazione. Alcuni lavoratori si troveranno se non disoccupati costretti a part time o con paghe ridotte.
Daron Acemoglu, un influente economista del Massachusetts Institute of Technology, parla contro quella che chiama “eccessiva automazione”.
La metà o più del crescente divario nei salari tra i lavoratori americani negli ultimi 40 anni è attribuibile all’automazione di compiti precedentemente svolti da lavoratori umani, soprattutto uomini senza laurea, secondo alcune delle sue recenti ricerche.
La globalizzazione e l’indebolimento dei sindacati hanno giocato un ruolo. “Ma il fattore più importante è l’automazione”, ha detto Acemoglu.
Paul Romer, che ha vinto il Nobel per la scienza economica per il suo lavoro sull’innovazione tecnologica e la crescita economica, ha espresso allarme per il potere di mercato e l’influenza incontrollata delle grandi compagnie tecnologiche. “Gli economisti hanno insegnato: ‘È il mercato. Non c’è niente che possiamo fare”, ha detto in un’intervista l’anno scorso. “Questo è davvero così sbagliato”.
Anton Korinek, un economista dell’Università della Virginia, e Joseph Stiglitz, un Nobel per l’economia alla Columbia University, hanno scritto un documento, “Steering Technological Progress”, che raccomanda passi che vanno da stimoli per gli imprenditori a cambiamenti fiscali per perseguire “innovazioni favorevoli al lavoro”.
Erik Brynjolfsson, un economista di Stanford, è un ottimista della tecnologia in generale. Ma in un saggio che sarà pubblicato questa primavera su Daedalus, la rivista dell’Accademia Americana delle Arti e delle Scienze, mette in guardia dalla “trappola di Turing”. La frase è un riferimento al test di Turing, dal nome di Alan Turing, il pioniere inglese dell’intelligenza artificiale, in cui l’obiettivo è che un programma informatico si impegni in un dialogo in modo così convincente da essere indistinguibile da un essere umano.
Per decenni, il Brynjolfsson ha detto, il test di Turing – eguagliare le prestazioni umane – è stata la metafora guida per i tecnologi, gli uomini d’affari e i politici nel pensare all’I.A. Questo porta a sistemi di I.A. che sono progettati per sostituire i lavoratori piuttosto che migliorare le loro prestazioni. “Penso che sia un errore”, ha detto.
Dagli anni 80 è cresciuta la diseguaglianza, ai danni dei lavoratori, nelle economie evolute. C’è stato un costante progresso delle tecnologie di automazione cruciali – robot e macchine computerizzate in fabbrica, e software specializzato negli uffici. Per stare al passo, i lavoratori avevano bisogno di nuove competenze.
Tuttavia il cambiamento tecnologico si è evoluto mentre la crescita dell’istruzione post-secondaria è rallentata e le aziende hanno iniziato a spendere meno per la formazione dei loro lavoratori. “Quando la tecnologia, l’istruzione e la formazione si muovono insieme, si ottiene una prosperità condivisa”, ha detto Lawrence Katz, un economista del lavoro ad Harvard. “Altrimenti non è così”.
L’aumento del commercio internazionale tendeva a incoraggiare le aziende ad adottare strategie di automazione. Per esempio, le aziende preoccupate dalla concorrenza a basso costo del Giappone e poi della Cina hanno investito in macchine per sostituire i lavoratori.
Oggi, la prossima ondata di tecnologia è l’intelligenza artificiale. E Acemoglu e altri dicono che può essere utilizzata principalmente per assistere i lavoratori, rendendoli più produttivi, o per sostituirli.
Acemoglu e Restrepo hanno pubblicato articoli sull’impatto dei robot e l’adozione di “tecnologie così così” (come le chiamano so so technologies).
Le tecnologie così così sostituiscono i lavoratori ma non producono grandi guadagni di produttività. Come esempi, Acemoglu cita i chioschi di self-checkout nei negozi di alimentari e il servizio clienti automatizzato al telefono.
Oggi vede troppi investimenti in queste tecnologie così così, il che aiuta a spiegare la crescita lenta della produttività nell’economia. Al contrario, le tecnologie veramente significative creano nuovi posti di lavoro altrove, sollevando l’occupazione e i salari.
L’ascesa dell’industria automobilistica, per esempio, ha generato posti di lavoro nelle concessionarie, nella pubblicità, nella contabilità e nei servizi finanziari.
Le forze di mercato hanno prodotto tecnologie che aiutano le persone a fare il loro lavoro piuttosto che sostituirle. Nell’informatica, gli esempi includono database, fogli di calcolo, motori di ricerca e assistenti digitali.
La via dell’automazione rischia di non portare uguali benefici.
Quali sono le professioni al riparo dal rischio automazione
“La mia ricerca”, spiega Sandro Trento, “si fonda su un approccio che prende in esame le mansioni più che le occupazioni (a rischio di essere rimpiazzate dall’automazione). In base a questo approccio, potrebbero essere 7 milioni i lavoratori a rischio di disoccupazione, ma l’approccio più appropriato consiste nel cercare di capire quali sono le attività umane che corrono il maggior rischio di sostituzione: le attività di natura routinaria e ripetitiva, svolte anche in attività di medio-alta qualificazione”.
Invece le attività che le macchine non riescono a rimpiazzare sono quelle più umane: “Sì, quelle che prevedono giudizi di tipo estetico: il cuoco è un professionista in grado di percepire odori e sapori, che usa tutti i sensi. In questa direzione è anche il parrucchiere che non solo sa tagliare i capelli, bensì scegliere un taglio che si adatti al viso del cliente, operando giudizi di tipo estetico”, mette in risalto il professor Trento.
“Le attività che rischiano meno di essere sostituite dalle macchine comportano attività sensoriali e giudizi di tipo estetico, ma anche attività di intelligenza sociale (legate a tessere relazioni con gli altri): gli insegnanti (che non ripetono solo le lezioni, ma hanno anche empatia e sensibilità per capire se gli studenti seguono con interesse e capiscono – lo abbiamo visto con la DAD quanto contano queste caratteristiche nell’insegnamento), lo psicologo, il consulente e le attività di cura della persona, le attività di tipo creativo-artistico dove la componente di discrezionalità non è ancora alla portata delle macchine. In generale, le attività umane e al riparo dal rischio di sostituzione rientrano in tre categorie: capacità relazionali, capacità basate su discrezionalità di tipo sensoriale e creativo, capacità sociali“.
Le tendenze in atto
L’approccio basato sulle mansioni e non sulle occupazioni stima che in Italia il rischio disoccupazione cali a 4 milioni di persone. “Ma vogliamo essere meno pessimisti”, prosegue Trento: “queste sono stime potenziali, date le tecnologie esistenti oggi, date le caratteristiche delle attività. Inoltre, nell’economia italiana una serie di fattori potrebbe ostacolare o almeno frenare questa tendenza:
- la struttura delle piccole imprese (che utilizzano meno queste tecnologie per motivi di costi, di organizzazione e mancanza di competenze);
- il capitalismo basato sulla proprietà familiare in cui l’imprenditore ha maggiore sensibilità verso i dipendenti rispetto alle grandi multinazionali;
- la composizione settoriale: agri-food, moda, calzature, dove le tecnologie hanno un impatto leggermente inferiore rispetto alla manifattura di Industria 4.0.
Re-skilling per chi perde il lavoro per l’automazione
La stima dei 7 milioni di disoccupati (secondo l’approccio occupazionale), ma 4 milioni (secondo l’approccio basato sulle funzioni e mansioni effettivamente svolte) è solo una previsione, “fra l’altro dovuta al ritardo dell’Italia nell’introduzione delle tecnologie rispetto ad altri Paesi dove il processo di sostituzione è già avvenuto o comunque è più avanti”, continua Trento: “Alla luce di quanto abbiamo spiegato, bisogna ripensare il nostro sistema scolastico, valorizzando la creatività, le relazioni umane e l’intelligenza emotiva, e in più è necessario mettere in piedi un sistema di formazione permanente come nel Nord Europa che consenta la riqualificazione delle persone a rischio disoccupazione. Il re-skilling è un processo complesso, perché chi rischia di più la disoccupazione ha in genere bassa qualificazione o è in quella fascia d’età che non vuole rimettersi in gioco”.
Effetto automazione: la creazione di nuovi lavori
Finora abbiamo parlato della fase di distruzione di posti di lavoro, ma c’è anche una creazione di posti di lavoro? “Le nuove tecnologie generano anche nuovi posti di lavoro“, sottolinea Sandro Trento “quelli necessari a produrre automazione e AI, e quelli necessari a realizzare i prodotti dell’introduzione delle nuove tecnologie. Ma è un aspetto controverso: le aziende che usano in maniera massiccia queste tecnologie non hanno un numero enorme di dipendenti, anzi, in genere sono piuttosto snelle” anche rispetto, per esempio al loro immenso valore di borsa. “Infatti, la fase creatrice dopo la distruzione non crea tanti posti di lavoro come un tempo. Nel confronto fra i colossi dell’automotive, dell’acciaio, del petrolifero negli anni ’60 del secolo scorso e le Gafa (Google, Apple, Facebook e Amazon) di oggi dimostra che i posti di lavoro creati dalle Big tech sono quasi irrisori rispetto al passato (nei settori tradizionali), proprio per l’utilizzo intensivo di AI, automazione, Big data, Analytics eccetera”.
Altri effetti dell’automazione: la riduzione delle ore di lavoro
Il grande aumento di produttività, grazie all’introduzione dell’automazione, potrebbe però avere anche altri impatti. “Una strada è la riduzione delle ore di lavoro“, continua Sandro Trento “come già avvenuto negli ultimi 250 anni dalla prima rivoluzione industriale, quando gli operai lavoravano 15-12 ore al giorno per arrivare all’orario di oggi. Questo processo potrebbe riprendere quota”.
Bill Gates ha proposto la via della tassazione dei robot. “Tema più controverso“, ci spiega Trento, perché “la strada della tassazione dei robot, secondo alcuni, sarebbe giusto per scoraggiare l’utilizzo dei robot (rendendo più conveniente il lavoro umano), ma, secondo altri, questo approccio avrebbe un effetto negativo sulla produttività delle imprese.
L’altra strada è quella di creare posti di lavoro nelle attività a minor rischio di sostituzione: “Esatto, il settore della cura della persona, sanitario, educativo, ricreativo (entertainment), turistico eccetera. Alcuni comparti come il manifatturiero registreranno una riduzione di posti di lavoro, ma potremmo assistere a una riduzione degli orari di lavoro e allo sviluppo di una serie di servizi legati alla cura della persona che potrebbero generare maggiori opportunità. Infine fare previsioni oggi sul futuro è quasi impossibile: quella che oggi è un’attività umana come l’avvocato potrebbe essere difficile da automatizzare, mentre altre professioni potrebbero essere automatizzabili più facilmente. Ma nuovi prodotti e nuovi servizi creati dall’AI e dall’automazione – che neanche immaginiamo – potrebbero aprire nuovi scenari. L’importante è iniziare a quantificare l’impatto dell’automazione e delineare gli scenari delineati dalla disoccupazione tecnologica. E soprattutto bisogna dire che, poiché scuola e formazione sono i nodi centrali per offrire ai ragazzi le competenze giuste richieste dal mercato del lavoro, è necessario riprogettare la scuola dalle elementari per avviare il re-skilling dei lavoratori del futuro, mentre si cerca di capire quali sono i settori dove più forte è l’impatto dell’automazione”.
L’automazione in Italia è una necessità, non un problema
Per approfondire il tema dell’automazione, abbiamo chiesto l’opinione di Giovanni Miragliotta, direttore dell’Osservatorio Industria 4.0 del Politecnico di Milano, che esprime ottimismo: “Come Osservatori del Politecnico di Milano, periodicamente stiamo monitorando da due anni l’impatto dell’automazione nel mondo del lavoro: stimiamo 3-3,5 di posti di lavoro equivalenti persi in quindici anni (dove per equivalenti si intende anche quota di tempo liberata sommata fino a equivalere a un posto di lavoro). Nello stesso orizzonte temporale, stiamo monitorando di quanto si ridurrebbe anche l’offerta: per effetto dell’invecchiamento della popolazione, considerando le dinamiche dell’immigrazione, dal mercato del lavoro sparirebbe circa un milione e mezzo di posti di lavoro. Inoltre c’è un incremento della domanda di lavoro che deriva dall’invecchiamento della popolazione, dalle aspettative di crescita della qualità della vita, stimati in altri 3 milioni di posti di lavoro equivalenti che servirebbero per curare la popolazione più anziana e per assicurare un ragionevole tasso di crescita in tre lustri della qualità sociale di vita”.
“Dunque, da un lato, mancheranno 1,5 milioni di lavoratori che non verranno rimpiazzato (senza dunque sostituzione da parte di immigrati con analoghe competenze), dall’altro ci sarà una domanda crescente – a pari tecnologie – che richiederebbe 3 milioni di posti di lavoro per far fronte alle nuove esigenze di una composizione demografica che cambia, dunque, l’automazione è una necessità e non un problema”.
Dobbiamo affrontare il futuro: quali ricette per farlo bene
Non dobbiamo temere l’introduzione dell’automazione, “anzi è una necessità. Un esempio: come Business School, abbiamo introdotto un enorme motore di raccomandazione alimentato da algoritmi AI – in funzione delle competenze ed altri fattori – per aiutare gli ex alumni a riconvertirsi nell’era dei servizi”. Funziona e dovrebbe essere esteso a tutti gli italiani. “Per esempio”, conclude Miragliotta, “servono nuovi servizi – come le analisi mediche anche a domicilio, perché se Amazon mi porta a casa in mezz’ora ciò che ho comprato sul sito di eCommerce, voglio poter accedere a servizi simili anche in altri campi. Se l’AI migliora la qualità della vita di tutti, ben venga l’intelligenza artificiale che non fa perdere posti di lavoro, perché sono posti che non esistono già per effetto demografico”.
La questione dell’automazione va dunque guardata da nuovi punti di vista, senza pregiudizi ed eccessive preoccupazioni. Il rischio di disoccupazione c’è, ma va ridimensionato, alla luce dei nuovi studi sul tema.
Ciò che serve è un più robusto sistema educativo e un sistema di re-skilling e formazione permanente, coadiuvato anche dagli algoritmi di intelligenza artificiale, per fornire la più appropriata cassetta degli attrezzi ai ragazzi di oggi, lavoratori di domani. Perché possiamo perdere il lavoro, ma abbiamo anche la possibilità di studiare e prepararci per reinventarci e riorientare la nostra carriera alla luce delle nuove opportunità offerte dal mercato del lavoro che cambia.
D’accordo Acemoglu che, con altri, cita la necessità di serie politiche pubbliche sia sul lavoro sia sulla tassazione e il reddito di base.
Insiste sul fatto che un approccio hands-off e di libero mercato è una ricetta per allargare la disuguaglianza, con tutti i mali sociali che ne derivano. Un importante passo politico, raccomanda, è un trattamento fiscale equo per il lavoro umano. L’aliquota fiscale sul lavoro, comprese le imposte sui salari e sul reddito federale, è del 25%. Dopo una serie di agevolazioni fiscali, l’attuale tasso sui costi delle attrezzature e del software è vicino allo zero.
Programmi di istruzione e formazione ben progettati per i lavori del futuro, ha detto Acemoglu, sono essenziali. Ma crede anche che lo sviluppo tecnologico dovrebbe essere indirizzato in una direzione più “a misura d’uomo”. Prende ispirazione dallo sviluppo delle energie rinnovabili negli ultimi due decenni, che è stato aiutato dalla ricerca del governo, dai sussidi alla produzione e dalla pressione sociale sulle aziende per ridurre le emissioni di carbonio.
“Abbiamo bisogno di reindirizzare la tecnologia in modo che funzioni per le persone”, ha detto Acemoglu, “non contro di loro”.